Undici Novelle
LUCA SCANTAMBURLO UNDICI NOVELLE YOUCANPRINT SELF-PUBLISHING
Undici Novelle © Luca Scantamburlo Novembre 2013 ISBN: 9788891126566
I edizione digitale Youcanprint.it Self Publishing, www.youcanprint.it, Tricase (Lecce)
Proprietà letteraria riservata. all rigths reserved Prima di copertina: elaborazione grafica dell'autore su foto Mask © Artem Mykhailichenko - Fotolia, in licenza L.
Avvertenza dell’autore Questo libro è una raccolta di novelle. ogni riferimento a fatti, nomi o persone realmente esistenti è puramente casuale in quanto scaturisce da finzione letteraria; i protagonisti e le vicende narrate sono frutto della fantasia dell'autore, con l'eccezione di alcuni personaggi storici (quali ad esempio G. Rodenbach ed Andrea Bafile), immaginati in situazioni fantastiche.
Rodenbach
Il fazzoletto scarlatto
La fisarmonica di Dio
La Tela
Mir Miru
Svetlana
Ultimo atto
La stampante del Diavolo
Incontro con la fortezza naufraga
Ultimo pensiero di un padre
L'agnello in salsa di menta
L'AUTORE
Dedicato alla memoria della professoressa Luigia Fanello
Rodenbach i
La carrozza costeggiava la riva sinistra della Senna sollevando spruzzi ed ondate d’acqua ogni qual volta incontrava una pozzanghera. All’altezza del Louvre che con la sua imponente mole domina l’altra riva, il postiglione fermò i cavalli per soffiarsi il naso. "Maledetto tempo! Sono due giorni che piove così!" "Ci sono problemi cocchiere?" La voce proveniva dall’interno della carrozza. "No, non si preoccupi dottor Philippe. Siamo quasi arrivati. Ah, Ah! Belli! Avanti! Ah!" E di nuovo le ruote giravano sferzando l’acqua delle strade di Parigi, dove di tanto in tanto rimbombava, moltiplicandosi all’infinito contro edifici e muri, il rumore dei tuoni. Giunto al Pont d’Iéna il postiglione attraversò il fiume e proseguì fino al Champ de Mars. Nonostante le nubi gonfie di piogge ed un vento tagliente, il Dottor Philippe volle aprire la porta di poco per sporgersi ed ammirare la torre metallica progettata dal famoso ingegnere Gustave Eiffel. Era la prima volta che il medico Philippe la vedeva. La torre era lì da nove anni ma egli tornava nella sua città natale dopo più di un decennio trascorso all’estero a lavorare con il professor Sigmund Freud. La torre, di forma quadrangolare a facce concave, era così alta che la sua cima si perdeva fra le nubi nere e bluastre. Philippe stava vivendo un’epoca di rivoluzioni in tutti i sensi e si sentiva quasi un privilegiato. Mai nella storia si erano visti tanti cambiamenti e tanti audaci sfide dell’ingegno umano. Ed egli, medico alienista, era un pioniere nella ricerca delle cause della follia. Purtroppo in quel campo i successi e le sconfitte si alternavano senza esclusione di colpi, rendendo talvolta vani sforzi e studi d’anni interi.
La carrozza arrestò la sua corsa davanti ad un palazzo signorile. "Siamo arrivati, dottore." Il cocchiere scese dal sedile. Scaricò i bagagli del medico ed andò alla scaletta per aiutare il dottore a scendere. Questi, tutto intabarrato, frugò con difficoltà nelle tasche e pagò il postiglione che si congedò con ossequi. Quando Philippe salì i pochi gradini che lo separavano dall’ingresso del palazzo, la carrozza era già sparita dietro l’angolo del quartiere. Batté la porta decisamente e si presentò con voce tonante. "Sono il Dottor Philippe! Vengo da Vienna. Aprite ! Presto!" Poco dopo la porta si aprì ed all’ingresso una domestica grassoccia ed una donna elegante, esile e dagli occhi sproporzionati, lo accolsero sulla soglia. "Dottor Philippe?" "Finalmente! Sto congelando! "Oh, perdonatemi! Venite! Prego." Il dottore si fece avanti mentre la domestica gli prese i bagagli. Una volta dentro, questa l’aiutò a togliersi il mantello bagnato fradicio. L’uomo e la padrona di casa presero posto davanti al camino del salotto dove finalmente il dottor Philippe, scosso da tremiti, poté scaldarsi le mani intirizzite dal freddo. "Non sapete quanto sia felice di vedervi.", esordì il suo anfitrione. "Non sapete quanto io sia felice di vedervi. Con questo tempo… Voi siete la Signora…" "Rodenbach. Lieto di conoscervi professore." "Il viaggio è stato lungo e difficile. Sono giorni che staziona sull’Europa centrale questa perturbazione, e la temperatura continua a scendere." "Vienna è imbiancata?" "Sì lo è." La donna, vedendo la domestica ferma sulla soglia nella attesa d’ordini, le fece
un cenno. Questa scomparve, silenziosa, per tornare dopo un minuto con un tè caldo e dei biscotti che servì al dottore. "Siete molto gentile Signora Rodenbach. Grazie." "Il minimo per il Vostro disturbo. Più tardi Brigitte vi farà vedere il bagno e la vostra stanza." "Sapete, se sono venuto qui non è stato solo per la stima che ho per vostro marito, uno dei poeti e narratori più valenti che il Belgio e la Francia abbiamo mai avuti, ma anche perché dalla vostra lettera ho colto la disperazione che vi pervade. Il consultare tutti quei medici che mi avete nominato, invano, devono avervi…" "Vi prego, Dottor Philippe, non dite altro. Andiamo di sopra al più presto. Mio marito peggiora di giorno in giorno." "Sì, avete ragione, non indugiamo oltre. Ebbene, fatemi strada." Salendo le scale, il dottor Philippe notò che tutti gli specchi della casa erano coperti da panni o lenzuola. Al piano di sopra la Signora Rodenbach, che lo precedeva, lo condusse ad una camera chiusa. L’aprì, con estrema cautela, e vi entrò facendovi luce con una candela. Con una voce così gentile come mai il dottor Philippe aveva udito nella sua vita, la donna chiamò il marito. "Georges? Georges? Sei sveglio. È qui il dottore da Vienna. Georges?" La donna e l’uomo si avvicinarono al capezzale di Georges Rodenbach, la cui vita era da tempo sconvolta dalla alienazione mentale. Disteso sul letto, un uomo dai capelli rossi tutti arruffati, dai tratti del viso delicati ed i cui occhi erano come laghi di montagna, sorrideva loro. "Dottore. Benvenuto. Avete conosciuto la mia signora. Gli hai offerto qualcosa, cara?" La donna si sedette sul letto e gli afferò le mani. La voce, calma e cortese, disse: "Sì Georges. Il dottore ha fatto un lungo viaggio. Lui ti curerà, e finalmente torneremo ad essere felici…"
"Dottore, non vi sarete specchiato, non è vero? Ho dato ordine a Brigitte di coprire tutti gli specchi di casa." "Signor Rodenbach, non mi sono specchiato. Non preoccupatevi.", rispose il medico sedendo anch’egli accanto al poeta. "Sono il dottor Erich Maria Philippe, medico alienista. Se potrò fare qualcosa per voi, per la vostra salute, non esiterò a farlo, ma voi dovrete seguire scrupolosamente i miei ordini…" "Oh dottor Philippe. Voi non sapete, voi mi credete pazzo, Ma io so, finalmente, sì, conosco la verità." Con difficoltà Rodenbach si tirò su a sedere. "Vedete, gli specchi, dottore, sono gli specchi la causa di tutto. Guardate mia moglie. Guardatela. Guardatele gli occhi, scavati, la magrezza del viso. Lei non mi volle dare retta all’inizio, e così si specchiò più volte, nonostante le mie raccomandazioni, e forse si specchia ancora oggi per truccarsi, senza sapere…" La donna si alzò, irrigidendosi, e si portò le mani alla bocca mentre la vista le andava offuscandosi. "Georges! Ti prego! Ascolta il dottore! Ti scongiuro!" Poi, vinta dal dolore, corse via lasciandoli soli. "Sono gli specchi la causa, dottore. Essi ci rubano la vita. Essi vivono dei nostri riflessi. Sono in agguato come dei briganti. Maledetti specchi! Noi talvolta ci vediamo smagriti, sfioriti, ma sono loro, gli specchi, a rubarci il soffio della vita, perché noi glielo consentiamo, specchiandoci in essi, doniamo loro l’eternità. Deve esser bello stare nello specchio. Prima o poi bisogna che vi entri.ii" La mattina dopo il dottor Philippe si alzò di buon’ora e preparò i bagagli. Quando fu sulla soglia della casa, nel congedarsi dalla moglie del poeta disse: "Tornerò la prossima settimana con il mio assistente e seguirò personalmente vostro marito nel ricovero all’asilo manicomiale della Salpêtrière. Vostro marito è probabilmente affetto dalla piscosi maniaco-depressiva di Kraepelin, ma voglio prima consultarmi con i miei colleghi. A presto signora Rodenbach." "A presto dottor Philippe. Fate buon viaggio. Avete visto? Ha anche smesso di piovere. La vostra visita è stata di buon auspicio. Dio vi benedica Philippe."
La signora Rodenbach salì al piano di sopra per dare il buongiorno al marito. Quando aprì piano la porta, la colse uno strano presentimento. Dalla stanza appena aperta filtrava la luce del giorno. Quindi, pensò, il marito era già sveglio ed aveva aperte le imposte. Ma solitamente egli dormiva fino a tardi, anche perché da diverse settimane era debole. La cosa la inquietò. Entrò con un certo timore e subito in lei tutto tacque, come nella moglie di Lot nel divenire colonna di sale. Georges Rodenbach giaceva disteso sul pavimento, con il cranio spaccato che andava specchiandosi infinite volte nei cocci di uno specchio rotto nel quale, disperatamente, egli aveva cercato di entrare.
Il fazzoletto scarlatto
Il fischio di tre bengala, sparati in rapida successione, lacerò il silenzio della notte. Tre piccole innaturali albe illuminarono i visi sporchi e tesi di cinque arditi, mentre i paracadute austro-ungarici scendevano docilmente con le loro lanterne pirotecniche nella fresca aria notturna di marzo. Immersi nel fango fino alla cintola, i marinai del Battaglione Caorle s’erano accucciati fino a sfiorare con il mento l’acqua acquitrinosa, tenendo il loro Modello 91 appena sopra il pelo dell’acqua della campagna allagata. Uno di essi, un ufficiale trentanovenne di origine abruzzese, fece cenno loro di non muoversi. Quando la luce dei razzi luminosi svanì i cinque si mossero nell’oscurità come buffi granchi attraverso l’acqua acquitrinosa del Basso Piave portandosi, dopo aver percorso alcune centinaia di metri, lungo un argine della riva destra del fiume. Lì sostarono ansimando ma finalmente distesi e liberi dalla melma. Il mormorio del corso d’acqua, non ancora in piena perché s’era solo alle porte della primavera, faceva paura ai cinque. Era il confine tra la vita e la morte. "Sior tenente", disse sottovoce il più grassotello "mi vaghe via! Go perso a maschera antigas nell’acqua!" "Cosa? Incapace! Come l’avevi fissata alla bandoliera?" "El fasse quel che el vol ma mi torne da le me vache nela stala! Senza a maschera, come el vol che fassa?" "Andiamo Gobbo! I disertori sono dei vili che vengono fucilati. E poi, se non battiamo gli Austro-ungarici non avrai più delle vacche tue, né una stalla tua dove mungere." "La guera l’è sporca, sior tenente! A ne rende bestie rabbiae!", sussurrò di rimando. "Bestie e uomini, a seconda di come ci comportiamo. A quasi nessuno piace uccidere, ma in questo momento farai il tuo dovere, Gobbo! Se non vuoi farlo per la Sacra Patria, o per me, fallo per le tue vacche!"
"No go mai copà nissuni, sior tenente! E go paura che i me ferisse, i me ciapa, e i me finisse co a mazza ferrata che i tien par copar i feriti!" "Parlerai tedesco e mangerai crauti e patate per il resto della tua vita! I generali Mittereger e Wurn brinderanno con il vino dei tuoi vigneti!" "Par dio no! Me tegne el me vin, a me poenta affumicata, el companatico e le me vache! Ma se i me ciapa, sior tenente… se i spara el gas mostarda o il fosgene, come fasso? Moro!" "Smettila di frignare, Gobbo. Tieni la mia maschera antigas e piscia sopra il mio fazzoletto, intanto; poi ridammelo. Lo ò sulla bocca come antigas se necessario. Voi ora ascoltatemi bene. Colussi, Gobbo ed io avanzeremo in perlustrazione guadando il fiume, alla ricerca dei nidi di mitragliatrice sulla riva sinistra. Voialtri due invece, Santin e Visentin, ci coprirete le spalle." Il fischio di un altro bengala, un breve scoppio, e tutta la notte fu di nuovo un’alba. Gobbo riuscì ad osservare meglio il fazzoletto scarlatto del tenente di vascello. "Che bel fazzoetto, sior tenente. A.B.? Calcheduni ghe o ga ricamà?", bisbigliò il marinaio mentre colpiva con un getto caldo il fazzoletto scarlatto. "Viene da Alessandria d’Egitto. Lo comprai ad un mercatino anni fa, lì in villeggiatura con i miei parenti, mentre ero a eggio. Ed il mercante copto che me lo vendette mi disse che era appartenuto ad una principessa di Costantinopoli, secoli addietro. Stai pisciando su un tessuto regale, Gobbo! Mi disse anche che è un potentissimo amuleto. Da allora lo porto sempre con me al fronte, legato al collo o in tasca. Ed ha ricamate le stesse miei iniziali. Curioso, no? Le lettere latine A.B., come il mio nome: Andrea Bafile…" "Che Dio ne a mande bona, sior tenente!" Tre dei cinque uomini che sotto un cielo coperto avevano lentamente attraversato immense distese d’acque insalubri fra strame e stramicello, si mossero come ombre ed iniziarono il guado del Piave alla ricerca di eventuali avamposti da snidare e di cui fare rapporto ai comandi. Dopo pochi minuti erano già scomparsi dalla vista dei due marinai Santin e Visentin, rimasti nascosti dall’argine. L’ufficiale e Colussi tornarono bagnati fradici dopo una mezz’ora. Accortosi
però che Gobbo non c’era, il tenente di vascello Andrea Bafile decise di tornare a cercarlo da solo. Fu allora che cominciarono a sibilare nell’aria gli Spitzer austro-ungarici calibro 7.62. L’ufficiale scomparve fra i canneti, zigzagando per evitare di essere un bersaglio facile del fuoco nemico delle sentinelle. arono minuti interminabili durante i quali gli arditi del Caorle, in attesa del ritorno del loro comandante, lanciarono alcune granate "nebelmaschinen" sottratte al nemico in una precedente incursione. Con esse crearono una fitta nebbia per ripararsi dagli spari. E proprio attraverso la nebbia emersero come due fantasmi il tenente Bafile e Gobbo. Ma non appena ebbero guadagnato riparo dai proiettili, tutti videro che il sorriso triste dell’ufficiale mascherava il dolore per una grave ferita all’addome. "Sior tenente! Non mora! El ghe voio ben mi! Gavemo da andar a pesca sul Piave vecio finia a guera! Sior tenente!", esclamò Gobbo scoppiando in singhiozzi. Gli teneva il capo fra le mani quasi a cullarlo. Poi tirò fuori da una tasca il fazzoletto scarlatto. "Me so desmentegà de ridargheo…" "Scrivi, Visentin…" disse con un filo di voce l’ufficiale ferito. E Visentin, grazie al crescente chiarore delle prime luci dell’autentica alba, riuscì a stenografare su un taccuino. Il tenente Andrea Bafile riferì brevemente le posizioni dei trinceramenti e dei nidi di mitragliatrici austro-ungarici. La sua voce, flebile ma calma, ogni tanto veniva scossa da forti colpi di tosse che gli facevano sputare sangue. Nonostante il viso fosse sporco di fango conservava un che di bello e ieratico. Gli aprirono la giubba per controllare la ferita. Nella bocca impastata di Gobbo esplose una bestemmia in veneto. "Presto, portiamolo nelle retrovie. All’ospedale Sant’Anna di Venezia lo cureranno senz’altro. Ci sono ottimi medici là!", disse Santin preparando la barella. "Sono contento… che stiate bene." tornò a parlare il comandante Bafile. "Forse io non me la caverò. Fate in modo che il mio sacrificio non sia vano. Gobbo, Visentin, Santin, Colussi… Ricacciate lo straniero dalla nostra terra! Fatelo per le vostre famiglie. Fatelo per l’Italia!" Poi il tenente chiuse gli occhi e smise di parlare. Nonostante fosse stremato ebbe ancora la forza di sorridere un’altra volta. Allora i suoi uomini lo caricarono in silenzio sulla barella ed iniziarono a ripiegare veloci verso le retrovie, sfuggendo alle pallottole dei Karabiner 98 che ancora fendevano l’aria. La notte del giorno seguente, il 12 marzo 1918,
all’ospedale di Venezia il cuore del 1° tenente di vascello Andrea Bafile smise di battere. Ottantasette anni dopo la cittadina di Cavazuccherina ha da tempo ripreso il suo nome originario di Jesolo. La guerra è un ricordo ormai lontano. D’estate, come di consueto, si svolge in Piazza Brescia il mercantino d’antiquariato del giovedì sera. La folla curiosa e composita sciama da una bancarella all’altra. Una giovane coppia si ferma davanti ad una serie di chincaglierie e di pietre preziose. "Buonasera bei giovani? Posso aiutarvi?", dice un piccolo vecchio dietro la bancarella. Porta una barba bianca dal pizzo appuntito. Gli occhi, dietro due minute e tonde lenti da vista, scintillano come se conoscessero piccoli tesori sommersi. "No, no. Curiosiamo. Grazie lo stesso." "Ho anche opere di valore. Guardate qui." Il vecchio estrae da sotto i tavoli una chimera di bronzo etrusco, un paio di binocoli con manico di guscio di tartaruga ed ottone, delle statue del Buddha e di Shiva Nataraja. C’è anche un monaco confuciano scolpito nel legno, che cammina sulle acque. "No, saranno sicuramente troppo costosi per noi… Ma ha anche delle pietre preziose, vedo. Amuleti ne ha?", chiede il giovane. "Alessio!", lo rimprovera la ragazza. "Aspetta un attimo, Beatrice." "Oh, ma certo. E che cosa cercavate in particolare?", chiede il vecchio sorridendo serafico. "Vede, la mia ragazza soffre di incubi. Fa strani sogni, talvolta popolati da visioni terrificanti che non fanno dormire neanche me quando le sono accanto." "Capisco. Ci sarebbe il braccialetto fatto di diamantino di Herkimer. Una varietà di quarzo biterminato che assomiglia al diamante per il suo taglio. Protegge dagli spiriti oscuri e mette anche in comunicazione con le vite ate." Il vecchio fruga fra le sue cose ma senza esito. "Niente. Non riesco a trovarlo! Ah, ma che stupido. Ho il fazzoletto scarlatto!
Me n’ero dimenticato. Appartenne ad una leggendaria principessa di Bisanzio! Ma dove l’ho messo? Ah, eccolo!" Il vecchio tirò fuori uno stropicciato fazzoletto scarlatto di lino con ricamate due lettere: A.B. "Appartenne anche ad un coraggioso ufficiale italiano della Grande Guerra. Si racconta che una volta che se ne separò, poco dopo morì al fronte." Poi, sottovoce, aggiunse: "È un amuleto che stende un velo protettivo attorno a chi lo porta." Alessio, convinto dalle parole del misterioso vecchio, acquista il fazzoletto che sorprendentemente costa solo ventidue Euro. I due fidanzati eggiano ancora un po’ e poi si fermano sotto il pennone della Piazza, proprio davanti ad un mezzobusto commemorativo di bronzo. "Hai buttato via più di venti Euro, Alessio! Ti sei bevuto tutto quello che ti ha raccontato! Sei proprio un bambino con la testa fra le nuvole! Ed io dovrei portare con me questo straccio puzzolente?", dice con tono di disprezzo la ragazza. Ma non fa in tempo a finire la frase che una folata di vento le strappa il fazzoletto scarlatto. Questo, dopo qualche volteggio nell’aria serale, va a posarsi per qualche secondo sulla bocca del viso scolpito. Poi scende leggero e si ferma al suolo proprio davanti al mezzobusto. È allora che i due ragazzi, percorsi da un brivido, leggono:
Andrea Bafile Medaglia d’oro Guerra 1915-1918
La fisarmonica di Dio iii
Amedeo B., un ricco e viziato studente trevigiano all’ultimo anno del corso di Chimica Industriale dell’Università Ca’Foscari di Venezia, sedeva in una delle carrozze di un treno interregionale che percorreva il Ponte della Libertà. Il giovane stava raggiungendo la città lagunare in un assolato e mite pomeriggio di marzo per festeggiare con gli amici il martedì grasso del carnevale di quell’anno. Assorto in mille diversi pensieri, che andavano dal progetto di un nuovo impianto chimico per la produzione di fenolo alla preoccupazione per la sua ragazza che ultimamente sembrava fare all’amore con lui meno volentieri del solito, se ne stava con le dita a giocherellare e tamburellare sul vetro, guardando le isole prospicienti la città sull’acqua mentre il convoglio, prossimo alla stazione di Santa Lucia, rallentava la sua corsa. Mentre pensava al giusto numero di pompe e valvole da sistemare nell’impianto, ragionamento ogni tanto interrotto dall’immagine della sua Caterina a letto che era ata da una piena partecipazione ad un atteggiamento quasi ivo, giunsero a lui le prime note di una fisarmonica. Ecco, disse fra sé, una bella musica che festeggia l’ultimo di quei grassi giorni di godimenti e spensieratezze. Ma le note che si succedevano creavano pian piano una melodia struggente e malinconica. Cos’era? Non certamente qualcosa da suonare in un periodo di festa e balli. Amedeo non s’alzò per controllare da dove provenissero quei suoni e continuò a guardare distrattamente attraverso il finestrino i giochi di luce che le acque della laguna combinavano riflettendo e rifrangendo il sole morente. Intanto la musica, proveniente dal capo opposto del vagone in cui Amedeo sedeva, facendosi più vicina e intensa catturò l’attenzione del ragazzo. Sarà senz’altro, disse a se stesso, uno degli artisti di strada che si guadagnano qualche spicciolo durante i Saturnali mascherati. Quella musica, che gli sembrava familiare, l’aveva però già udita in ato ed ad un tratto, mentre si faceva sempre più forte, gli venne in mente anche l’autore. Ma certo! Era Antonin Dvořák, il grande compositore ceco. Ma che note erano? Danze slave? Sinfonia?
Ora non pensava più a Caterina. Ora il fenolo, le pompe, le valvole e la chimica tutta erano pensieri lontani e confusi. Chi era a suonar così bene musiche così struggenti? Amedeo non fece in tempo ad alzarsi che un bimbo gitano, sporco in viso ed all’apparenza malato di scabbia, comparve di fronte a lui reggendo una piccola fisarmonica con cui suonava come un automa, quasi senza averne coscienza. Agendo sulla tastiera e sulla bottoniera di quella vecchia fisarmonica, creava con le sue minuscole ma agili dita dalle unghie nere, un’incantevole musica slava che ora paralizzava Amedeo. Di trovatelli e piccoli mendicanti costretti a suonare ed elemosinare Amedeo ne aveva già visti tanti in ato, e mai aveva gettato loro più d’una fugace ed imbarazzata occhiata. Questo bambino era però inspiegabilmente diverso nell’espressione del volto. Sotto un berretto di lana color giallo indiano, lacero e consunto, calato bene sulla fronte, spuntavano gli occhi dello zingarello che sembravano dipinti nel volto caliginoso come due grandi laghi color ocra, dalle acque fangose, così mesti e lucidi che di fronte ad essi lo studente provò inspiegabilmente vergogna di se stesso e dei suoi precedenti pensieri. Per qualche attimo il bimbo suonò con più foga per cercare di indurre Amedeo a lasciargli un obolo. Ma Amedeo non si decideva a mettere mano al portamonete ed il piccolo, dopo averlo fissato negli occhi abbastanza a lungo fin quasi da inquietarlo, se ne andò di corsa senza profferir parola. Fu allora che il treno si fermò. Era infine giunto a Venezia. Amedeo si destò dal torpore e dalla paralisi, s’alzò e si lanciò all’inseguimento di quel piccolo e sporco menestrello dalla fisarmonica ma, come fu sceso dal predellino della carrozza, sotto la pensilina della stazione fu inghiottito da un intrico di maschere e persone in festa. "Amedeo! Amedeo! Sono qui! Sono io!" La voce di Caterina gli giunse distinta e forte, nonostante il gran vociare della fiumana. Ella, facendosi largo fra la folla, riuscì a raggiungerlo ed abbracciarlo. "Amedeo! Ciao! Sono venuta a prenderti! Hai visto quanta gente…", ma non finì la frase perché s’accorse che il fidanzato era distante e strano. "Il bambino con la fisarmonica! L’hai veduto scendere? Il mio era l’ultimo vagone! Non può non essere sceso che da qui…" Caterina lo guardava stupita e un po’ in apprensione. Poi lui prese a scuoterla. "Dì! L’hai veduto il bambino? Rispondi!"
"Amedeo?! Ma che dici? Di quale bambino parli? Mi fai male! Lasciami!" "Parlo di uno zingarello con una piccola fisarmonica! Possibile che non tu non l’abbia veduto?" Vedendo Caterina atterrita e sconcertata, le lasciò le braccia che aveva strette e la piantò lì, prendendo a correre verso l’uscita della stazione. Dove poteva essere il piccolo esecutore di Dvořák? La gente tutt’intorno a lui cantava, rideva e beveva. Ma per quanto lo cercasse con gli occhi, del bimbo non v’era alcuna traccia. Amedeo correva a perdifiato, da una parte all’altra della stazione, quasi in preda a una forza misteriosa. Doveva assolutamente parlargli. Non sapeva nemmeno lui perché. Sapeva soltanto che se non l’avesse rivisto non se lo sarebbe mai perdonato. Non gl’importava più di Caterina, del fenolo, del carnevale e degli amici che lo aspettavano alla festa organizzata al Dipartimento di Santa Marta. Quel bambino sporco e triste, che suonava meravigliosamente le danze slave, aveva come toccato una corda celata nel cuore, e questa corda segreta andava ancora vibrando nel suo petto. Lo cercò in lungo e largo, affannosamente, per tutta la stazione ed il sestiere, ma senza risultato. La notte stava intanto scendendo ed Amedeo da oramai diverse ore sedeva solo e sconsolato sugli scalini della gradinata della stazione ferroviaria. Di fronte a lui il Canal Grande era illuminato dai lampioni e dalle luci dei vaporetti e delle barche che, lentamente, ne attraversavano le placide acque. Caterina aveva deciso di mollare il ragazzo ma di questo egli era quasi contento, visto che poco dopo che s’erano lasciati sotto la pensilina ella l’aveva raggiunto e, scoppiando in lacrime, gli aveva fatto intendere che da qualche settimana usciva con un altro. All’impianto chimico ed ai suoi studi, rifletté, avrebbe pensato a tempo debito. Sedeva così pieno di amarezza e con il rimpianto di non aver parlato a quel piccolo quando una lontana musica di fisarmonica, che sembrava provenire dal Ponte degli Scalzi, giunse alle sue orecchie. Era la danza slava dello zingarello? Amedeo non lo sapeva. Salzò in piedi con uno strano sorriso, frugò nelle sue tasche per assicurarsi d’avere con sé delle monete, e s’incamminò, ma questa volta lieto e pronto ad incontrare la fisarmonica di Dio.
La Tela iv
Gli occhi come sbarrati. I capelli rovinati e secchi. La pelle raggrinzita, spaccata dalle pieghe del tempo come la terra arida viene spaccata da un sole indifferente e mai stanco di bruciare. Sopra tutto, di là dai lineamenti del tempo perduto e della mente consunta di una donna, quello sguardo assente di una pazza da cui egli non riusciva a staccare i suoi occhi di uomo sbalordito. Quel remoto ricordo della sua visita a Parigi lo perseguitava. Ancora una volta Nicola D. ricordava quel lontano pomeriggio d’autunno di vent’anni prima. Ed ancora una volta l’immagine della pazza ritratta da Géricault si stagliava di fronte a lui. Allora, la sua disadorna stanza di pittore fallito alla periferia di Milano mutava aspetto: la mobilia spariva, gli spazi si deformavano e, netto e spaventosamente enorme, il ritratto di una pazza lo guardava con faccia inebetita, mentre tutto attorno a lui prendeva vita la sala del Louvre dove era custodito il dipinto. Prendeva forma lentamente mentre l’uomo veniva scosso da brividi violenti. Nicola era allampanato. Aveva dei capelli neri, unti di grasso e lunghi fin quasi alle spalle, screziati dal grigio di una vecchiaia ormai alle porte. Il naso adunco e sempre lucido, era lo stendardo di un volto spigoloso, emaciato, ma sempre perfettamente rasato. Il pittore era sovente trasandato ma non scordava mai di radersi e talvolta, immerso nei suoi pensieri, la sua mano, che diventava pesante ed indelicata, tagliava con la lametta del rasoio il viso, procurandogli piccole ferite che non si cicatrizzavano mai del tutto perché ogni mattina la lama tornava a tagliare. Le labbra sporgenti, quasi pendenti, mostravano dei grossi denti ingialliti da una scarsa igiene e dal vizio del fumo. "Ancora tu…", gemeva di fronte al ritratto. L’uomo cadeva allora in ginocchio, portandosi le mani al viso. Nicola era stato in visita nella capitale se anni addietro, agli inizi della sua carriera. Il celebre museo era stata per lui una tappa obbligata. Lì, l’incontro con la vecchia pazza di Géricault aveva cambiata la sua vita.
"Smettila di perseguitarmi…", sospirava il giovane pittore. Di fronte all’ossessiva apparizione le sue dita, sempre sporche di colore come allora ma molto più nodose e grinzose di un tempo, tremavano come quelle di un assassino colto da un raptus di follia. "Tu, pazza senza senso, specchio della vita e della morte, sei il simbolo del mio giudizio..." Parole confuse, che pronunciava biascicando. Ma il ritratto del pittore se continuava a stare lì, materializzato come dal nulla, partorito da chissà quale abisso. "Vattene, maledetta pazza, la mia vita è stata un fallimento, lo so. Ma il tuo sguardo me lo ricorda come una colpa, come un delitto! Lasciami andare , ti prego…" Allora, il giovane pittore milanese rovesciava la sua tavolozza, incespicava e barcollando cercava di afferrare il dipinto. I suoi occhi, che quasi schizzavano dalle orbite, si muovevano vorticosamente come quelli di un folle di fronte ai suoi fantasmi. "Maledetta. MALEDETTA FOLLE SCHIFOSA. TI ODIO! Ti odio lurida sgualdrina! Cagna dannata… Ti odio…", imprecava il pittore piangendo ed urlando. La mano destra, chiusa a pugno, sferrava colpi rapidi alla tela, ma questa sembrava evanescente e non risentiva della furia del pittore. Poi, in un ultimo sussulto accompagnato da un urlo, Nicola cadeva nuovamente in ginocchio mentre l’immagine svaniva come d’incanto. "Perdonami pazza…perdonami per quello che ho detto. Per quello che ho fatto…" Allora le sue guance venivano rigate da un caldo pianto ed il suo viso perdeva quella bestialità cieca. Lentamente il volto si distendeva e gli occhi colmi di lacrime diventavano innocenti quanto quelli di un bimbo che ha perduto la madre. Solo i singhiozzi di tanto in tanto lo scuotevano e ne infrangevano i lineamenti, mentre il dolore s’agitava entro il suo animo. Questa apparizione, che in genere aveva luogo una volta alla settimana, era cominciata subito dopo il suo ritorno dalla Francia. Accadeva sempre di venerdì, verso sera. Durava pochi minuti, ma al pittore sembravano eterni.
L’uomo si comportava sempre allo stesso modo e le frasi che pronunciava erano quasi sempre le stesse. Solo il suo pianto cambiava. Ogni volta era più profondo e più angoscioso. Qual era il motivo di quella misteriosa apparizione? Nicola lo ignorava e pian piano, in cuor suo, nacque il desiderio di penetrare quel dolore, di trovare la radice del suo male, o della sua follia. Ed un giorno trovò quella radice. Una sera fredda, pungente, con un vento gelido che spirando da nord tagliava la pelle delle mani, Nicola stava ritto in piedi ad una finestra nel vuoto calore della sua casa di Milano. La stagione invernale incombeva ancora sulle strade e sulle case della città lombarda. Quella sera di fine febbraio Nicola guardava fuori attraverso la finestra del suo salotto, cercando una distrazione nel paesaggio fatto di strade deserte e giardini coperti dalla neve. Era terrorizzato che il ritratto della pazza potesse apparire da un momento all’altro, mentre il crepuscolo lasciava spazio alla oscurità della sera. Soltanto la luce della luna penetrava obliqua nella stanza buia tracciando sulla parete una lunga ombra. L’ombra di Nicola. "Perché la mia vita deve essere così dannata? Se solo ci fosse qualcuno… non c’è una donna al mio fianco che sappia lenire il mio dolore, placare la mia sete di felicità, e donarmi il sorriso? Perché non è qui a incoraggiarmi nel mio lavoro? E perché continuo ad avere queste allucinazioni? Cosa rappresenta quella vecchia? Cosa voleva ritrarre Géricault? Perché mi appare?" Nicola portò le lunghe e diafane dita al vetro della finestra, ed avvicinandosi lo appannò con il suo fiato. "Madre dove sei? Perché mi hai lasciato solo, senza fratelli né sorelle? Perché non sei qui a rassicurarmi?" Il pittore si voltò a guardare un portaritratti posato su un vecchio e polveroso mobile. Una foto in bianco e nero ritraeva una donna sulla quarantina che sorrideva in piedi accanto ad un bimbo triste e gracile, il quale si teneva un poco in disparte, mentre dietro di loro la campagna mostrava un prato in fiore. La donna teneva una mano sopra la fronte per ripararsi dal sole. Il bambino, che evidentemente era Nicola, sembrava molto triste. Erano quelli dell’uomo pensieri nostalgici, di un ato lontano quanto la sua infanzia infelice, tradotti d’un tratto in un tono monocorde, lamentevole, rischiarato dai toni grigi di pareti sporche e annerite, da vestiti scuri e trasandati. Parole sussurrate, udibili a malapena anche per chi fosse stato presente nella stanza. Improvvisamente una voce che poco aveva di umano lo distolse dai suoi
pensieri, e lo fece trasalire. Un parola? Un suono? Un verso d’animale? Il pittore si voltò tremando e, di fronte a lui, sulla bianca e disadorna parete del suo salotto, una gigantesca ombra aveva inghiottito la sua di uomo disgraziato. Andava allargandosi e allungandosi sul pavimento, come fosse pece versata nelle tenebre. La luna fu allora coperta da grosse nubi e nella stanza calò il buio. Nicola non si mosse. Cercò di prestare la massima attenzione anche ai più piccoli rumori ma fra le mura della sua casa poteva udire solo il battito del suo cuore. "Chi sei?" "Chi c’è?" chiese egli più forte. Nessuna risposta. Il silenzio e la paura erano i suoi unici compagni nel buio della stanza. Il pittore viveva solo da tanti anni. Quando perse il padre era soltanto un bimbo. La madre morì quand’egli aveva vent’anni. "Sto diventando pazzo" pensò Nicola. "Pazzo come quella donna ritratta da Géricault?" Il suo respirare ansante si fece più forte. "CHI C’È?" gridò. Il pittore strinse i pugni come per farsi coraggio. "C’È QUALCUNO? CRISTO! CHI HA PARLATO?!" La luce lunare tornò nella stanza. Come i suoi occhi poterono di nuovo distinguere i profili delle cose, Nicola fece un balzo all’indietro urtando il vetro con il capo. "No… Non può essere vero…" Di fronte a lui, sull’unico tappeto della casa, giaceva un enorme massa scura che andava agitando qualcosa. Nel buio si accesero come delle lucciole insanguinate. Nicola le contò. Disposte simmetricamente su due file, erano quattro paia. Il pittore fu scosso da violenti fremiti. Poi qualcosa di lungo si mosse nell’ombra. Dall’oscurità punteggiata da otto stelle rosse come rubini emerse un gigantesco ragno nero dal ventre gonfio e alto quanto un tavolo. L’aracnide nella sua mostruosità aveva un che di tragicomico. Con movimenti fulminei, avanzò a
scatti fino ad emergere al chiarore lunare, come se la sua fosse un’entrata in scena. Proscenio e teatro allo stesso tempo, il salotto dell’artista sembrava un incubo indicibile. Impietrito dall’orrore, da un orrore incomprensibile e più grande d’ogni cosa che Nicola conoscesse, per alcuni interminabili istanti il pittore provò ad urlare, ma dalla sua bocca non uscì alcun suono. Poi l’uomo si accasciò e si trascinò strisciando all’indietro fino al muro alle sue spalle, contro un termosifone. Colpito da un attacco di panico, con bave alla bocca ed il cuore che gli martellava il petto come un maglio infuocato, Nicola respirava sempre più affannosamente. Infine il ragno parlò. "Sono venuto per divorarti e porre fine ad ogni angoscia." La voce del ragno era atona. Come soffocata, essa sembrava giungere dalle profondità delle sue viscere. "Tu non sei reale…", mormorò Nicola. "Che io lo sia o no l’unica cosa che conta è che io divori le tue carni. Sono affamato e lo sai." Nicola scrutò la penombra in cerca di un oggetto con cui difendersi. Lo sguardo gli cadde su un vaso di rame posato su un tavolino. Il ragno scattò allora in avanti emettendo uno strano fischio. Gli arti mascellari si agitavano voraci a pochi centimetri dal pittore e un odore pestilenziale, uscito dalla bocca del mostro, investì il viso dell’uomo. Nicola emise un gemito e cominciò a tossire, ritraendo il viso. "So cosa stai per fare Nicola. Sono parte di te. Prima ancora che tu possa raggiungere quella parete ti avrò raggiunto con il mio veleno". "No, non esistono ragni così grandi, e che parlano. Tu sei un’allucinazione ed io sto sognando…" Il pittore, come per convincersi, parlava più a se stesso che al suo interlocutore il quale continuava a fissarlo immobile nella sua fredda postura di artropode predatore. "Tu non esisti..", balbettò Nicola ma, pronunciate queste parole, una larga chiazza umida sotto le sue gambe cominciò ad allargarsi sul pavimento. "Tu mi hai chiamato Nicola. Io sono sempre esistito, da ancor prima che tu vedessi la luce. È agli uomini come te che io appaio, talvolta."
Nicola singhiozzava. "Tu vuoi conoscere il motivo di quel ritratto che ti appare la sera?", chiese il ragno. Il pittore sollevò gli occhi su quelli fiammeggianti del ragno. "Sono pazzo, sì pazzo e tu sei un incubo." Fu tutto ciò che riuscì a rispondere. Il ragno si avvicinò e pose due delle sue segmentose zampe sulle spalle del pittore, che si scosse dall’orrore. "No. Non mangiarmi… ti prego". Il ragno emise uno strano sibilo. Dalla sua bocca filamenti vischiosi caddero sul petto di Nicola. "No, ti prego. Ti troverò… del cibo, degli uccellini, dei gatti, dei cani, qualunque cosa ma non mangiarmi…ti prego…qualunque cosa ti prego ti prego ti prego…" Nicola poteva sentire sul suo collo l’alito del ragno, caldo ed insopportabile. Poi l’aracnide si tirò indietro e lasciò l’uomo libero. Questi cominciò allora a respirare meno affannosamente. "Qualunque cosa…ti darò qualunque cosa da mangiare…" "Qualunque?", chiese il ragno. D’un tratto si sentì bussare alla porta di casa. Seguì una voce femminile allarmata. "Nicola? Tutto bene? State male? Vuole che chiami un ambulanza?" L’artista viveva solo e senza telefono. Poi la voce parlò di nuovo: "Nicola? Sono io. Cinzia." "Voglio lei." "No! Lei no…" Nicola assunse un’espressione d’infinita ansia. "Ho bisogno di carne umana. Carne umana avrò." "Lei è bella come una stella. È Cinzia. La mia vicina di casa. È l’unica persona che mi rivolga la parola in questo condominio. È l’unica persona che mi chieda
come sto quando mi incontra. Ti prego… lei no…" "Prenderò lei e tu avrai salva la vita. Aprile la porta." "Nicola? Aprite! Nicola?" Sul pianerottolo la ragazza si strinse le braccia al petto per il freddo. Portava solo una camicetta ed i pantaloni di un pigiama. Evidentemente era stata svegliata dal trambusto proveniente dall’appartamento del pittore. A piedi scalzi, impaurita, si guardò attorno, come indecisa sul da farsi. Era di piccola statura. Dei lisci capelli biondi, che portava a caschetto, le stavano scarmigliati sulla fronte. "Nicola! Ho sentito gridare." "Cinzia. Ho avuto un incubo.", rispose il pittore. "Sto bene adesso." "Nicola. C’è qualcuno lì con te?", e dicendo questo pose un orecchio contro la porta per origliare. Nicola e Cinzia condividevano lo stesso pianerottolo. Anche lei, che di professione faceva l’architetto, viveva sola. L’edificio era a quattro piani e loro occupavano l’ultimo. Il pittore si alzò in piedi barcollando e corse in cucina dove afferrò una scopa. Aprì un cassetto e prese un grande coltello da cucina. Quando tornò in salotto il ragno era ancora lì, nel suo silenzio minaccioso. "Va tutto bene Cinzia. Ora prendo qualcosa e torno a dormire." disse ad alta voce l’uomo. "Nicola? Perché non vieni ad aprirmi? Stai male? Riesci a camminare?" Nicola guardò il ragno con odio e paura. "Prenderò ugualmente la donna.", disse deciso il ragno. "No. Tu la lascerai stare." "Perché un attimo prima tremavi come un agnello e adesso sembri avere un cuore da leone?"
"Cinzia è buona. La lascerai stare." Un lampo di follia balenò negli occhi dell’uomo. I capelli unti gli si agitavano davanti al viso mentre egli ondeggiava avanti ed indietro brandendo la scopa come uno spada. "Lascia entrare la donna e forse non ti mangerò." Il ragno avanzò rapidamente e quando fu a pochi centimetri da Nicola questi inciampò e cadde all’indietro. La scopa ed il coltello finirono per terra ed il ragno vi fu sopra. "Nicola? Con chi stai parlando?" Non ottenendo risposta ma sentendo dei rumori e delle voci provenienti dall’interno dell’appartamento Cinzia rientrò in casa sua e corse al telefono. "Ti darò del cibo, sì. Ma tu lascia stare Cinzia." Il pittore si alzò ed andò correndo in camera da letto. Sulla testiera del letto aprì un cassettone dove si trovava uno scrigno. Lo prese fra le mani e provò ad aprirlo. La chiusura resse. Si frugò nelle tasche ed estrasse un mazzo di chiavi. Cercò tremando fra le numerose chiavi finché trovò quella che cercava. Aprì lo scrigno e dentro, fra numerose carte ingiallite e logore fotografie, trovò un’altra chiave, di ottone, molto vecchia. La chiave dell’enorme armadio della camera da letto. Allora si precipitò con questa verso l’armadio. La serratura scattò dopo due giri. Spalancando le alte ante, Nicola venne investito da una zaffata di odore nauseabondo che si sparse per tutta la stanza. Un’odore di carne morta. Nicola prese fra le mani un pesante sacco nero di plastica che stava adagiato contro le pareti di legno. Lo sollevò senza fatica e lo depose sul suo letto dove lo fece a pezzi con le mani. Sull’uscio della porta stava intanto il ragno che seguiva coi suoi otto rossi occhi quanto Nicola faceva. "Ecco. Mangerai questo. Sì. Ma lascia stare Cinzia." Quando il sacco fu aperto completamente Nicola si irrigidì. Il suo volto si contrasse in una smorfia di dolore. "Mamma. Cosa stavo facendo? Ti stavo dando in pasto al ragno. Mamma… cosa sto facendo.? Mamma, Cinzia è buona. Se non ti do in pasto al ragno lui la mangerà." "Quella donna è tua madre Nicola?" L’artista rimase immobile. Poi, lentamente, come se fosse immerso nell’acqua, volse la testa dietro di sé, da dove era
provenuta la voce. L’enorme artropode era ancora fermo sulla soglia. Esso subito dopo aggiunse: "La verità, Nicola, è un miraggio che l’uomo insegue da secoli. Tutti la cercano. Tutti desiderano conoscerla. Ma ciascuno di noi, in cuor suo, la custodisce spesso senza saperlo." L’uomo si voltò a guardare il corpo della donna, come se fosse sorpreso e quando si girò nuovamente il ragno era scomparso. Nicola tornò ad osservare con crescente terrore il corpo mummificato della madre. "Cosa stavo facendo? Mio dio… ti stavo uccidendo una seconda volta. Perdonami. Mamma…," Il pittore piangeva. "Ti prego. Perdonami… non volevo ucciderti... ma non sopportavo più le tue grida. Perdonami." Uscì dalla stanza in fretta, scompostamente. Quando arrivò in salotto non vide il ritratto della pazza di Géricault. L’enorme ragno nero sembrava svanito. Nicola guardò allora la finestra davanti a sé, prese la rincorsa e sfondò il vetro con le braccia incrociate. Volò giù dal quarto piano, insieme ad una pioggia di vetri e sangue, sfracellandosi al suolo senza emettere un solo grido. Poco dopo Cinzia era in piedi accanto al suo corpo, e mentre i lampeggianti delle volanti le illuminavano il volto addolorato e sconvolto, la giovane raccontò alla polizia che cosa aveva sentito. Di fronte al cadavere del pittore riverso sulla neve macchiata di rosso, Cinzia pensò a che cosa le aveva detto la madre tanti anni prima: "Vedi Cinzia, la madre di Nicola diventò pazza per il dolore alla morte del marito. Dicono che sia morta annegata. Nessuno sa che fine abbia fatto. È scomparsa lasciando Nicola da solo. Povero figliolo. Stagli vicino se puoi. Talvolta basta sorridere e scambiare solo una parola per far felice qualcuno. L’ho visto crescere. Nicola è un bravo ragazzo." Solo una cosa gli inquirenti non riuscirono a spiegarsi. Sul pavimento del salotto e lungo il corridoio della casa di Nicola, fu trovata una lunga scia di un liquido organico vischioso, di origine animale, e dentro il cadavere mummificato della donna fu trovata inspiegabilmente una colonia di strani ragni neri, molto piccoli, di cui nessuno della scientifica riuscì ad identificare la specie.v
Mir Miru vi
"Ivan? Mi senti?" Una voce, femminile, rotta. Dopo qualche secondo arriva la risposta di un uomo, che penetra l’orecchio e l’intimo della donna. "Sì Nadja!" "Ivan, hai saputo? Il Presidente e la sua famiglia sono prigionieri in Crimea! I militari hanno preso il potere! Cosa ti succederà?" "Sì Nadja! Ho sentito… Stai tranquilla. Io sto bene qui!" "Quando tornerai? Ho tanta paura…" "Non lo so… ieri il collonello del Centro Controllo della RKA mi ha detto che ha rimandato il mio rientro a data da destinarsi. Dovrò starmene quassù, per qualche mese." "Mi raccomando…. Qui mi fanno già cenno di andare! Non c’è più tempo, dicono. Mi manchi tanto…" "Non aver paura e… niente. Pensa… pensa che buffo... Il nostro Paese sarà cambiato… ed anche tu, forse. Ma io tornerò la stessa persona. Sarò l’unico ad essere lo stesso, probabilmente. Sono un privilegiato o un disgraziato, ora? Tu mi amerai come prima, Nadja?" "Ivan, io ti aspetterò." "Sì..." L’uomo esita un attimo. "A presto Nadja." L’ingegnere Ivan K., a bordo del Core della Mir, chiude il contatto con il cosmodromo di Baikonur. Guarda il suo pianeta attravero l’oblò. Osserva la sua patria. Sa che laggiù, anche se non può distinguerli, anche se non può udirli, uomini in armi che l’hanno dimenticato nello spazio, vanno combattendo. Della
sua immensa terra rimane estasiato ad ammirarne i grandi fiumi e laghi, e le alte montagne innevate. Così vede la sua Unione Sovietica dall’alto di 350 km, ancora viva, una nazione splendente e dai confini vasti, racchiusa dagli oceani della Terra e mai, crede in cuor suo Ivan, la stella di un impero si è spenta in una morte così serena e bella.
Svetlana
Svetlana, che in serbocroato significa "colei che porta la luce", lasciò liberi i capelli di fronte allo specchio. Serici e lucenti, le ricaddero sulle spalle. Gli occhi di Svetlana erano belli, verdi come la giada, ma d’una bellezza rara ed inquietante, quasi minacciosa nel loro enigmatico sguardo. Parevano dure pietre incastonate in un volto marmoreo, spigoloso, da secoli dimentico dell’innocenza infantile. Svetlana, orfana di ventisette anni, piegò all’insù gli angoli della bocca e sorrise. Un sorriso triste. Poi le sue mani, sotto l’acqua fredda della doccia, arono sul petto e sul ventre. S’accarezzava nel tentativo di darsi quel calore umano spesso negato. La giovane dei Balcani chiuse il rubinetto. Uscì dalla doccia e s’avvolse in un accappatoio bianco, senza allacciarlo. Si specchiò ed incontrò, riflesso, il suo sguardo magnetico. Le mani, attirate da un’invisibile calamita, scesero sui fianchi e poi si chio sul suo sesso; in una presa quasi rabbiosa nel tentativo di estirpare un cancro senza nome. Coperta la sua più preziosa nudità, s’accorse che l’espressione del volto tradiva innumerevoli dubbi, innumerevoli domande, a cui nessuno aveva ancora dato risposta. S’accovacciò chinando la testa sulle cosce e raggomitolandosi. Gli occhi le si velarono di malinconia. Allora la luce cattiva che di tanto in tanto spaventava gli uomini comparve di nuovo in quegli occhi che sapevano divenire due fessure. S’alzò in piedi serrando le palpebre. Svetlana ora cercava il buio; cercava di non pensare e di scacciare quel desiderio insopportabile di felicità. Lasciò cadere a terra l’accappatoio. Nuda, sentiva più forte il suo dramma di donna frigida. Riaprì gli occhi e vide il suo viso sofferente. Gli occhi misteriosi che parevano un mare in tempesta
mostrarono per la prima volta altre luci insieme all’odio per l’uomo. Le luci della follia. Fu allora che la porta del bagno si aprì e Svetlana ripiombò nella realtà grigia della sua vita infelice. "Ti fai bella allo specchio? Avanti, copriti! Ti prenderai una malora così!" Lei non rispose e si voltò a guardare il vecchio con cui da anni condivideva una casa a Venezia, nel sestiere di Castello. "Che c’è? Perché mi guardi così?", chiese l’uomo. Svetlana fissava con occhi imperscrutabili il suo compagno dal corpo avvizzito, mentre questi prendeva il rasoio e la schiuma da barba per radersi. L’uomo era abituato ai suoi silenzi ma ora percepiva in lei qualcosa di strano. "Ti odio." Le parole di lei furono pronunciate con voce atona, senza tradire alcuna emozione. Un viso rigido nella sua fissità scultorea, senza tempo, quasi privo di umanità. "Che dici? Sei pazza?" Il vecchio, insaponato di schiuma, smise di radersi. "Non mi hai mai amata." "Svetlana…" "Tu sei il male, Antonio!" Il vecchio posò il raosio, le mise una mano sulla guancia a mo’ di carezza e per rassicurarla, ma incontrò soltanto l’eternità della sofferenza e della pazzia. "Non mi toccare!", disse lei sottovoce, con le palpebre pesanti. Ora, accanto a lampi di cattiveria, altre luci incomprensibili accompagnavano gli occhi di Svetlana, ormai sempre più distante dalla realtà. Si tolse di dosso la sua mano. "Se soltanto mi avessi amata veramente…" Il vecchio Antonio ebbe allora un gesto di rabbia e gettò a terra gli oggetti della toilette. Alzò i pugni davanti a lei mentre la sua faccia, che sembrava bianca
cartapesta umida, andava deformandosi come vista attraverso un acquario. Ma Antonio indietreggiava perché non l’ira, ma il terrore era la sua principale guida. "Puttana che non sei altro! Io ti ho tirata fuori dalla fogna! Ricordi quando t’incontrai alla stazione di Rijeka che facevi pompini per poche decine di kune? Ingrata!" Oramai Svetlana avanzava dimentica di tutto, di se stessa, del suo dolore di donna, ed era indifferente alla paura di Antonio che nel tentativo di sfuggirle inciampò e cadde all’indietro. Quando Antonio riaprì gli occhi, dopo aver perduto i sensi per pochi minuti, Svetlana era lì, nuda a cavalcioni sopra di lui, mentre stava per tagliargli la gola con un coltello e annegare nel sangue la sua follia di donna impotente e ferita nell’anima.
Ultimo Atto
"Andrai in prepensionamento!" "Ma come?" "Andiamo Guerrino! Il tuo enfisema polmonare ti sta ucc… insomma… lo sai quanto stai male, no? Cerca di capire. Ogni volta che c’è uno spettacolo gli attori ed il pubblico sono disturbati dai tuoi colpi di tosse." "Ti prego… c’è l’ultimo spettacolo della stagione fra poco. Ci tengo ad esserci… è la mia tragedia preferita.", chiese l’uomo con voce supplicante. "Guerrino… ho già parlato con la Direzione. Tutte le carte sono pronte. Non possiamo metterti in servizio. Puoi venire alle prove se vuoi…" "Hai parlato con il Direttore? Cosa dice?" "Il Direttore è d’accordo con me. Andiamo, è anche per il tuo bene." L’anziano uomo, curvo sotto il peso della malattia e di tanti anni spesi lavorando in teatro come maschera di sala, scrutò la coordinatrice come per cercare nei suoi occhi un qualche segno di ripensamento. "Guerrino, non guardarmi così…", disse la donna. "E come dovrei guardarti? Sai quanto ci tengo…" Il telefono sulla scrivania squillò. "Gran Teatro Stabile del Tacco, Ufficio Direzione Artistica ed Amministrativa, parla Tullia, desidera?" Guerrino rimase a fissare il suo superiore con un sentimento di malinconia frammista ad una tenue speranza. La donna parlava con voce animata, picchiettando nervosamente l’estremità di un pennarello sulla sua scrivania di
mogano. "Tullia…", balbettò lui. La donna coprì il microfono del ricevitore con una mano. "Guerrino! Ti ho già spiegato. Non insistere! Mi metti in imbarazzo!" Un improvviso colpo di tosse, secco e violento, piegò in due l’uomo. "Ecco. Vedi? Ti sei risposto da solo! Andiamo. Vai a bere dell’acqua e lasciami sola, per favore. È una telefonata importante. Parigi." Tossendo, con gli occhi rossi e lacrimanti, Guerrino diede le spalle alla donna ed uscì dall’ufficio, chiudendo piano la porta. S’asciugò le lacrime con le nocche della mano, nodose quanto rami secchi. Quando fu sulle scale incontrò Luigino, il siparista, che scendeva in tutta fretta. Il collega si fermò. "Guerrino, allora, come va? Ci sei alla fine del mese per Shakespeare?" "Tullia dice che… che probabilmente ci sarò.", rispose il vecchio mentendo. "Ah, meno male. Allora c’è tempo ancora. Perché se te ne vai volevamo festeggiarti… sono tanti anni che lavori qui." Luigino sorrise benevolmente. "No no. Ci sarò, vedrai." "Vado avanti allora. Devo controllare il palcoscenico. Ci vediamo fra un paio di settimane." "Sì. Ciao Luigino", e salutandolo gli diede un’amichevole pacca sulle spalle. Quando i i del siparista si persero nella tromba delle scale, Guerrino si chinò su uno scalino. Accovacciandosi cominciò di nuovo a tossire, più forte di prima. "Maledetta… Maledetta Morte! Mi avrai sì, ma non prima della Tragedia!" Si rialzò ed andò, lento e dinoccolato, a cambiarsi in spogliatoio. Dopo trentadue anni ati a lavorare nel teatro, l’idea di doverlo improvvisamente lasciare
senza poter assistere all’ultima tragedia della stagione, lo rendeva terribilmente triste. Un’angoscia profonda, unita al dolore della malattia che avanzava insesorabile, lo attanagliava, e talvolta la notte gli impediva d’addormentarsi. I giorni precendenti lo spettacolo trascorrevano come se fossero ingranaggi spietati ed implacabili di uno spaventoso strumento di tortura in cui era imprigionato, e Guerrino andava chiedendosi quanto tempo avrebbe avuto ancora da vivere. Se mai prima di morire avrebbe potuto assistere ad un’ultima rappresentazione, senza quella terribile tosse che lo perseguitava. Non poteva certo assistervi da spettatore, di questo era ben consapevole. Nondimeno ogni ora si chiedeva se mai il Cielo ed i suoi Dèi, od il Fato, gli avrebbero risparmiato almeno un giorno. Ma con il trascorrere del tempo le sue condizioni peggioravano al punto che persino formulare una frase gli era quasi impossibile senza emettere colpi di tosse, e pertanto pian piano si spensero le sue ultime speranze di guarire. La malattia non gli avrebbe concesso nemmeno una tregua e lui aveva smesso anche di pregare. Venne il giorno precedente la prima. Non aveva assistito alle prove, per paura di disturbare gli attori con la sua tosse convulsa, e anche per la vergogna d’incontrare Luigino, il custode ed i colleghi elettricisti. Oramai non era più in grado di parlare. Di ricoverarsi in ospedale non ne aveva voluto sapere, nonostante la raccomandazione del suo medico. Essendo scapolo e senza fratelli né sorelle, ava tutto il giorno in casa, cercando di leggere, ma non vi riusciva. L’unica sua felicità risiedeva nell’attesa per il crepuscolo, quando poteva uscire per le strade della città quasi certo di non incontrare alcuno di sua conoscenza. Ogni sera ava più volte di fronte al meraviglioso ingresso del Gran Teatro. Le enormi, alte e pesanti porte di bronzo, costruite da abili fabbri, presentavano ricchi motivi floreali. Quante volte le aveva chiuse al termine di una rappresentazione, salutando gli spettatori più assidui, gli abbonati, quelli con i quali da tanti anni scambiava impressioni e pareri sul tal attore o sulla tal scenografia. Ora, ai lati del portone principale, stavano appese nelle bacheche di vetro due locandine della prossima tragedia: The Tragedy of Romeo and Juliet, by William Shakespeare, tragedia in cinque atti, in lingua originale. Grand Theatre of Stratford on Avon. Ma le voci ate rieccheggiavano nella memoria della vecchia maschera.
"Guerrino! Magnifica la recitazione di Gassmann, ma si vede che invecchiando migliora, come il vino, eh?" "Ehi, ma l’Otello in lituano è eccezionale. Non ho capito niente ma la suggestione era magica! Forte questo Nekrosius ed i suoi attori!" E il buon vecchio Guerrino sorrideva sempre, a volte con serenità, ed a volte sardonicamente quando gli spettatori eran scontenti ed andavano scuotendo il capo, lamentandosi con lui. "Vedrà che la prossima tragedia piacerà, Commendatore!", diceva per rincuorare il più caustico ed incontentabile di loro. E gli anni erano ati felici, fra commedie e tragedie, fra stagioni esaltanti ed altre deludenti. Ma lui sempre lì, a ricevere il pubblico nella sua impeccabile divisa a doppio petto dai bottoni dorati, quasi fosse lui l’anfitrione del teatro, e tutti i presenti non spettatori paganti, ma graditi ospiti della sua grande casa palcoscenico del genio drammatico dell’uomo antico e moderno. Sorrideva e salutava sempre, anche quando, ma accadeva raramente, trovava persone maleducate ed arroganti. Era elegante ed alto, e la gente non poteva non essere conquistata dal suo modo di fare affabile ma sempre sicuro. C’era addirittura chi diceva che molte signore anziane, sole e vedove, s’abbonavano ogni anno alla stagione teatrale per poterlo vedere e poter scambiare quattro chiacchiere con lui. Ora Guerrino era diventato vecchio e stanco. La malattia gli aveva scavato profonde occhiaie, ed i capelli s’erano fatti radi e fragili. La pelle del viso era giallastra. Il suo sorriso era rimasto, sì, ma era divenuto triste. La sera precedente la prima, dunque, l’anziana maschera guardava il portone d’ingresso. Tutto era chiuso. Anche il custode era andato a casa. Girò attorno all’edificio ed andò sul retro, davanti alla porta degli attori. Estrasse dalla tasca del suo cappotto il suo e-partout, ed entrò nell’androne, silenzioso e buio. Si muoveva a suo agio anche nell’oscurità. Mentre camminava ruppe il silenzio con alcuni colpi di tosse. Salì le scale che portavano alle quinte del palcoscenico e, giunto al quadro comandi elettrico, fece scattare alcuni interruttori. Eccole le meravigliose luci che da tanti anni illuminavano le scene, riempiendo di magia l’aria ed incantando gli occhi degli spettatori. Ancora un altro
interruttore ed ecco il celebre occhio di bue a gettare la sua luce elissoidale al centro. Guerrino si diresse nel mezzo del palco e rimase sotto la luce dei riflettori a guardare la platea, muta e vuota. Poi alzò gli occhi alle gallerie. Le contò: una, due, tre, quattro e cinque. Tutte vuote e silenziose. I palchetti, ai lati, parevano gli occhi orbi di un essere fantastico, senza tempo, testimone dell’anima creatrice degli uomini e delle donne. All’improvviso un terribile colpo di tosse piegò Guerrino. Egli s’inginocchiò, continuando a tossire come un vecchio cane malato e zoppo. Ed allora, quando la tosse parve lasciarlo un po’ in pace, cominciò a piangere ed a singhiozzare. "Maledetta vita ingrata! Nemmeno in punto di morte mi concedi di contemplare la bellezza della mia casa!", disse stringendo i pugni con rabbia. "Vieni. Andiamo. L’ora tua è giunta." La voce, sconosciuta e grave, d’una solennità quale mai l’anziano uomo aveva udito nella sua vita, riempiva il teatro tutto. Senza poter dire da dove provenisse, s’era femminile o maschile, colmava la testa del vecchio di domande e di terrore. "Chi ha parlato?", chiese egli tremante. "Son io, Guerrino, la Morte! Non m’aspettavi forse?" Una figura incapucciata, snella, alta, che a volte pareva di donna ed altre d’uomo, avanzava lentamente verso di lui lungo il corridoio centrale della platea. Quando lui la scorse s’irrigidì. Ed ecco, quasi a sottolineare le tremende parole, altri colpi di tosse, più forti, che lo lasciarono senza fiato. Quando poté respirare nuovamente, Guerrino s’alzò piano e prese a guardare la misteriosa figura, ferma a pochi metri. "Uno scherzo! Sì, questo è uno scherzo!", proruppe lui sorridendo ma con un terrore indicibile nell’animo. "Uno scherzo dici? Sì, forse, la vita stessa forse è un grande scherzo o un grande gioco, di cui gli uomini non accettano quasi mai le regole. È per questo che molti muiono infelici. La prendono troppo sul serio. Il tuo Dio sembra averti abbandonato. Almeno io ti faccio la grazia di farti morire dove sempre hai
desiderato recitare." Il vecchio sentì le sue forze abbandonarlo improvvisamente e pianse di nuovo perché egli aveva ormai compreso che era veramente la Morte a parlargli. Giunta a pochi i dall’uomo, sotto al palcoscenico, ella tese la mano verso di lui. Contrariamente a quanto s’aspettava, era giovane e bella. Lunghe dita sottili, quasi fossero d’avorio, non potevano appartenere alla Scura Mietitrice, disse fra sé e sé. "Perché non provo più paura, ora? E perché la tua mano è così bella che sembra risplendere nel buio?" "Quando la Morte arriva ed arriva per portare pace ai disgraziati", rispose la Morte "l’uomo sente all’improvviso che aggrapparsi alla vita ed alle sue miserie non ha più senso. Ecco che la Sua mano è quanto di più bello l’anima morente desideri stringere al suo petto." "Non mi lasci nemmeno vivere qualche altro giorno per poter assistere alla mia tragedia preferita di Shakespeare? Dove andrò ci sarà teatro?" "Dove andremo non ci sarà più il Guerrino che tu sei. Non ci sarà né Shakespeare né alcun teatro." "Lasciami poter assistere ad almeno uno spettacolo…" "No. È tardi. Andiamo." Ma come la Morte ebbe pronunciate queste parole, un coro di voci altrettanto misteriose riempì il luogo. "Oh Morte, lascia almeno che il povero Guerrino reciti il Suo Ultimo Atto. Lascia che muoia felice, sorridente, per una volta almeno protagonista della vita del palcoscenico, e protagonista principe della sua tragedia preferita, che tante cose dovrebbe insegnare agli uomini scellerati." "Di chi sono queste voci? Chi siete?", chiese impaurito Guerrino alla scura figura della Morte. "Queste voci sono le Voci dei Lari del tuo amato Teatro. Ti vogliono fare un
omaggio. Il regalo ch’io non posso farti. Ebbene, attenderò nell’ombra che tu interpreti l’Ultimo Atto. Metti dunque la parola fine a questa tragica storia. Tu, Guerrino, che mai conoscesti Amore di donna nella tua vita. E sia il tuo verbo ad insegnare agli uomini ed alle donne ad amare, con la stessa devozione con cui tu amasti il Teatro." E l’incappucciata figura svanì. Subito di fronte al vecchio, il cui cuore batteva furiosamente, la platea si riempì di un pubblico silente. Anche le gallerie ed i palchi erano adesso tutti occupati da spettatori disciplinati ed attenti. Non un solo posto era vuoto. Ed, incredibilmente, anche gli abiti della vecchia maschera erano mutati. Ora egli indossava un fastoso abito da regnante: lo sfarzoso abito del Principe di Verona. Attorno a lui, in piedi, le figure di Montecchio, Capuleto, frate Lorenzo, paggi e guardie. Accanto a loro i corpi ancora un poco tepidi, ma senza vita, di Romeo e Giulietta, nel camposanto della tomba dei Capuleti.
ROMEO E GIULIETTA, ATTO V, SC. III
Guerrino avanzò e guardò prima i capi Montecchio e Capuleto, e poi il pubblico. Finalmente ricordò le parole che tante volte aveva udito nella celebre rappresentazione di Shakespeare. Recitando sentenziò: PRINCIPE: "Una pace tetra ha portato il mattino con sé. Il sole, per il dolore, non mostrerà il suo capo: andate dunque, per parlare di queste tristi cose. Alcuni saranno perdonati, ed altri puniti: mai una storia è stata di tanta pena quanto questa di Giulietta e del suo Romeo."vii Alcuni attimi di silenzio e poi l’applauso del pubblico, scrosciante, che lo investì come un’onda del mare. E gli occhi di Guerrino brillavano come mai avevano brillato all’interno delle mura del Gran Teatro dove aveva trascorsi tanti anni della sua vita. Ma la sua gioia doveva crescere ancora perché prima nella platea, e poi a ruota anche negli ordini superiori e nei palchi, gli spettatori commossi andavano alzandosi per rendergli il saluto che solo ai grandi attori si tributa. Guerrino non tossiva più ed un sorriso meraviglioso si dipinse sul suo viso, non
più giallo, ma roseo e vigoroso, mentre le lacrime andavano offuscandogli la vista. La mattina dopo, quando il siparista Luigino rinvenne il suo corpo morto riverso sul palcoscenico, ancora quel sereno sorriso andava illuminandogli il volto.
La stampante del Diavolo
"Ti dico la verità Eligio! Questa stampante è indemoniata!", e dicendo questo quasi bisbigliando, l’uomo lanciava fugaci occhiate al tavolo. "Ascoltami Edoardo! Se fosse posseduta da una qualche forza del male non ti pare che avvertirei anch’io una certa presenza, una certa ansia ed agitazione interiore, inspiegabile? Non ti sembra che sentiremmo odore di zolfo e vedremmo del fumo uscire dai suoi ingranaggi?" "Non scherzare Eligio! Porta male! E poi Lei…" "Lei chi? Ma sei matto? Ma di chi parli?" "Ma come di chi? Guardala! Della stampante parlo! Ci sta ascoltando! Lei ode battere i nostri cuori! Percepisce le nostre paure…" Eligio sorrise e chiuse gli occhi per qualche secondo. Si rendeva conto che i discorsi di Edoardo erano strampalati. Ciononostante la voce dell’amico sembrava seriamente allarmata, e nei suoi occhi fissi alla bianca stampante appoggiata sul tavolo, così stranamente bianca e liscia che pareva fatta d’avorio e non di plastica, si leggeva una paura profonda. Quel genere di antico timore che da sempre l’uomo ha nutrito per l’ignoto. Ma la periferica sembrava un’innocua macchina elettronica per stampa. Certo, l’etichetta della marca era venuta via. Di essa non v’era più traccia. Era un modello insolito, dagli spigoli arrotondati, e la sua linea accattivante sembrava appartenere ad un’edizione limitata, per collezionisti. Il vassoio di alimentazione della carta presentava una strana forma, come di fiamma a due lingue, e le spie luminose dei comandi e delle operazioni in corso erano tutte di un rosso rubino. Ma era candida, immacolata, e sembrava che nemmeno la polvere, per qualche strano prodotto antistatico depositato sopra di essa, poesse sporcarla. "Ascolta! Sei fissato! Cos’è che t’ha suggestionato a tal punto, eh? Stammi a sentire. Forse il tuo computer ha dato…"
"No, no! Ti dico che è la stampante. Ho provato a collegarla ad altri computer e si comporta sempre allo stesso modo. Edoardo! Dammi retta! Portala al Convento dei Domenicani a Venezia, il prima possibile! Io te la lascio e non ne voglio più sapere! L’avrei portata io se non dovessi andare a quel convegno a Copenaghen! Portala da Padre Corrado. Lui se ne intende di queste cose!" "Senti Edoardo…" "Guarda Eligio! Ho persino i brividi sulla pelle.", e dicendo questo si tirò su le maniche di modo che l’altro potesse constatare la realtà dei fatti. Effettivamente i peli del braccio di Edoardo erano tutti ritti e la sua pelle sembrava quella di un’oca. Edoardo raccolse così i suoi abiti in tutta fretta, terrorizzato all’idea di stare ancora a discorrere di quella maledetta stampante. Indossò la sua sciarpa, il berretto ed i guanti, e lanciò a quel marchingegno un ultimo spaventato sguardo. "Ricorda Eligio! Il Maligno sceglie strani strumenti per operare. Non accenderla mai di notte! Mai!", e si congedò dallo scettico amico senza salutarlo. Eligio tornò ad osservare la bizzarra stampante con un briciolo di inquietudine. Nulla sembrava risultare insolito ad eccezione del suo turbamento, così, con nell’animo il proposito di parlare un giorno o l’altro con Padre Corrado dello strano comportamento di Edoardo, se ne andò a letto di buon’ora. La mattina dopo sarebbe dovuto andare in gita con la fidanzata Olga, in montagna, e l’indomani voleva essere fresco e riposato per poter guidare la macchina in tutta tranquillità e sicurezza. Quando Eligio si svegliò la mattina dopo, la stampante era accesa. Se ne accorse dalle luci che sembravano un paio di occhietti rossi fermi a fissarlo nella penombra. Come mai, chiese fra sé e sé. Ma non l’aveva spenta prima di addormentarsi? Percepiva il ronzio del motorino. Si alzò allora lentamente dal letto e calzò le ciabatte. La persiana della sua finestra era abbassata. Guardò l’orologio da polso. Segnava le undici e mezza. Lanciò un’imprecazione a voce alta. Come mai la sveglia non aveva funzionato? La prese con rabbia dal comò e la osservò in silenzio. Lo schermo luminoso non segnava il mancato funzionamento o il mancato utilizzo. Di solito, quando viene programmata e al segnale d’allarme non avviene lo spegnimento manuale, una spia lampeggiante lo indica. Lo schermo segnalava soltanto l’ora ed i minuti. Ma lui l’aveva programmata la sera precedente, se lo ricordava molto bene. O forse se n’era dimenticato per via di quella assurda conversazione con Edoardo? S’avvicinò
alla finestra. Sulla scrivania posta al di sotto della luce che filtrava da fuori, posava immobile l’eburnea minaccia che sembrava aver tolto il sonno, e forse anche un poco di senno, all’amico Edoardo. Il ronzio, una volta che Eligio le fu vicino, si fece come più vivo, più intenso. La sveglia non aveva funzionato e la stampante era accesa. Si chiese se Olga avesse chiamato. Di certo era nera dalla rabbia per il mancato apputamento. S’erano accordati perché andasse a prenderla sotto casa sua per le otto in punto della mattina. Lasciò la camera da letto e si diresse al telefono del salotto. La segreteria aveva un messaggio. Sicuramente era Olga che lo malediceva. Azionò il pulsante di riproduzione della registrazione ed una voce femminile, registrata in digitale, uscì chiara e forte dall’altoparlante: "Ciao Eligio. Sono le sette. Senti, non mi sento molto bene stamattina. Me ne sto a letto a riposare. Sai, mi sono venute le mie cose… e già ieri sera avevo un po’ di nausea. Mi sento ko. Ci sentiamo stasera, va bene cucciolo? Mi spiace che non andiamo in montagna. So che ci tenevi. Sarà per il prossimo fine, va bene? Ok cucciolo? Ah, vedi di stamparmi l’allegato a quella e-mail che hai ricevuto? Ok cucciolo? Sai che mi serve per la tesi, no? Dovresti averla la stampante adesso, no? Mi sembrava d’aver capito che Edoardo te la portava a casa perché gli ho già detto che il mio computer non funziona più per via di quel virus. Ah, per la carta fotografica, non è che potresti comparla tu? Poi ti porto i soldi, va bene? Prova a vedere al centro commerciale. Dovrebbero averla anche lì, no cucciolo? Ciao ciao amore… ah un’altra cosa, mi raccomando, per la stampa dei quadri dell’Apocalisse scegli l’opzione impostazione qualità alta, cioè alta risoluzione intendo, in modo tale che si vedano anche i particolari più belli delle figure e dei quadri, anche quelli più nascosti e vicini a Dio. Ma che dico, sono diventata un po’ filosofica e teologica, eh? A presto cucciolotto mio! Un bacio! Ciao ciao…" Eligio rimase a fissare il telefono un po’ interdetto. Olga aveva avute le mestruazioni due settimane prima. Ne era certo, e lei le aveva avute sempre regolari da quando la conosceva. Come mai diceva di sentirsi poco bene mentre la sua voce tradiva sotto sotto una certa gioia? All’improvviso il ronzio della stampante si fece più vivo. Ma, più distinto, non pareva più quello d’un motorino. Eligio era inspiegabilmente sudato. Aprì e chiuse le labbra come un pesce boccheggiante. Che cos’era questo improvviso
malessere che lo tormentava? D’un tratto non gli importò più niente della gita in montagna. "Ma che vada al diavolo anche quella brutta…" La sua voce, astiosa e alta, l’aveva sorpreso non poco. Non era da lui prendersela così. Un uomo placido e molto padrone di sé, attento nell’esprimersi con garbo anche nelle situazioni più delicate e difficili. Fondamentalmente buono, al punto che la stessa Olga andava dicendogli da sempre che forse quella del santo era la sua vera vocazione, e non di ricercatore all’Archivio Storico dell’Università. Fece per andare in bagno a lavarsi quando si fermò sull’uscio della sua camera. Vide che sopra la stampante volavano in cerchio alcune mosche. In senso orario ed antiorario, andavano incrociandosi in continue picchiate e cabrate, che alternavano quasi in un’assurda, rituale danza aerea. Gli sembrò impossibile. Si strofinò gli occhi. Erano proprio mosche quelle che volteggiavano emettendo il loro caratteristico e fastidioso ronzio. Ed erano anche belle grosse, con i loro riflessi argentei ed iridati. Disgustato, entrò deciso nella stanza, tirò su energicamente le persiane e spalancò le ante della finestra. Finalmente la luce poté entrare nella camera, ma subito un’aria gelida lo investì. Fuori l’inverno regnava incontrastato ed il freddo pungente lo svegliò meglio di qualunque doccia, come trafiggendo la sua carne con tante lame di ghiaccio. Meglio il freddo di quelle bestie schifose, pensò. "Accidenti che freddo boia! Miseria! Maledette mosche! Sciò!!! Fuori!" Agitò più volte le mani e quelle uscirono fuori all’aria aperta. Non ne rimase alcuna e solo quando richiuse la finestra certo d’averle scacciate tutte, buttò lo sguardo sulla stampante. Dal vassoio della carta, leggermente socchiuso, cadevano sulla scrivania e sul pavimento larve di mosca. Si sedette sulla poltrona girevole davanti al computer, come privo di forze. Lo accese ed aspettò il caricamento del sistema operativo. Dopo un paio di minuti, sul desktop dello schermo apparve una finestra di connessione alla Rete. Eligio digitò allora meccanicamente, senza meravigliarsi e porsi domande, la e rimase in attesa. Imbambolato, teneva le palpebre a mezz’asta. Una forza misteriosa ne guidava i movimenti e ne paralizzava l’intelletto, senza tuttavia spegnere la sua coscienza che, desta ma impaurita, sembrava come attendere una sorta di rivelazione. Sul monitor del computer si aprì una finestra di connessione
multimediale: l’inquadratura di una webcam mostrava una stanza da letto: in un angolo riconobbe l’enorme orso polare di peluche che aveva regalato ad Olga il giorno di San Valentino dell’anno prima. La luce era fioca, ma poteva distinguerlo bene. Al centro, nell’oscurità, due corpi nudi andavano agitandosi freneticamente su un letto. Mentre lo sbalordito Eligio si sforzava di metterne a fuoco lineamenti e figure per cercare di riconoscerli, ad un tratto gli altoparlanti montati sul monitor diffo nella sua stanza delle voci: "Mmhhhh… ti prego… aspetta, aspetta… mmmhhh… Guarda, il computer… si è … come mai… mmmhhh… OH…AH AAHHHHHH!!!" "Che cosa", rispose una voce maschile molto affannata "vuoi…ah ah ah AHHH…che me ne importi!!! Ah, Olga, ti muovi come una splendida cagna in calore! Magari facciamo anche un film porno con la webcam più tardi!", e l’uomo si lasciò scappare una risata sguaiata. Mentre altri mugolii e gemiti riempivano la stanza e la testa sgomenta di Eligio, la stampante iniziò il lavoro per cui era stata pensata originariamente. Lentamente un foglio prese a scorrere e ad uscire dall’estremità di pronta stampa. Quando il foglio uscì definitivamente, Eligio lo prese fra le mani tremanti. In bianco e nero, la foto in digitale dei due amanti mentre s’accoppiavano era corredata dall’illustrazione di una gigantesca mosca nera dalla testa umana deforme. "Oh Signore Gesù Cristo, o Signore Onnipotente! Dammi la forza perché perdoni quegli scellerati… Mio Dio… perché mi hai lasciato? Perché mi avete traditi? Mio…", e la voce sussurata di Eligio, nella sua disperata preghiera, variò nel suo timbro. "Mio Signore…Ba’ al zevuv…", disse piangendo Eligio. "Beelzebub! Dio delle Mosche…tu mi mostrasti la verità che il mio Dio mi celava, l’amara verità che mi nascondeva! Dammi la forza perché… Idolo di Accron! Ba’al zvul, che tu sia il "signore della casa" o il dio della città di Zebub! Dammi la forza! Ti prego, ti scongiuro…" Un’ora più tardi Olga andò ad aprire in vestaglia e si trovò davanti Eligio, stranamente di buon umore, che reggeva qualcosa sottobraccio avvolto da una coperta. Ella, spaventata a morte per l’inattesa visita, si scusò se lo riceveva così ma, a sua dire, era ancora mezza addormentata e s’era appena destata da un incubo, e poi quella terribile nausea…
"Un incubo, eh? In montagna il prossimo fine, eh? Ed intanto tu su e giù per le montagne russe nel letto con il tuo amante, eh? Levati di torno sgualdrina! Cagna! Sì, sei una cagna come dice lui, ma lurida come la fogna!", gridò Eligio e colpì Olga violentemente con la mano serrata a pugno. Le sbatté la testa contro la parete e lo stipite della porta e poi, con fare rabbioso, le infilò in bocca la foto accartocciata che la ritraeva col suo amante. Sempre reggendo il fagotto entrò disinteressandosi di Olga che, sanguinante, s’era intanto accasciata a terra singhiozzando. Eligio attraversò il corridoio della casa avanzando a o spedito verso la camera da letto della ragazza, illuminata solo dalla luce bluastra del salvaschermo del computer. Quando fu lì spalancò l’enorme armadio a muro e dentro, impaurito e tremante, vide con soddisfazione chi andava cercando. Un corpo scosso come una foglia se ne stava rannicchiato in un angolo, nudo come un verme. "Ciao Edoardo. Sai, a proposito di quella stampante", disse sorridendo beffardamente Eligio "avevi ragione. C’è qualcosa di strano!" Poi aprì il fagotto che teneva saldamente sotto il braccio e cominciò a colpire ripetutamente e con furia cieca la testa dell’amico, fracassandola con la stampante del Diavolo.
Incontro con la Fortezza Naufraga
La figura nera di un bimbo in calzoncini corti, in piedi in una stanza vuota con sullo sfondo un cono di luce a mo’ d’occhio di bue da palcoscenico, cattura quasi ipnoticamente lo sguardo di Jacopo Saza, scrittore e sceneggiatore alle prime armi ed in cerca di gloria. È la foto di copertina di Ronchi-Stone/P. Rees di un saggio della Garzanti Editore. Jacopo Saza, letterato trentenne un po’ in sovrappeso residente a Jesolo Lido, abbandona l’immagine del bimbo e si distrae guardando fuori dal finestrino dell’autobus blu di linea diretto a Venezia e che staziona al terminal di Piazza Drago in attesa di partire. L’assolato primo pomeriggio è splendido nell’aria nitida di fine maggio. Il motore della corriera è e l’autista, un uomo calvo in camicia celeste e cravatta grigia, con un paio di occhiali da sole a specchio, siede indispettito a braccia conserte al posto di guida, sbuffando ogni tanto ed attendendo di cominciare la sua corsa secondo l’orario della tabella di marcia. Jacopo Saza, con il suo carico di libri ed appunti fitti fitti di una calligrafia minuta ed ordinata, siede un po’ melanconico dietro di lui. È domenica ed è la prima volta che il giovane prende quella corsa. Jacopo ha sempre amato osservare i eggeri e le persone che si muovono attorno ai mezzi pubblici di trasporto, in particolar modo lo faceva da studente universitario, quando quotidianamente si recava nel capoluogo lagunare per seguire le lezioni d’ateneo. Spinto da una fantasia sfrenata e dalla voglia di conoscere le mille sfaccettature della vita, cercava sovente, e cerca tuttora, d’indovinare alcuni tratti delle vite sconosciute e dei loro caratteri, attraverso piccoli indizi: i vestiti indossati, il portamento, il tono di voce e qualche parola scambiata con l’autista, con il bigliettaio o con lui stesso. Egli, senza brillare particolarmente e con notevoli sforzi, da un paio d’anni ha conseguito la laurea in Lingue e letterature straniere. Ora lavora a Venezia, senza entusiasmo, in una piccola casa editrice il cui proprietario e direttore è un grasso ometto barbuto sulla cinquantina dal sorriso serafico e dalle mani sempre sudaticce.
Jacopo è responsabile editoriale di una collana di classici di letteratura americana. È un lavoro che raramente lo appaga perché il suo desiderio sarebbe stato quello di fare il giornalista d’assalto ed il corrispondente di guerra. Di frequente, inoltre, deve guardarsi alle spalle dall’invidia di qualche collega. Qualcos’altro tuttavia lo inquieta. Non è la nevrosi colitica che lo perseguita da anni, conseguenza d’un grande amore finito in pezzi. Jacopo sa in cuor suo che sarà ancor più difficile per lui non solo vivere un altro amore, ma soprattutto conquistare la "laurea della vita", che secondo la sua fervida immaginazione consente di vivere sereni, calmi e silenti, quasi immuni a qualunque malattia nevrotica e psicotica della vita occidentale, fatta di semafori alla felicità, ingorghi della tristezza, svolte mortali negli affetti e talvolta mortali incidenti con amici, colleghi di lavoro ipocriti, familiari gelosi ed amori fedifraghi. Tutti, chi più chi meno, potenzialmente lanciati contromano a folle velocità contro noi stessi, destinati così ad impattare frontalmente mandando in frantumi i nostri credi, sogni, ideali, e le nostre cieche fiducie. Il sole, attraverso un’aria tersa ed un cielo sgombro di nuvole, acceca, e Jacopo dall’interno dell’autobus guarda i anti. Socchiude gli occhi e rinuncia ad accostare la tendina del finestrino. Si consola così, con il senso della vista e sciogliendo le briglie della sua fantasia. In un attimo i pensieri d’una vita che non sente piena vengono spazzati via. Altre riflessioni s’affollano nella sua mente. Traspare una cera volgarità dai modi e dagli abbigliamenti di alcune donne. In altre risaltano grazia e raffinatezza. Ragazze in body e costume brulicano nella piazza. Lui le osserva con un lieve sorriso attraverso la sua ambulante finestra sul mondo. Le vede ora come oche, ora come cigni umanizzati. Le scruta interrogandosi sulle loro anime imprigionate in adiposi, anoressici o abbronzati corpi palestrati. Adolescenti, giovani donne, grasse e snelle figure o dalla pelle liscia e vellutata, o piena di smagliature e ruvide come bucce d’arancia. Slanciate e procaci ragazze con le loro canotte, i loro tanga, le mutandine, i top in jersey e chiffon, i jeans a vita bassa che lasciano intravedere l’ombelico e qualcos’altro, ancheggiano sotto il caldo sole primaverile ed allietano con le loro gaie e squillanti voci l’aria salmastra. I loro corpi eccitano la fantasia di vecchi sporcaccioni, ragazzi comuni, pendolari in gita al mare e mastrolindi ghiotti di creatina e tiratissimi per evitare la ritenzione idrica, desiderosi come sono di mostrarsi sulla battigia nelle loro
plastiche pose, certi d’attirare l’attenzione femminile o più semplicemente per gratificare il loro narcisistico ego. Jacopo riflette e avverte dentro di sé che lo scintillio dell’acciaio chirurgico, del titanio e dell’argento dei piercing, degli orecchini e dei brillantini, sono le uniche luci di libertà delle nuove generazioni dall’identità smarrita. Jesolo ed il suo lido, porto e vecchia capitale decaduta del divertimento notturno balneare, conserva ancora qualche retaggio della bellezza e vita mondana che furono, ed aggiunge nuove tradizioni, come la sfilata di moda improvvisata lungo le sue isole pedonali. Se un tempo infatti s’usciva a eggiare per divertirsi, per chiacchierare e bere in compagnia, imbarcare attaccando bottone con qualcuno, ora è solo pura esibizione di forma fisica e sfoggio d’abiti firmati. Jacopo, jesolano innamorato più delle lettere e delle figure femminili angeliche piuttosto che delle statuarie ragazze in topless, osserva nuovamente la copertina del libro appoggiato sulle sue ginocchia: The Empty Fortressviii, una delle fatiche letterarie degli anni ’60 del secolo scorso, scritte da Bruno Bettelheim, celebre medico americano di origine ebrea, ma nativo di Vienna, morto suicida nel 1990. I giovani appena scesi dall’autobus in cui Jacopo è da poco salito vanno allegramente e chiassosamente in spiaggia, a divertirsi. Lui invece va nell’altra direzione, verso Venezia, verso un amore perduto, verso un’elegante ed un po’ decaduta dama d’acque, simbolo di tolleranza e d’amore, come l’ha ben cantata Franco Filippi del quale Jacopo è conoscente.ix Jacopa Saza, scrittore esordiente ed intellettuale di basso profilo, si reca verso l’antica Serenissima ma scenderà prima del Ponte della Libertà, nella città di Mestre, per far sua una modesta fetta di gloria. Ritira infatti il primo premio per la sezione di prosa di un concorso letterario nazionale. Non è la gloria che ha sempre sognato ma sa accontentarsi di piccoli assaggi. Jacopo ha con sé il saggio di Bettelheim per ingannare il viaggio e per rinfrescarsi l’argomento che sta studiando nei ritagli di tempo. A Venezia, da poche settimane, segue infatti come tutor un bambino autistico. Rispondendo irrazionalmente all’accorato appello di una madre pubblicato su un quotidiano che egli sfogliava distrattamente in un bar, è diventato da qualche settimana insegnante-collaboratore in un programma terapeutico per il recupero di un piccolo affetto da autismo infantile. Jacopo ha scoperto con piacere che la cosa, ora come ora, è l’unica, insieme all’affetto di pochi ma veri amici, che riesca a dargli un po’ di gioia nella sua vita affettiva,
contrassegnata da uno stantio e vuoto nucleo sentimentale di vecchie ioni amorose, pieno di ricordi amari ed ingialliti che l’hanno da tempo gettato in quella fastidiosa nevrosi colitica di cui è affetto. L’autobus sta per partire ed un attimo prima che l’autista calvo e dagli occhiali da sole a specchio spinga l’impaziente dito fermo da qualche secondo sul pulsante della porta automatica, ecco affacciarsi una figura maschile sciancata. Dondolante su piedi storti, sembra aver l’aria di voler salire sul mezzo. "Avanti. Muoviti. Guarda che vado via io!" La voce dell’autista, aspra ed alta, risuona nell’autobus rompendo il silenzio e destando l’attenzione dei pochi eggeri. Lo storpio, magro e dalla camicia a righe rosse abbottonata male e fuori dai pantaloni, è sui trenta o quarant’anni. Non si capisce bene. Porta degli occhiali tondi, dalle lenti spesse e graffiate. Non profferisce parola. Vacilla indeciso. È molto sudato. Le gocce di sudore gli grondano sulla fronte. La camicia ne è impregnata. Poi, lentamente, afferra con la mano sinistra il corrimani e comincia a salire, con estrema difficoltà, uno scalino alla volta. Sbuffando più stizzito di prima, l’autista attende che quest’ultimo eggero sia salito in sicurezza sul predellino prima di chiudere la porta ed avviare il suo mezzo. Jacopo, incuriosito, non ha perso un solo istante della scena. Ora l’uomo, il disabile ritardatario dell’ultimo momento, è a pochi centimetri da lui. L’autobus, percorsi alcuni metri nel parcheggio della stazione, sterza per mettersi in strada. Lo sciancato quattrocchi barcolla pericolosamente sotto il gioco delle forze di Coriolis. Riesce a non cadere, reggendosi con sforzo estremo alle maniglie dei sedili. Sora claudicante Jacopo Saza e si siede sprofondando con sollievo su un sedile una fila dietro di lui. Ad occhio e croce, lo giudica Jacopo, è un disabile mongoloide. Saza torna alla sua finestra sul mondo, attraverso la quale gli si era disteso lo spettacolo delle nuove giovani tribù del ventunesimo secolo, prive di sciamani e riti d’iniziazione. L’autobus nella sua corsa le ha già lasciate alle sue spalle. Esce dalla rotonda e si dirige verso Jesolo Paese. Giunti all’ingresso della città, attraverso il finestrino Jacopo osserva la bellezza dell’ansa del Sile. I salici piangenti cresciuti sugli argini ne accarezzano e baciano dolcemente lo specchio con i loro rami ricurvi, quasi a voler benedire le eggiate d’amore delle coppie di cigni dalle piume immacolate che ne fendono silenziosamente le acque.
Ma al silenzio dei cigni s’accompagna un verso disperato. Jacopo Saza ed altri eggeri si voltano imbarazzati verso lo sciancato ritardatario. Egli emette ad alta voce versi dal tono interrogativo, quasi animaleschi. Sta chiedendo qualcosa, ma ben presto l’attenzione dei viaggiatori scema pensando ad un comportamento abituale dell’uomo. L’autista gli risponde annoiato e per niente meravigliato, quasi possedesse una misteriosa chiave d’interpretazione: "Arriviamo per le 14.45." Deve indubbiamente conoscere quello strano viaggiatore. Ancora un verso indecifrabile, che risuona nel silenzio della corriera. Poi si distingue una parola: "orario". "A sua disposizione Maestro! Sì, non preoccuparti, ti lascio in Piazza Barche. Arriviamo fra tre quarti d’ora. Sta’ bon ora!" La voce dell’autista è di un tono paziente ma incrinata da una certa insofferenza. Jacopo prende in mano il suo zainetto. Fruga in una tasca e trova quello che cerca. Tende allora una mano porgendo l’orario delle corse dell’autobus a quello strano viaggiatore. Lo sciancato rimane immobile, con lo sguardo fisso al soffitto. È sempre più madido di sudore. Con una mano tremante regge un fazzoletto grigiastro con cui si deterge la fronte. Finalmente un lieve accenno di gentilezza nella voce malata, che risponde: "No, ‘razie tante." Jacopo ripone l’orario in tasca e riprende ad osservare gli alti canneti del Sile che scorrono alla sua sinistra, dividendo il letto del fiume dalla laguna veneta, ed i verdi campi che si stendono a perdita d’occhio alla sua destra. "Ovane! Ovane?!" La voce risuona di nuovo alta e supplicante. Jacopo Saza si volta verso di lui. Sì, non si sbaglia. È proprio a lui che si rivolge il viaggiatore storpio. " ’Ovane", dice l’uomo con una lentezza estrema, mortificante, rivolto verso Saza quasi in una preghiera disperata, con una voce che tradisce uno sforzo immane per risultare la più intelligibile possibile "’isto che sei… che sei ’osì gentile, avresti voglia di fare due… due parole con me?" Jacopo comprende che gli ha posto una domanda difficile. Se gli dovesse rispondere di no, sa che gli negherebbe un po’ di umanità. E quell’ umanità è un
diritto inalienabile o un regalo pietoso? E nel parlargli, riuscirà ad essere sincero e spontaneo, oppure dovrà recitare il ruolo del buon samaritano, misurando le parole e rinunciando ad essere se stesso? Sospinto da un senso di laica fratellanza, infine risponde:" Certo, vieni a sederti qui vicino a me." Lo storpio s’alza senza mostrare né gioia né riconoscenza e siede accanto a lui. Ora Jacopo lo può vedere meglio. Lo sguardo del giovane sciancato è perso strabicamente verso il soffitto, anche quando volge il volto imperlato di sudore verso Jacopo. "Dove stai andando?", chiede lo scrittore. "Oni domenica, io ’ado al cinema. Mi pace il cinema d’essai" Aveva capito bene Jacopo? Aveva proprio detto d’essai? "Io, ’ado prima al Cinema Mignon, e poi alo ’ettacolo del cinema Dante… ove mi pace tanto il cinema d’autore. Mi pace immergermi in una full immersion di film. Il cinema è la mia ’ande ione con cui impegno le ’ornate ’estive." Quanti minuti aveva impiegato per pronunciare queste parole! "Qual è il tuo nome?", chiede Jacopo. "Corrado. Tu ’ome ti ’ami? " "Jacopo. Jacopo Saza. Quanti anni hai Corrado?" "Entasei. E tu?" "Ne ho trenta. E che film vai a vedere oggi?" "Perduto Amor di Franco Battiato." Jacopo si meraviglia. Non sapeva che Battiato fosse anche regista. Che lo sciancato si sia confuso? "E dimmi, qual è il film che ti è piaciuto di più?" Corrado ci pensa un po’ su e poi risponde, sempre con estrema attenzione
nell’articolare la frase: "A parte Salvate il soldato Ryan, di Steven Spielberg, che ‘udico uno dei migliori film americani ultimamente ’rodotti, sono apionato di cinema italiano, ed in ’articolare mi ha colpito Palermo-Milano solo andata, di Claudio Fracasso, con Giancarlo Giannini, Raoul Bova, Ricky Memphis e Stefania Sandrelli, e qualche altro attore…" "Non l’ho mai visto. Di che parla?" " ’Arla di una scorta della polizia che porta da Palermo a Milano un ragioniere della mafia. È un poliziesco alla Piovra. Pieno di agguati e ’aratorie. ’Ove vai Jacopo?" Lo sguardo dello sciancato è solenne. Gli occhi, strabici e persi verso un infinito segreto, sono scuri, quasi spaventosi nella loro fissità. "Sto andando a Mestre a ritirare un premio letterario. L’ho vinto con un mio racconto inedito. Mi piace scrivere. Scrivo per delle riviste, ed ho già pubblicato un romanzo tre anni fa, in due edizioni, con una piccola casa editrice di Firenze. Adesso lavoro a Venezia, come responsabile editoriale, ma un giorno mi piacerebbe guadagnarmi da vivere come scrittore o come giornalista a tempo pieno." Corrado volta la testa verso l’autista. Sembra che guardi la strada, poi torna a fissare Jacopo, sempre tenendo gli occhi puntati al soffitto. "E di che ’arla il tuo ’omanzo?" "Beh, è un romanzo postmoderno, dal carattere autobiografico. Lo scrissi otto anni fa, quand’ero molto immaturo e non capivo niente delle donne… non che adesso capisca granché ma… qualcosa. Ci sono due voci nel mio libro: quella mia, di narratore autodiegetico, e quella di un narratore onnisciente. È un romanzo di formazione, d’iniziazione alla vita ed all’amore. Il protagonista sono io, come ti dicevo. Narro in prima persona la mia vita, i miei sogni ed i miei disincanti, le mie ioni, i miei amori platonici e le mie sconfitte davanti al male. Prima, durante e dopo il servizio militare, circondato dai miei amici e dalle due figure femminili cardine del libro: Vanessa, una ragazza borderline, primogenita di una ricca ed aristocratica famiglia veneziana. È la prima donna di cui m’innamoro. Una donna in preda ai suoi deliri, capace di una poetica delicatissima nel suo mondo privato, segreto, diaristico, tanto quanto è volgare e dissoluta nella vita di tutti i giorni. È profondamente infelice perché non crede più nell’amicizia. L’altra è Natalie, conosciuta mentre sono soldato di leva: una
popolana friulana, povera, orfana di un alcolizzato. Natalie è l’altro mio amore platonico. Una ragazza di poche parole, ma ogni suo gesto e sguardo celano sensibilità ed una profonda conoscenza del dolore dell’animo umano. Natalie non crede più nell’amore, ed il suo unico desiderio è di avere un figlio." Corrado ha ascoltato con attenzione, senza muoversi. Ora che Jacopo ha finito guarda il fiume che scorre sotto ai loro occhi. " ‘Ome si ’ama?" "Angeli Smarriti. L’ho intitolato così anche perché dio è il grande assente dalla mia storia e dal cuore dei protagonisti." "Tu ’ei ateo?" "No. Sono agnostico. E tu?" Corrado attende qualche secondo prima di rispondere. "Io, ’inceramente, da parte mia preferisco non addentrarmi in simili discorsi filosofici e teologici, perché non se ne viene più fuori." La risposta, assennata e tutto sommato veritiera, lascia di stucco lo scrittore. "Comunque, per ’ome hai esposto la storia del tuo libro, ottima capacità di sintesi, e ’adronanza della ’ingua italiana. Complimenti." Corrado estrae da una tasca un pacchetto di sigarette Marlboro rosse. "Marlboro. Ottima scelta!" "Jacopo. ’Erfavore, dovresti ’aiutarmi…" "Dimmi Corrado." "Dovresti ’enermi il posto mentre mi fumo una sigaretta alla ’ermata dell’roporto." "Ma certo…" Jacopo si chiede come farà a fumarsi una sigaretta in santa pace se alla fermata dell’aeroporto Marco Polo non è prevista la sosta. "Intendi qualche boccata? Non avrai tanto tempo."
"Sì." "Ah, le sigarette. Amanti ed amori fedeli, compagne sincere sì, ma che prima o poi ti uccidono. Anche io ho fumato per diversi anni. Poi sono riuscito a smettere." "Jacopo?" "Sì Corrado?" "Ti ’ego solo di non metterti ’esso a farmi la morale sul fumo…" La voce di Corrado, sempre molto alta e lentissima nella scansione delle singole parole, è seccata. Jacopo comprende che Corrado s’erge dentro ad un corpo sciancato e mal funzionante anche sulle stampelle di un orgoglio indomabile. Un orgoglio che rivendica il diritto a vizi e gioie, prerogative di tutti, e non solo delle persone cosiddette normali. Mentre l’autobus arriva allo scalo aeroportuale, ed accosta alla fermata, sotto la pensilina, Corrado s’alza faticosamente in piedi. Reggendosi sempre ai corrimani si pone all’uscita subito di fronte alla porta automatica. Alla sua destra siede una ragazza straniera. Una croata bionda con i capelli raccolti in una coda di cavallo, che per una buona parte del viaggio ha parlato al telefono cellulare. Corrado abbassa la testa e le guarda le gambe. Lei porta una minigonna bianca, con delle frangette, e sebbene non abbia le gambe incrociate, Corrado tenta di guardarle in mezzo. "Belle mutandine!" Qualcosa, simile ad un sorriso, si disegna sul volto dello sciancato, un po’ monello ed un po’ maniaco. Tuttavia il gesto e le sue parole non irritano la ragazza che gli risponde sorridendo. Jacopo assiste alla scena divertito. Poi la porta della corriera si spalanca e Corrado scende quasi con i movimenti di un ragno dalle zampe spezzate. A terra lo sciancato non fa in tempo a tirare due boccate che l’autista lo apostrofa duramente: "Muoviti Corrado! Io me ne vado!" Sempre con degli sforzi indicibili Corrado, dopo aver buttata a terra la sigaretta appena accesa, sale in corriera e torna a sedersi accanto a Jacopo. Ogni tanto Jacopo e Corrado scambiano quattro chiacchiere e più d’una volta l’umorismo nero dello sciancato strappa una sonora risata allo scrittore, conquistato dalla scenetta delle mutandine, e dalla voglia di vivere e dall’ironia di Corrado. Finalmente, con grande sollievo dell’autista, i due compagni giungono a destinazione, a Piazza Barche. Sono gli unici a scendere. Una volta a
terra Corrado rivolge un’ultima richiesta a Jacopo: " ’Redo che tu possa farmi compagnia per un caffè, ’isto che hai la premiazione alla tre e mezza, ’usto? Puoi accompagnarmi al cinema…" Jacopo resta interdetto. "E poi… e poi ti mollo.", aggiunge infine lo storpio, spruzzando senza volerlo in faccia allo scrittore una miriade di goccioline di saliva. "Certo Corrado. Andiamo a bere un caffè", risponde poco convinto Jacopo Saza. Nell’intimo ha avvertito che Corrado sa benissimo d’inquietare con la sua voce ed i suoi movimenti da disabile. Così la strana coppia, con lo sciancato a guidare claudicante davanti e lo scrittore fallito a seguire dietro, s’incammina verso il cinema Mignon, lasciando Piazza Barche, attraversando via Poerio e dirigendosi verso via Carducci. "Jacopo?" "Dimmi Corrado?" "Mi auguro di non ’verti annoiato troppo. Ho tante difficoltà a comunicare con la ’ente…" "No Corrado. Al contrario, mi ha fatto piacere parlare con te, e ti ho capito benissimo, perché ti sei sforzato bene. Conosci bene la lingua italiana e sei una persona colta e brillante nella conversazione. Ma dimmi, sei nato così, oppure ti è successo…" La domanda che Jacopo Saza aveva dentro di sé sin dall’inizio del loro incontro, finalmente gli esce dalla bocca. "Io ho una paresi spastica. È stato un incidente ’adale a ridurmi così, all’età di dieci anni. M’investì in pieno un’automobile. Ero normale come te, prima…" Percorrono tacendo gli ultimi cento metri che li separano dal bar. Una volta entrati, davanti alle tazze di caffè, Corrado ha difficoltà a bere. Le mani gli tremano terribilmente nel reggere la tazzina. "Vuoi che ci sediamo a bere, Corrado?" "Negativo!"
"Parli come i Top Gun americani?" Jacopo sorride. Il suo compagno si volta. Lo fissa inespressivo. Non risponde alla battuta non perché non l’abbia capita, ma perché vinto da un rancore sottile, sotterraneo, che emerge talvolta come un geiser, antico quanto il suo dolore di uomo defraudato della spensieratezza e della forza giovanile. Escono dal locale e s’avviano al cinema. Giunti all’ingresso, sostano davanti alla locandina del film in proiezione. È proprio Perduto Amor di Battiato. " ’Isto che dicevo sul serio?" "Sì." Stanno per salutarsi. Jacopo sorride, ma è un sorriso ipocrita, di circostanza. Ha il terrore inspiegabile che Corrado s’attacchi morbosamente a lui. Che voglia rivederlo a tutti i costi. Non sa che quel viaggio da Jesolo a Mestre è quanto di più bello Corrado abbia mai desiderato. Parlare ad una voce sconosciuta ma amica, anche per pochi minuti. "Allora, Jacopo, m’auguro… un giorno… che io possa magari leggere la recensione… una tua recensione di qualche film su ’alche ’iornale… T’auguro che tu ’ossa diventare un bravo giornalista!" Corrado afferra la mano di Jacopo e la stringe forte. È una stretta salda e sincera la sua, che imbarazza e commuove il giovane scrittore. "Grazie di cuore Corrado. Ti auguro ogni bene…", dice Jacopo, provando un inspiegabile senso di vergogna. Corrado si volta, spinge la porta d’ingresso del cinema, mostra alla maschera la sua tessera e scompare dietro alla tenda della sala. Torna così alla sua angosciosa solitudine, senza scampo, perché egli è fortezza naufraga nel mare dell’esistenza.
Ultimo pensiero di un padre
Adnan si china sul letto della figlia. La bacia in fronte sfiorandole la pelle con le labbra secche. È l’emozione. Gli si seccano sempre quando i sentimenti lo pervadono. "Papà?" "Dormi." "Papà, resta qui con me." La piccola fa per alzarsi ma il padre la trattiene dolcemente, rimboccandole le coperte. "A letto. Devi dormire tu. Domani hai scuola. Domani anch’io m’alzo presto. Prima di te. Buonanotte." "Papà…" C’è apprensione nella voce della bambina. I suoi occhi, scuri e grandi, sembrano porre mille domande. Gli occhi del padre, un po’ melanconici, hanno una sola risposta: Ti voglio bene. Per qualche strana ragione, però, non riesce a pronunciare queste semplici parole. Poi egli s’alza e s’allontana dal letto. Si ferma sulla soglia della camera, si volta e resta immobile per qualche istante con la mano sull’interruttore. Sua figlia continua a guardarlo, in silenzio. Clic. Scende il buio. Adnan ha spento la luce di quella stanza, per l’ultima volta. Il mattino dopo di quel mese di dicembre, in una Vicenza sonnolenta e trafficatissima, il solito autobus di linea che Adnan prende per recarsi in fabbrica è stracolmo. Ogni tanto il manto stradale accidentato lo fa sobbalzare. In piedi vicino all’autista, sta pensando a sua figlia e a sua moglie. La donna perì a Baghdad il 13 Febbraio 1991 durante un bombardamento delle Forze Alleate. Nel rifugio antiaereo Amiriya che fu raggiunto per errore da due missili Cruise. Morì bruciata viva dall’acqua bollente fuoriuscita dalle esplose tubature.
Sono trascorsi diversi anni da allora. La famiglia ha trovato asilo in Italia dove Adnan lavora in regola come operaio di una conceria. L’uomo sa che sua figlia, se gli succedesse qualcosa, vivrebbe comunque. Addolorata ma orgogliosa. C’è la nonna a prendersi cura di lei, che ha raggiunto l’Italia grazie alle nuove leggi di ricongiungimento familiare. Ma Adnan a volte è divorato dai dubbi. Molto colto, studia sin da ragazzo come autodidatta. Così si chiede dove trovino, i terroristi di Hamas e delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa, il coraggio per immolarsi, per incenerire e mutilare degli innocenti, in Palestina, a Gerusalemme ed in Iraq contro gli israeliani e contro "l’infedele" invasore che ha abbattuto una dittatura sanguinaria senza chiedere il permesso ad un popolo sottomesso. Si chiede il senso di questa spirale d’odio e di violenza apparentemente senza fine. Perché i suoi fratelli si consacrano al martirio? Non vi sono altre soluzioni alla guerra dichiarata all’Occidente? Domande inusuali per un mussulmano. Lui è uno dei pochi che vuole capire, ma non ha mai esternato i propri pensieri con alcuno dei suoi fratelli islamici. Ha paura. L’autobus sta accostando ad una fermata. Allora un uomo, accanto all’autista, alza le braccia e grida. È un membro di Tawhid wal Jihadx. Apre la giacca. Ha una cintura di esplosivo attorno alla vita ed al petto. Urla guerrescamente mentre la folla viene presa dal terrore e si accalca disperata alle porte che l’autista ha provvidenzialmente aperto. Alcuni cadono e vengono schiacciati da centinaia di piedi impazziti. Qualcuno si getta su di lui per fermarlo. Troppo tardi. Il terrorista ha un ultimo paradossale pensiero prima di morire: che il suo sacrificio, che il coraggio raggiunto ed a lungo cercato per il supremo martirio, serva perché sua figlia non debba mai assistere ad un episodio di sangue. Poi Adnan obbedisce al voto di martirio e spazza via tutti i suoi tentennamenti e tutte le sue speranze. Le labbra gli si seccano. Le pupille divengono due spilli ed un’incredibile forza ed orgoglio lo pervadono nel momento in cui si fa esplodere insieme ai eggeri ed all’autobus al grido di Allah Akbar. La deflagrazione, con un pauroso boato, squarcia il mezzo in un istante. Per la strada, tutti i mezzi che stavano transitando frenano bruscamente. Alcuni si tamponano. Si sente lo stridio delle frenate delle gomme sull’asfalto. In un’atmosfera irreale, cadono poi dal cielo pezzi di lamiera ed i resti carbonizzati dei eggeri. Ed in capo a pochi secondi s’ode solo il crepitio delle fiamme che escono dai resti del pulmann, accompagnato dalle grida della gente. Gli automobilisti scendono dalle auto; i ciclisti hanno smesso di pedalare, i
pedoni si portano le mani ai volti, urlando e piangendo in italiano ed in dialetto vicentino. Tutti assistono stralunati all’alba di sangue di quel mattino invernale: lingue di fuoco avvolgono tutto quello che resta dell’autobus. Molti corpi ridotti a brandelli sono volati tutt’intorno come coriandoli insanguinati. Alcuni sembrano tizzoni anneriti e fumanti, sparsi ovunque in un raggio di una cinquantina di metri. Dei anti crollano a terra vomitando, perché l’odore di carne bruciata penetra dentro la testa, forse fino alla ghiandola pineale. S’odono in lontananza le prime sirene dei soccorsi, ed una anziana professoressa di scuola media inferiore grida: "Ora la fiorentina in America non è più una puttana rimbambita! Una Cassandra è! Una Cassandra consumata dall’odio becero di un Paese svenduto e senza midollo spinale!" "L’ei i terroristi questi!", dice un vecchio. "Sio sicuri che l’ei stai iori??", chiede un giovane manager. La cenere gli si deposita sulla giacca Armani, stropicciata ma ancora elegante nonostante l’apocalisse di quella mattina. "Sì sì sì! L’avemo sentio el terrorista sigare!", risponde qualcun altro. Altri vecchi, mangiandosi le parole, ribattono che la responsabilità è del governo americano. Esclamano concitati: "Colpa de li Americani. L’è colpa loro! L’è venui qua! L’è andai là a romperghe le toe in casa de iori! Cossa femo ora?! Cossa femo?!" Fra la folla che da lontano circonda l’autobus scheletrico, si fa largo una bambina dagli occhi sparuti ed in pigiama, a piedi scalzi. Ha i capelli arruffati. Grossi lucciconi le illuminano il viso. Un grido acuto: "Papà!" Le si fanno incontro alcune vecchie che le accarezzono la testa. "Papà! Dove sei?" La prendono in braccio. La consolano. Le asciugano gli occhi. La rassicurano. Forse il suo papà non era sul quell’autobus, le dicono sapendo di mentire. Poi un uomo sussurra: "Mussulmana! È mussulmana! Maledetta da Dio!" "No! Maledette tutte le religioni!", dice un vecchio maestro di scuola, ma troppo
flebilmente per essere udito. Ecco scorgersi in fondo alla strada le prime ambulanze e le prime macchine della polizia. Le sirene salgono via via di tono. La folla s’ammassa vociando attorno alla piccina. Gli occhi dei presenti sono pozzi neri in visi tetri, paludosi. La pietas per la bimba ancora in lacrime e singhiozzante lascia spazio all’astio, alla sete di vendetta. La bimba si libera con forza dell’abbraccio di un’anziana e corre scomposta verso le lamiere contorte ed ancora calde, ma come bambola dalle batterie esauste, perché il calore ancora forte presto la frena e la respinge. "Papà! Papà! Papà…" Un gridare che pian piano si smorza, mentre la folla diviene silente e staziona indecisa sul da farsi a pochi metri dalla piccina. Le persone guardano la bimba confondersi fra la polvere e la fuliggine sollevata dall’esplosione, come se stessero guardando la propria verità che, dapprima conosciuta e certa, va facendosi sempre più piccola, indefinta ed oscura al loro intelletto. Ed essi con i loro corpi ignavi sono un muro umano contro cui s’infrange la vecchia madre di Adnan che, disperatamente, ha raggiunto da pochi istanti il crocchio ammutolito e cerca, invano, di farsi largo con le mani rugose per strappare la nipote a tutto quell’orrore ancora senza nome.
L'agnello in salsa di menta
"Così avrai ben capito che fa più male a me che a te…" L’incravattato che aveva parlato con voce tutt’altro che solidale, tamburellò le dita della mano sinistra sullo scrittoio di pelle nera posto sopra l’enorme tavolo di mogano del suo ufficio dal gusto neoclassico. Ai suoi piedi era compostamente accucciato un esemplare di molosso inglese dal pelo fulvo e morbido, che ben s’intonava al colore caldo del legno dei mobili. Un collare dalle borchie in titano gli cingeva l’enorme collo taurino. Gli occhi del cane erano posati con gelida indifferenza sulle scarpe nere e lucide della persona a pochi metri da lui. Poteva vederne solo i piedi in quanto il resto del corpo era nascosto dalla scrivania. Ogni tanto l’animale sbatteva le palpebre con sonnolenza, e questo era l’unico suo movimento oltre all’ondeggiare del corpo per via della respirazione. Davanti alla scrivania non c’era niente per accomodarsi. Solo un grande tappeto persiano. Sopra se ne stava fermo e ritto un uomo. Di fronte a quest’ultimo sedeva in cattedra il padrone del cane: un uomo elegante nei modi e nel vestire, che aveva dei lunghi e lisci capelli bianchi, molto folti, ed una carnagione abbronzata frutto evidentemente (visto il bel modellino di panfilo color avorio che egli usava a mo’ di fermacarte) di molti pomeriggi ati a veleggiare da qualche parte in mezzo al mare. L’uomo dinanzi a lui era l’ingegnere Paciano L. Paciano si sciolse il nodo alla cravatta. Oltre alla sensazione di soffocare combatteva anche un dolore persistente e diffuso lungo la colonna vertebrale. Cercò sollievo nel massaggiarsi la schiena con una mano. La vecchia compressione sacrale che da tempo lo affliggeva si faceva sentire soprattutto quando restava immobile in piedi. Schiuse le labbra ma articolò soltanto un flebile "ma". "I tagli al personale sono un’amara necessità, Paciano. Mi chiedo sempre se scelgo bene… La recessione avanza a o incessante, senza pietà. Lo vediamo ogni giorno. Lo sai anche tu come questa delicata congiuntura economica di
inizio secolo e questo clima internazionale di incertezza spazzino via ogni anno una qualche azienda che prima del crollo delle Torri aveva fatturati da capogiro…" Paciano si ò le dita sul viso con un gesto rapido e nervoso. "Paciano? Stai male? Vuoi un bicchiere d’acqua?", chiese formalmente il dirigente dalla sua scranna, in tono monotono e per nulla interessato allo stato di salute dell’ingegnere. "Candido. Cosa dirò a mia moglie? Lo sai che quelle medicine da Israele saranno gratuite fino al mese prossimo, poi scadrà il periodo sperimentale. Dovremo pagarle… Sono 5439 dollari al mese…più di cinquemila dollari! Senza contare i soldi che spendemmo anni fa per le visite all’estero, in Scandinavia ed in Italia." "Senti Paciano, ognuno di noi ha dei problemi. La tua buonuscita sarà comunque discreta… Ti ricordi quando studiavamo la morale di Antigone al corso di tragedia greca e di mitologia classica, ad Harvard? Ecco, mi sento un po’ come Antigone in questo momento. Non so se seppellirti o no!" E scoppiò a ridere fragorosamente. Paciano si avvicinò lentamente alla grande finestra panoramica della stanza. Ventuno piani sotto di lui il brulicare dei pedoni della Settima Avenue della Grande Mela, con il suo congestionato traffico, lo distrasse allontanandolo per alcuni istanti dalla dimensione angosciosa dell’intimo in cui il suo superiore lo stava spingendo. "Avresti preferito essere come Pilato?" L’uomo dai capelli canuti si alzò in piedi. Alto quanto un giocatore di pallacanestro, si avvicinò a Paciano e gli pose una mano sulla spalla in gesto amichevole. Attraverso la camicia Paciano sentì come la sua palma fosse fredda. Le dita dalle unghie maniacalmente curate sembravano ghermirlo come se fossero artigli. E quale colpa aveva commesso Paciano? Era un bravo ingegnere, scrupoloso, sempre cordiale con i colleghi. Puntuale sul lavoro, pacato nell’esprimere le sue opinioni durante le sedute del Consiglio di Amministrazione, e spesso risolutivo nel proporre idee brillanti alle quali nessuno pensava mai. Perché proprio lui ad un o dalla pensione? Forse avevano scelto lui perché era troppo diligente e suscitava qualche invidia? Forse perché metteva troppo zelo nelle cose e sminuiva così il lavoro di taluni? E chi aveva deciso questo? Era stato veramente Candido, o qualcuno sopra di lui
avevo esercitato qualche pressione? Candido, l’uomo dai capelli bianchi come lo zucchero filato, alto e spigoloso nei tratti del volto, abbozzava ora un mezzo sorriso sorprendentemente molto più accentuato a destra che a sinistra come dovrebbe essere naturale. Nella specie umana esiste una lateralizzazione cerebrale, per cui la parte sinistra del corpo è controllata dall’emisfero cerebrale destro, il quale è deputato al controllo emotivo, e quindi la parte sinistra dell’essere umano è sempre lievemente più espressiva della parte destra. Paciano lo sapeva bene tutto questo, e così quello strano sorriso di Candido era ai suoi occhi ancora più inquietante. Per qualche arcana ragione Candido sembrava costituire una bizzarra eccezione alle leggi fisiologiche quale noi le conosciamo. "Come Pilato?", gli fece il verso con quello strano ed innaturale ghigno. "Sì, e lavartene le mani. Lo sai che sto per finire in mezzo alla strada? Lo sai che alla mia età è difficile rivendersi… Ho troppe competenze. Come farò? Ho dei fortissimi dolori alla schiena. Non posso svolgere lavori pesanti… e a Cordelia? Che dolore le darò? Tu hai pranzato tante volte a casa nostra…" "Solo per via dell’influenza funesta che esercita il suo nome, Paciano, avanti! Lo sai quanto Cordelia sia gentile d’animo con tutti. Ma per una volta questa mielosa caratteristica ti tornerà comoda. Non mi odierà, non ti preoccupare. Forse, al massimo, potrebbe aggravarsi la sua malattia, ma non pensi che se, insomma, se ne andasse… Non prendertela a male, per carità… Insomma, se se ne andasse tu saresti libero di trovarti un’altra donna? Più giovane, sana, e tutto senza avere grandi sensi di colpa per averla lasciata? A questo non avevi pensato, vero?" Paciano si fece coraggio e spinto dalla disperazione finse di non aver sentito. "Ti prego, cambiami ruolo nell’organigramma aziendale! Riducimi lo stipendio ma non mettermi alla porta. Ti scongiuro!" Senza accorgersene l’ingegnere aveva afferrato il suo superiore per le spalle per protendersi ma a causa della loro altezza s’era dovuto alzare in punta di piedi. Vedendo questo movimento inusuale per quell’ufficio, il cane alzò curioso la massiccia testa dal muso spiaccicato. Candido sorrise di nuovo e sospirò. Dalla tasca dei pantaloni estrasse un rotolo di banconote con l’effigie del generale e presidente statunitense Ulysses Grant. Il volto barbuto e serioso di quest’ultima
icona americana era in bella evidenza fra le dita di Candido. Intanto il bulldog si tirò su pigramente, andò alla porta e si volse verso Paciano che era indeciso sul da farsi. Alla fine i bigliettoni verdi con l’accigliato comandante dell’Unione arono dalla gelida mano dell’uomo spigoloso a quella incerta e sudata di Paciano, dove furono stretti con rabbia. E così, a i lenti, l’ingegner Paciano L. si ritrovò ad uscire per l’ultima volta nella sua vita dall’ufficio di Candido, quasi fosse guidato da una forza oscura della quale egli non era pienamente consapevole. Dopo alcune ore alla porta dell’ufficio di Candido bussò il pugno chiuso di una mano grassoccia. Apparteneva ad un uomo basso e tarchiato. "Avanti." "Candido, allora? L’ha presa male?" L’uomo basso e in sovrappeso entrò e si avvicinò fregandosi le mani, come se fosse una gigantesca mosca antropomorfa. Candido mostrò il suo sorriso sbilenco. "No… L’ha accettato, anche se non subito. Caro amico mio, ora che Paciano è fuori dall’azienda niente potrà ostacolare la tua nomina a Direttore Tecnico. Credo proprio che tu mi debba un invito a cena." Producendosi in etologiche felicitazioni di sottomissione, l’uomo grassotello cominciò ad agitarsi scompostamente e a sudare dalla gioia. "Deo Gratias. Così non mi romperà più i coglioni! Non sai che sollievo mi dai. Quel Paciano avrebbe fatto di tutto in Consiglio per impedire che io venissi nominato per ricoprire quell’incarico. Grazie infinite Candido. Che ne dici di una cena la settimana prossima allo Union Pacific? Offro io! C’è lo chef Rocco che prepara di quei piatti…" "Devo partire per andare in trasferta dai si…" "Ah già, è vero…" "Starò via tre mesi. Al mio ritorno andiamo dove vuoi. Anzi, ti porto io in un bel posto… Potremo andare da Barolo a Soho, oppure nel ristorante di De Niro…" "Dove, al Tribeca?"
"O al Diva." "E da Barolo come si mangia?" "Cucina piemontese." "Ottimo. Aggiudicato allora, caro Candido.", e si strofinò di nuovo le mani. Gli occhiali da vista che portava, dalle lenti sporche e spesse, sembrarono per un istante davvero gli occhi di un enorme insetto. Cordelia, la moglie di Paciano, non resse alla terribile notizia del licenziamento del compagno di una vita. La depressione che colpì il marito la scosse violentemente e, in capo a poche settimane, la malattia della donna avanzò inesorabile finché ella perse quasi del tutto la vista e la quasi totalità della deambulazione. Disperata, trovò una mattina la forza di scrivere un messaggio al marito: "Ti ho sempre voluto bene. Perdonami." Lo lasciò sopra il tavolo della cucina, all’alba di un giorno autunnale. Poi riuscì a sporgersi dal balcone quel tanto che bastava per lasciarsi cadere giù dal diciasettesimo piano. Le parole di conforto del prete che celebrò il funerale della donna suonarono all’ingegnere vuote e false. Più volte il prelato ripeté a Paciano, dopo la cerimonia, che la moglie era un angelo del Signore ma ciò, invece di rincuorarlo, lo infastidì. Maledisse il padre cattolico quando questi andò a casa a trovarlo, cacciandolo a spintoni per la tromba delle scale, e poi prese a sfasciare tutti i mobili di casa. La morte di Cordelia gettò Paciano nella più cupa disperazione. Dimentico di se stesso e degli altri, prese a vagare per le strade di New York City a tutte le ore, come un homeless. Il suo stato fisico era cambiato così tanto in pochi giorni di accattonaggio che, quando si fermava davanti a qualche vetrina, stentava a riconoscere la sua immagine riflessa: la barba incolta, il corpo emaciato, le profonde occhiaie che marcavano occhi spiritati da folle e sempre umidi di pianto, erano tutti tratti che ormai lo facevano entrare di diritto nella galassia dei senzatetto della Grande Mela. Una sera di dicembre, fra le diverse strade di New York addobbate con luci natalizie, Paciano finì in centro a Soho, al 398 di W. Broadway. I primi fiocchi di neve di quella che i metereologi avevano annunciato essere un’abbandonate nevicata, scendevano pigri dal cielo.
Attraverso il vetro di cristallo del ristorante davanti al quale si era fermato, Paciano vide un enorme bulldog accucciato nel vestibolo d’ingresso. Il cane volse la testa e fissò gli occhi disperati di Paciano. "Abbinato al cosciotto d’agnello suggerisco il nostro vino piemontese: del Roero d’Alba, vino rosso di media corporatura di Nebbiolo." "Di che annata?", chiese Candido gelido. "Della migliore degli ultimi anni: il 2000". "Ah! Perfetto. Avevo sentito di questa annata. Allora vada per quello.", e sorrise sbilenco come solo lui sapeva fare. Il cameriere, una volta prese le ordinazioni, si allontanò. Candido ed il collega grassoccio in attesa delle portate, cominciarono a scherzare raccontandosi particolari intimi delle proprie avventure sessuali giovanili, senza curarsi che gli ospiti ai tavoli vicini potevano sentire tutto. Il cane intanto aveva avvicinato il suo muso severo al vetro, appannandolo con il fiato. Fu allora che Paciano riconobbe il molosso di Candido. L’uomo indietreggiò impaurito. Il cane abbaiò, poi si rizzò sulle zampe posteriori e colpì il vetro con la testa. L’ingegnere, spaventato, rovinò a terra con la schiena. Quando si rialzò il cane non c’era più. "E così", disse Candido fermandosi a masticare lentamente il primo boccone di agnello "mi scopai prima la figlia e poi la madre che era gelosa. Ti rendi conto?", fece sorridendo al suo ospite. Il cameriere stava loro servendo del mint jelly accanto all’agnello quando sbucò da sotto il tavolo il muso spiaccicato del bulldog. Fulminea, la bestia afferrò il cosciotto del padrone e scomparve lasciando questi a bocca aperta ed asciutta. Una volta corso all’ingresso il cane approffittò di alcuni clienti che stavano uscendo e finalmente fu fuori. A poche decine di metri da lui Paciano, accortosi della bestia perché non faceva altro che voltarsi inquieto mentre camminava, cominciò a correre ma riuscì soltanto ad arrancare ed a gridare aiuto. Fece pochi i, infreddolito e stanco com’era da giorni di digiuno, e poi rovinò al suolo ricoperto di neve fresca. Il cane gli fu presto sopra. L’ingegnere si voltò terrorizzato. Con fare premuroso il molosso inglese depose dolcemente sul suo petto il cosciotto d’agnello rubato al padrone e diede una grossa leccata al viso sbigottito di Paciano, asciugando così il sangue che gli colava da un labbro.
L'AUTORE
L'AUTORE
Luca Scantamburlo (nato a Treviso nel 1974) ha lavorato nel mondo del turismo stagionale e del teatro (come maschera serale di sala). Da anni lavora come impiegato nel settore dell'hospitality. È stato iscritto nell'elenco dei Pubblicisti dell'Albo dei Giornalisti del Veneto dal luglio 2006 al marzo 2008 (dimissioni per motivi personali). Il suo sito Web è www.angelismarriti.it
ASSOCIAZIONI
Dall'anno 2006 è socio della FLIP (Free Lance International Press) di Roma, e dal giugno 2012 è un membro anche della IAPP, acronimo della International Association of Press Photographers, con sede a Miami in Florida, ed uffici anche a Monaco di Baviera, in Germania. La IAPP è un'associazione internazionale di scrittori freelance e fotografi - indipendenti - i quali operano (a tempo pieno o part-time) nel campo della comunicazione, della stampa e dei mass media più in generale.
Sempre dall'anno 2006 è membro della The Planetary Society di Pasadena, associazione culturale e scientifica no profit degli Stati Uniti d'America, con sede a Pasadena. Dal gennaio 2002 all'estate 2007 è stato dapprima collaboratore e poi socio del Centro Ufologico Nazionale (C.U.N.), fino alle sue dimissioni rassegnate nel luglio 2007.
Dall'anno 2012 è anche socio sostenitore di Repoters sans frontières di Parigi.
COLLABORAZIONI CON RIVISTE E PERIODICI
L. Scantamburlo - dal 2000 al 2006 - è stato articolista e collaboratore di diverse riviste e periodici quali L'Eco di Mogliano e soprattutto Venezia News (servizi ed interviste su cinema, musica, teatro, eventi culturali...); in seguito ha scritto (o collaborato) per le riviste UFO Notiziario, Nexus New Times, Area 51, Scienza e Mistero, X Times, oltre che per alcuni siti web nordamericani quali ufodigest.com ed alienseekernews.com.
DIPLOMI
Perito tecnico in chimica industriale (Mestre, 1993), L. Scantamburlo ha poi conseguito all'Università Ca'Foscari di Venezia un diploma di laurea triennale in Lettere ad indirizzo di formazione umanistica generale (anno 2006, tesi in Bioetica), ed un diploma di Master universitario di I livello in Comunicazione e Linguaggi non verbali: psicomotricità, musicoterapia e performance (tesi in
psicomotricità, anno 2008).
INTERVISTE , RADIO, VIDEO E TELEVISIVE
Più volte L. Scantamburlo è stato intervistato da radio nordamericane, e dalla siciliana Radio Universal. Ha rilasciato diverse interviste video e televisive (in speciali o rubriche): per Project Camelot (Bill Ryan e Kerry Cassidy, 2008), per Studio Aperto in collaborazione con la trasmissione Mistero di Italia 1 (25 ottobre 2009 e 1° luglio 2010); egli è stato poi ospite al programma 12&12 di La8 Veneto del Gruppo Ostitel (26 aprile 2010), ed è stato nuovamente intervistato da Studio Aperto per il programma settimanale di approfondimento Live (19 novembre 2010) e la rubrica Extremamente di Tabloid (agosto 2011).
LIBRI/SAGGISTICA DI LUCA SCANTAMBURLO
Nell'anno 2001 ha dato alle stampe il romanzo Angeli Smarriti (con la Nephila Edizioni, Firenze) e scritto in seguito con il regista Gino Pitaro una sceneggiatura cinematografica (depositata alla SIAE nel 2004), ispirata al romanzo stesso. Diversi racconti inediti, di cui egli è autore, sono stati premiati o segnalati in Veneto (concorsi letterari). Fra i suoi libri editi con società che consentono agli Autori di pubblicare i loro testi per il mercato "print on demand", vi sono i seguenti titoli:
CON LULU.COM1
- L'umanità di domani nella prefigurazione fantascientifica. Dalla generazione dell'uomo alla produzione tecnica dell'uomo macchina, I ediz., Lulu.com, anno 2008; ristampa 2012; saggio.
- Apollo 20. La rivelazione, dic. 2010 - genn. 2011, traduzione del suo Apollo 20. The Disclosure (I ediz. in lingua inglese, gennaio-febbraio 2010); saggio.
- Apocalisse dallo Spazio. L'avvento di Nibiru e dei Vigilanti, Lulu.com, 2011
Tutti i suoi saggi in lingua italiana pubblicati con Lulu.com sono disponibili ed ordinabili in Rete presso le migliori librerie on-line, cercandoli fra i prodotti esteri ("books" in inglese).
CON YOUCANPRINT.IT
- L'ombra del Pianeta X. Storia del Decimo pianeta, fra Servizi segreti ed insider,
Youcanprint.it Self Publishing (maggio 2013), saggio, Borè SRL, Italia.
- Nel segno di Nibiru. Dalla Mesopotamia ai segreti vaticani, Youcanprint.it Self Publishing (giugno 2013), saggio, Borè SRL, Italia. Nuova edizione del volume The American Armageddon, già pubblicato da Lulu.com nel 2009.
- Luci smarrite, Youcanprint.it Self Publishing (ottobre 2013), romanzo, Borè SRL, Italia. Nuova edizione del volume Angeli Smarriti (Nephila, 2001, 2002).
- Undici Novelle, Youcanprint.it Self Publishing (novembre 2013), raccolta di novelle, Borè SRL, Italia.
I saggi pubblicati con Youcanprint.it sono facilmente reperibili nel mercato italiano, on-line oppure presso le librerie che aderiscono a Youcanprint.it
PRINCIPALI RICONOSCIMENTI LETTERARI CONSEGUITI: - Segnalazione della giuria al Concorso Letterario Nazionale Premio L’Autore, indetto dalla casa editrice Firenze Libri, per l’opera di narrativa inedita Angeli Smarriti, anno 1998. - Terzo Premio ex aequo, con il racconto inedito La Tela, al concorso letterario Biblioteca di San Pelajo, Treviso, anno 2002. - Primo Premio al Concorso Letterario Nazionale Agape 2003, XVIII edizione, con il racconto inedito La Fisarmonica di Dio, anno 2003 (Campalto, Venezia). - Segnalazione della giuria al Concorso Letterario Nazionale La Cometa, I edizione, con il racconto inedito La Croce in Laguna: Cronaca di un’aggressione, anno 2003 (Giare di Mira, Ve). - Secondo Premio al Concorso Letterario Nazionale Agape 2003, XIX edizione, con il racconto edito La Tela, anno 2003. - Primo Premio al Concorso Letterario Nazionale Alla ricerca del libro perduto, IV edizione, Sez. adulti, Comune di Ponzano Veneto, con il racconto inedito Rodenbach, anno 2004.
Prima Edizione digitale Youcanprint.it,
novembre 2013
Stampato in Italia
Finito di stampare nel mese di novembre 2013 per conto di Youcanprint Self - Publishing
i Primo Premio al Concorso Letterario Nazionale Alla ricerca del libro perduto, IV edizione, Sez. adulti, Comune di Ponzano Veneto (Treviso), anno 2004.
ii G. Rodenbach, L’ami des miroirs, in Le Rouet des brumes, Paris 1901 (trad. it. Il regno del silenzio, Sheiwiller, Milano, 1942), citato come esempio storico nosografico nel saggio Psichiatria e fenomenologia, di Umberto Galimberti, Feltrinelli 2000, pag. 241.
iii Primo Premio al Concorso Letterario Nazionale Agape 2003, XVIII edizione, Campalto (Venezia).
iv Terzo Premio ex aequo al concorso letterario Biblioteca di San Pelajo, Treviso, anno 2002. Secondo Premio al Concorso Letterario Nazionale Agape 2003, XIX edizione, anno 2003.
v Questo racconto - pubblicato per la prima volta più di dieci anni fa (nel volume Angeli Smarriti, di Luca Scantamburlo, Nephila Edizioni, Firenze, seconda edizione, 2002) nasce da una conversazione avuta fra me ed il fumettista veneto Alberto Dabrilli, il quale da tempo andava concependo una storia che aveva per protagonisti un gigantesco ragno ed un pittore. Nel suo intento la storia doveva essere sceneggiata per una serie di tavole a fumetti. Io, poiché l’idea un po’ kafkiana mi piaceva molto a livello squisitamente narrativo, ho deciso invece di scriverne un racconto fantastico, col quale ho partecipato ad un concorso
letterario annuale indetto dalla Biblioteca San Pelajo di Treviso. Il titolo del concorso, per l’ edizione 2002, categoria adulti, era ‘Incubo: l’angosciante trasalire dell’inconscio, e La Tela si classificò terzo a pari merito con altri due autori, su di un totale di 37 partecipanti. Mi affascinava dare vita ad un racconto fantastico, un genere letterario al confine fra l’étrange ed il merveilleux. E ciò che più mi intrigava era dare vita ad un personaggio tormentato dal perturbante di Sigmund Freud, il cosiddetto "Das Unheimliche". Proprio nel tentativo di far emergere la voce dell’inconscio attraverso un racconto in bilico fra una visione onirica ed una realtà "altra" - un regno governato da leggi a noi sconosciute nasce questa figura psicotica di Nicola D. (il cui cognome ho qui omesso per evitare allusioni con artisti e possibili persone reali), un pittore tormentato da un ato oscuro. Ma ecco succedere qualcosa che rende il racconto evanescente. Che rende La Tela un racconto propriamente "fantastique", ben interpretabile secondo la definizione di Todorov, a mio giudizio la più chiara e completa: nella fabula c’è qualcosa di reale che accade, a confermare le allucinazioni di Nicola e che mette in dubbio l’illusione dei sensi. Viene da chiedersi se a rendere folle Nicola sia soltanto il difficile viaggio compiuto all’interno dell’inconscio, per dare voce all’Unheimliche o forse, piuttosto, la consapevolezza dell’orrore di cui egli si è macchiato, ma accompagnata e catalizzata dall’intervento di una realtà "altra", orrifica, fondata e narrata sul non-tetico.
L.Scantamburlo Jesolo Lido (VE), 19 settembre 2002 - testo aggiornato il 29 ottobre 2013
vi Naturalmente la novella - costruita nel contesto di avvenimenti storici autentici - è frutto della mia fantasia. Ma mi sono ispirato ad un personaggio storico: effettivamente il cosmonauta Sergjei Krikalev si trovò in questa singolare situazione, anche se egli - che io sappia - e la moglie non hanno mai pronunciato le parole che qui sono attribuite ai personaggi della mia invenzione narrativa. Naturalmente ogni riferimento ad eventi ed eventuali situazioni reali è del tutto casuale.
vii Traduzione a cura dell'Autore.
viii La Fortezza Vuota, titolo inglese pubblicato in Italia come La fortezza vuota, L’autismo infantile e la nascita del sé, di Bruno Bettelheim, 1976, Garzanti Editore.
ix Anche questa è Venezia. Cronaca di una eggiata ed altre cose che so di lei, di Franco Filippi, Filippi Editore, 2002
x Unificazione e Guerra Santa.