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© Edizioni SENSOINVERSO Collana SenzaTregua www.edizionisensoinverso.it [email protected] Via Vulcano, 31 – 48124 – Ravenna (RA) ISBN 9788867930449 1° edizione – Febbraio 2013 © 2013 - Copyright | Tutti i diritti riservati Sensoinverso - P.I. 02360700393 Creazione eBook | http://creoebook.blogspot.com

ANDREA ZANIBONI

Marta

Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi o usati in modo fittizio. Tutti gli episodi, le vicende, i dialoghi di questo libro, sono partoriti dall’immaginazione dell’autore e non vanno riferiti a situazioni reali se non per pura coincidenza.

Alla mia famiglia

Quem Fors dierum dabit, lucro Adpone.

(Qualunque giorno la Sorte ti concederà, mettilo nel conto dei guadagni.)

Orazio, Ode IX, versi 14-15

La storia del fucile

Il Moschetto ’91 utilizzato dall’agente Giovanni Franti per uccidere Solana Rodriguez è finito nel Residence La Quiete per una serie di accadimenti che hanno dell’incredibile. Effettivamente si tratta del fucile che il nostro Gianni puliva quando era giovane. Probabilmente è iniziata da lì la sua ione per le armi. Il padre l’aveva venduto a un collezionista della città: si trattava di un certo Amilcare Pescatori, conosciuto appunto per la sua ione per le armi vecchie. Claudio Franti lo aveva contattato attraverso un conoscente, aveva anche preso un bel gruzzoletto. Certo gli era dispiaciuto, era un ricordo di suo padre, ma temeva che si venisse a sapere che deteneva un’arma illegalmente; di denunciarla non ci pensava neanche, dopo tutti gli anni che erano ati. Soprattutto però il motivo per cui voleva sbarazzarsi del Moschetto era l’attaccamento morboso del figlio a esso, attaccamento che egli stesso aveva alimentato e che giudicava insano per un ragazzo della sua età. Giovanni l’avrebbe presa male, ma era per il suo bene. La prese malissimo. Per un mese non spiccicò parola, si chiuse in sé, ogni notte lo si sentiva piagnucolare. Fu uno shock per il piccolo Gianni. Non si riusciva a capire il perché di una reazione così spropositata, sembrava che gli fosse stata tolta a forza una parte di sé, una mano, per esempio. Poi un giorno tornò il ragazzo allegro di prima. Il fucile fu dimenticato del tutto, rimosso completamente: Gianni non ne parlò più con nessuno, come se non fosse mai esistito. Riprese a frequentare con regolarità una sua amichetta di nome Marta. Ma seguiamo la storia del fucile, non divaghiamo. Il signor Pescatori era ormai su con gli anni. Farmacista in pensione, aveva una collezione di tutto rispetto: fucili e pistole della prima guerra mondiale, archibugi, armi da taglio. Periodicamente organizzava una mostra per esporre i propri pezzi. Per la denuncia ci avrebbe pensato lui, disse a Claudio Franti quando gli consegnò l’arma: non avrebbe corso alcun pericolo.

Circolavano voci malevole che Pescatori avesse conoscenze losche, che addirittura fosse un trafficante d’armi, come se un trafficante d’armi avesse l’aspetto di un vecchietto piccolo, magro e mezzo cieco, disponibile con tutti e benvoluto da tutti. Insomma a un certo punto Pescatori morì senza dare alcuna indicazione su cosa fare della sua collezione. I due figli, di certo, non avevano ereditato la ione del padre. Augusto e Federico Pescatori erano entrambi medici. Possedevano uno studio in centro, erano conosciuti sì per la loro competenza, ma principalmente per il fatto di essere gemelli omozigoti. I dottori gemelli, così erano chiamati i Pescatori in città. Avevano fatto una fortuna con il loro studio, erano specializzati in geriatria e il lavoro certo non era mai mancato loro. I clienti in buona parte glieli aveva procurati man mano il padre attraverso la sua attività. Di comune accordo i gemelli decisero di donare in blocco l’intera collezione alla cittadinanza: sarebbe stato allestito un museo delle armi. Nella cantina in cui il padre teneva i suoi gioielli venne fatta piazza pulita. O quasi. Sotto la supervisione di Augusto una piccola squadra composta da dipendenti comunali e stradini arrivò un mercoledì mattina del 1978 alle dieci di fronte alla casa del defunto con un furgone Fiat 242 ammaccato e sporco: il dottore ebbe da ridire a riguardo. C’erano anche i vigili a sorvegliare l’operazione, ovviamente. Una cassettiera verde si trovava in fondo alla cantina, faceva parte dell’arredamento della prima farmacia che il padre aveva aperto in città. La cassettiera conteneva una serie di pezzi della collezione che necessitava di un qualche restauro, tra cui, guarda caso, il nostro fucile. Il signor Pescatori nei mesi prima di morire stava proprio sistemando i meccanismi del Moschetto che, a suo dire, erano un po’ duretti e perciò andavano lubrificati abbondantemente e periodicamente. Lo stradino incaricato di svuotare la cassettiera la sera prima aveva avuto una cena con gli amici del Circolo delle Bocce circondariale e aveva alzato un poco il gomito. Giuseppe Maggi, per tutti Beppo, quella mattina non era molto presente con la testa e non allungò abbastanza la mano per poter sentire e afferrare la pelle della custodia contenente il fucile.

Lasciò il Moschetto in fondo al terzo cassetto, a partire dal basso. Nel frattempo i progetti che i due fratelli maturavano erano ben altri. In cima alla collina della città il vecchio ospedale, cinque anni dopo l’effettuazione della donazione delle armi, era divenuto una casa di riposo. Le strutture risalivano ai primi anni Sessanta e si procedette, da parte della cooperativa subentrata, a una parziale ristrutturazione, che consistette nella messa a norma degli impianti, nell’imbiancatura e nella sostituzione di porte e serramenti. Man mano che si andava avanti con gli anni la cooperativa non riusciva più a tener testa alle crescenti spese che la gestione del centro comportava. Così si decise di vendere l’intera baracca. Non era certo facile trovare un acquirente disposto ad addossarsi la gestione di una casa di riposo di tali dimensioni. I dottori gemelli decisero che era il momento di investire il loro enorme capitale accumulato in anni di attività. Insieme ad altri sei soci nel 1991 acquistarono la casa di riposo in cima alla collina. Il padre sarebbe stato orgoglioso, pensavano gongolanti. Entrambi erano usciti da burrascosi matrimoni, naufragati in buona parte per il loro attaccamento ossessivo al lavoro e per il forte legame che li univa. Erano una persona sola e tagliavano fuori chiunque non fe parte della loro unione. Quindi alla fine anche le mogli. Il divorzio fu per loro uno sprone per buttarsi nell’impresa: entrambi senza figli non avevano nulla da perdere. La loro decisione fu dettata da incoscienza: infatti non avrebbero mai effettuato un tale acquisto se avessero saputo in anticipo a cosa sarebbero andati incontro. Era innanzitutto necessaria una profonda ristrutturazione dell’intero edificio, la quale ebbe tutta una serie di incidenti di percorso e cambi di rotta rispetto al progetto iniziale.

Gli stessi ospiti dovettero subire una serie di disagi per tutta la durata dei lavori, disagi tali che molti furono trasferiti definitivamente dai parenti in altri ospizi. Fu un periodo estremamente difficile per i gemelli, che vedevano dilapidato il loro patrimonio nel giro di pochissimo tempo. Di fronte a insormontabili carenze strutturali si giunse alla fine a una drastica decisione: buttare giù e ricostruire praticamente ex novo. Questo fu possibile perché un potente finanziatore di cui non è dato sapere il nome accorse in aiuto dei Pescatori. Pare fosse uscito dal nulla, il mistero aleggia intorno a questo personaggio, come se non bastassero i misteri in questa storia. C’è chi dice addirittura che provenisse dalla Russia. La casa di riposo fu ricostruita in pochi anni. Divenne motivo di orgoglio per l’intera città. Dopo una decina di anni il Residence La Quiete necessitò di una serie di nuovi lavori. I gemelli si erano ormai ritirati dalla società, si godevano la meritata pensione e non intendevano più avere nulla a che fare con i problemi della gestione del complesso. Da parte dei nuovi proprietari si decise per una diversa destinazione del piano interrato, giudicato poco adatto per le esigenze di comfort dell’ospizio. Esso risultava troppo buio e sacrificato: sarebbe stato riconvertito in zona di servizio, avrebbe ospitato una nuova cucina, dei magazzini e ambienti destinati agli inservienti. Il piano venne quindi abbandonato in previsione dei lavori, gli ospiti trasferiti in una nuova ala costruita ad hoc. Ma il piano seminterrato non fu mai risistemato. Come vi arrivò la cassettiera verde? Durante la ricostruzione della casa di riposo fu necessario sgombrare la cantina della vecchia casa del Pescatori; quest’ultima infatti era stata messa in vendita dai figli anche per far fronte alle spese sempre maggiori che i due erano costretti a sobbarcarsi per il loro faraonico progetto. Tutto sommato, era un pezzo abbastanza pregiato, soprattutto era il ricordo della prima farmacia del padre. L’idea era quella di restaurarla e metterla nella hall

della casa di riposo, in bella vista; vi si sarebbe apposta una targa che celebrasse il ricordo del padre e della sua attività di farmacista. Residence Amilcare Pescatori, questo doveva essere il nome del complesso. Il mobile venne quindi trasferito sulla collina; durante il trasporto nessuno si accorse del suo contenuto, fatto strano, perché il fucile si poteva muovere e fare rumore all’interno del cassetto. Forse il fatto che la cassettiera fosse stata maneggiata con estrema cura per espresso desiderio dei gemelli impedì che essa fosse scossa abbastanza perché il Moschetto fe sentire la propria presenza. Alla fine il misterioso finanziatore si era imposto nella decisione del nome della casa di riposo: venne così chiamata Residence La Quiete. Nemmeno aveva più senso porre all’entrata un vecchio mobile di farmacia, giudicato tra l’altro inadeguato all’estetica postmoderna prevista per l’arredamento del residence. Durante i lavori la cassettiera venne conservata in un container del cantiere; terminata la costruzione del residence ò un periodo nel ripostiglio dell’ufficio personale della direzione: anche qui incredibilmente a nessuno venne mai in mente di aprire il cassetto; infine, per far spazio a una nuova scaffalatura, venne trasferita giù. Anche in occasione di questo spostamento il fucile stette zitto zitto nel suo nascondiglio. La cassettiera fu così dimenticata nel piano dimenticato; là sotto non sarebbe stata di impedimento. Non si è mai saputo perché il piano interrato non sia mai stato ristrutturato. Il finanziatore misterioso era scomparso da qualche anno, dopo aver venduto anch’egli la propria quota. Di lui non si seppe più nulla. Qualcuno sostiene che fosse contrario alla nuova ristrutturazione e avesse messo in qualche modo i bastoni tra le ruote. Ma è solo una voce. Per quanto si sa, il problema è consistito in un permesso edilizio prima accordato poi inspiegabilmente negato alla casa di riposo, che così ha dovuto sospendere i lavori a tempo indeterminato. Che ci crediate o no, è andata così. E il proiettile? Beh… Quella è un’altra storia.

Venerdì 10 luglio 2009

Come sono vecchio. Le rughe mi attraversano il viso in lungo e in largo. Mi sto radendo nella mia stanza, con l’unica mano rimastami reggo il rasoio. Purtroppo è la sinistra e io non ero mancino; lo sono diventato, con un lungo allenamento. Tra poco arriva l’infermiera per dirmi di fare alla svelta, che se tutti ci mettessero tanto a prepararsi, la colazione si farebbe a mezzogiorno. Non la sopporto, con quel suo volto anonimo, quel sorriso forzato, di una che nella vita preferirebbe fare altro che assistere gli ospiti di questo maledetto posto. Mi osservo allo specchio: chi è quello lì, non sono io. I lineamenti stravolti dall’età, gli occhi opachi dietro un paio di occhiali, la testa pelata e piena di macchie. Non è possibile, come sono diventato così? Era ieri quando dovevo spostarmi i capelli dalla faccia per poter vedere, quando in tre minuti, con pochi, precisi gesti mi radevo perfettamente. Era ieri quando facevo l’amore. Adesso anche il sesso è come farsi la barba, naturalmente sempre con la sinistra. Una routine quotidiana, fatta per are il tempo, per compiere un gesto che un po’ richiami la vita che si faceva fuori da queste mura. Ho finito. L’infermiera se ne è andata da qualche minuto, non ho voglia che torni ancora a chiamarmi. Per quanto posso, mi affretto a vestirmi. La maglietta estiva, le braghe leggere di cotone, ne ho venti paia. Esco dalla mia camera e mi avvio lungo il corridoio: incontro poca gente per strada, sono sempre l’ultimo. Sono già tutti con le gambe sotto il tavolo a sorseggiare il caffellatte, di solito quando arrivo molti sono già pronti a tornare nelle loro stanze. Meglio. Preferisco fare colazione da solo, senza che nessuno interrompa i miei pensieri. Forse è per questo che faccio tardi: sono un orso, non mi piace la compagnia, soprattutto in un momento come quello della colazione. Per me è necessario essere soli, un po’ come quando si sta al cesso. Non è naturale cagare e conversare con qualcuno che caga con te, perlomeno è il mio punto di vista. Forse sono io un po’ schizzinoso, tra l’altro mi sembra di aver visto in qualche documentario delle latrine in cui era possibile fare salotto e nello stesso tempo espletare. Chi erano, i romani? O i tedeschi nella seconda guerra mondiale? Non mi ricordo. Sono tante le cose che non mi ricordo, ormai. Certo sono ancora abbastanza lucido, ma la memoria, quella, è da un po’ di tempo che perde qualche colpo.

Ho finito. Davanti a me è rimasta la tazza vuota, la osservo. Cosa farò oggi? Quello che faccio tutti i giorni, fesso che sono. Che domande fai, rimbambito? Sono lontani i bei tempi. Ogni giorno era diverso dall’altro. Un giorno avevi la mano destra, quello dopo non c’era più. Ma mi sentivo vivo, il rischio, l’avventura. Adesso è tutto uguale. Magari capita che piova, allora la routine viene un poco stravolta. Tutto lì. Mi alzo. Prima di tornare alla mia camera per lavarmi i denti voglio fare due i. La casa di riposo è piuttosto bella: un bel parco, l’edificio moderno, posizione invidiabile. Si vede tutta la città da qui, i miei figli non hanno badato a spese. Maledetti figli, non potevano intraprendere la professione del padre? Poteva prender piede una tradizione familiare. Ma no, io voglio fare l’avvocato, io voglio vendere vestiti. Nessuna considerazione per il mio lavoro. Si apre la porta a vetri scorrevole e sono fuori. Ormai il caldo dell’estate scioglie la città, laggiù. Qui in alto c’è un po’ di brezza, dopotutto è sopportabile. Poi alle prime ore del mattino si sta quasi bene. Io ho la mia età, anche se fisicamente sto bene non credo che sopporterei l’afa che sale dall’asfalto rinchiuso in un appartamentino al quarto piano in pieno centro. A proposito di fisico: a parte la mano devo dire che l’ho mantenuto piuttosto bene. Un tempo mi allenavo delle ore ogni giorno, adesso è tanto se arrivo a un’ora con la cyclette. Ma l’allenamento di allora mi giova tuttora, i miei muscoli sono rimasti, tutto sommato, ancora abbastanza tonici. “Ehi, Giovanni.” Ecco lo scocciatore. Possibile che lo incontri sempre? Mi sa che mi segue di soppiatto e poi salta fuori e si presenta come se asse lì per caso, se no non me la spiego la sua presenza ogni volta che voglio stare solo. Ma cosa vuole da me? “Ciao Giancarlo.” “Fa caldo, oggi.” “Abbastanza.” “Non mi hai raccontato ancora la storia della mano.” “Non è niente di bello.”

Ogni volta è la stessa domanda: non mi hai raccontato ancora la storia della mano. Ogni volta gli rispondo allo stesso modo, dopo di che lascio che la conversazione si spenga sul nascere. Neanche lui, infatti, è interessato a una chiacchierata. Forse non gli interessa nemmeno cosa è successo alla mia mano, la sua frase la ripete in automatico quando mi incrocia, semplicemente. La cosa che mi irrita è che lo incontro sempre quando voglio stare solo a pensare. Poveraccio, alla fine si limita alla sua battuta, poi mi lascia in pace. Ma è quel suo comparire proprio quando ho bisogno assoluto di solitudine che mi manda in bestia. Non sono mai stato un tipo socievole. Mia moglie, lei sì che amava la gente. Bianchi, neri, asiatici, marocchini. Per tutti, Marta aveva una parola, le differenze di cultura e di vedute non la spaventavano, anzi, la spingevano a osare, a vedere fin dove la chiacchierata poteva essere portata. E trovava sempre risposta dall’altra parte. Per me era sempre un miracolo il formarsi di questa intesa tra Marta e il suo interlocutore, quale che fosse. Mi avvicino al muretto che cinge il parco. Guardo verso la distesa di tetti e strade: pare non finisca mai. Una volta non era così, una volta c’erano meno cemento e più umanità. Da qui la metropoli è quasi silenziosa: si sente un brusio leggero ma avvolgente, quasi come il rumore di una radio sintonizzata su nessun canale. È un rumore indistinto, un rumore che ora per me è senza senso. Distolgo lo sguardo. Dio, ci mancherebbe che andassi in depressione; su Gianni, gira i tacchi e vai a distrarti. Eppure una volta mi piaceva questo miscuglio di suoni: era il pulsare della vita, il respiro dell'umanità che sentivo. Ieri è venuto a trovarmi Massimo. Ormai è un uomo, il suo completo grigio sottolinea il suo essere adulto. Sembrano tutti uguali gli avvocati, a parte la cravatta, che cambia a seconda dei gusti dei singoli. Viene a trovarmi sempre di giovedì, chissà perché quel giorno. Chi l’ha deciso? Là ui, suppongo. Sull’agenda del suo cellulare ha impostato “giovedì” e poi ha aggiunto “papà”, e poi è stato sempre così da un anno a questa parte. È un bravo figliolo, mai in ritardo, spacca il secondo. Poi iamo mezz’ora nella quale verranno pronunciate, sì e no, quattro parole. Ma va bene così, mi guardo intorno e vedo tanti anziani dimenticati da tutti. Io sono privilegiato, nell’agenda di mio figlio c’è posto anche per me. Lella invece non la vedo più.

Ritorno nella mia camera, devo lavarmi i denti. Poi deciderò sul da farsi. Devo tirare a mezzogiorno: è un’impresa. Io che nella vita ne ho ate di tutti i colori e affrontato mille pericoli adesso sono in enorme difficoltà di fronte a una mattina vuota di impegni. Nella sala tv l’enorme televisore ultrapiatto è già . Dapprima lotto per distogliermi dalla tentazione di sedermi su una delle poltroncine schierate davanti all’apparecchio: per esperienza so che mi rialzerei dopo qualche ora. Ma sono incuriosito. Non c’è il solito telefilm degli anni Ottanta, stavolta è una trasmissione di medicina. Si parla di protesi alle gambe, della possibilità di poter correre ancora nonostante si sia subita un’amputazione dal ginocchio in giù. Io le gambe le ho ancora, di correre m’interessa relativamente, ora come ora. Sto aspettando che si parli anche di mani. Niente. Compare la sigla di chiusura. La speranza non l’ho mai persa. Ho ottantuno anni ma il desiderio di poter impugnare ancora con la destra è rimasto intatto. Sì, la sinistra fa il suo onesto lavoro, ma niente è paragonabile alla precisione della destra. Faccio un sospiro e sprofondo nella poltroncina. Sono caduto nella trappola. Adesso mi aspetta una maratona di televisione.

Giovedì 9 luglio 2009

“Hai preso le medicine?” “Le prendo sempre le medicine.” “Ti saluta Lella.” Massimo è arrivato alle cinque e mezza in punto. Ora sta seduto davanti a me. Pare imbarazzato, io di certo non lo aiuto. Perché non viene mai a trovarmi mia figlia? Cosa le ho fatto? “Sempre presa col lavoro?” “Sì. Ha detto che ti fa avere un altro paio di pantaloncini leggeri, così ne hai uno di scorta.” Non dico niente. È una fissazione di Lella quella delle braghe di cotone. Non so più dove metterle, ma non oso rifiutarle: è il suo modo per dirmi che in fondo mi vuole bene. “Adesso dov’è?” “A Parigi. C’è la collezione autunnale.” Adesso? La collezione autunnale? È saggia la moda: si porta sempre avanti, mi dico. “Ti saluta anche Luisa.” Mia nuora, Marta non l’ha mai accettata del tutto. A me invece piace, credo sia adatta a nostro figlio. “Ecco, questa l’ha fatta per te.” Massimo tira fuori dalla sua valigetta di pelle un contenitore trasparente per alimenti. Dentro c’è un tortino di carote. Luisa sa che mi piace.

Rimaniamo in silenzio. Massimo si alza e va alla finestra, la giacca l’ha lasciata sullo schienale della sedia. “Fa caldo in città. Stai meglio tu, qui.” “Sei andato a cambiare i fiori?” “Sì, ieri mattina.” “Bene.” “Adesso devo andare.” Oggi se ne va prima, perché? “Devo portare la Mercedes di Luisa dall’elettrauto, mi aspetta alle sei. Vado. Ciao.” Che funerale. Se ci fosse Marta darebbe una sberla a me e a lui. Direbbe: ma si può parlare così tra padre e figlio? Al ricordo di lei che diventa rossa dalla rabbia in viso mi viene da sorridere. Era soprattutto quando si arrabbiava che l’amavo. Che sia un masochista? Osservo il tortino: è brava ad andarmi dietro Luisa; forse era più oggettiva mia moglie a giudicarla. Non lo so. Apro il contenitore e strappo un pezzo del dolce. Me lo gusto, poi richiudo. Non devo mangiare troppa pasticceria, è per il colesterolo. Guardo fuori. Tra poco serviranno la cena. Chissà che fiori ha messo Massimo. Vorrei vedere Lella, come si fa? Forse so perché ce l’ha con me. È per via di quello che facevo, non l’ha mai accettato quello che facevo. Ma era la mia vita, dio santo, non avrei mai potuto fare qualcos’altro. E poi mantenevo la famiglia, possibile non lo capisse? Già, è un miracolo che avessi pure una famiglia. La settimana scorsa ho ricevuto la visita di un mio vecchio collega. Vecchio non per l’età, è molto più giovane di me. Vecchio nel senso degli anni trascorsi insieme. Gli ho insegnato tante cose sul mestiere che ormai lo considero un terzo figlio. Luigi. Forse l’unica persona di cui mi sia mai fidato ciecamente, professionalmente parlando. Lui lavora ancora, è ancora in prima linea, come si suole dire. Le sue visite sono un’iniezione di vitalità per me, anche perché mi chiede consiglio su questo o su quello: su come effettuare certi appostamenti, le attrezzature più indicate alla circostanza e così via. E io mi sento, come si suole dire, ancora in prima linea. Peccato che Luigi venga solo una volta al mese,

quando va bene. Sono quasi le sei di sera. L’aria condizionata rinfresca la stanza ma so che fuori fa ancora caldo. Dio, com’è calda questa estate. D’un tratto una fitta mi attraversa la mano che non ho: non ho mai fatto l’abitudine a questo dolore, non tanto per la sua intensità, quanto per l’illusione che alimenta, quella di possedere ancora l’arto. Me lo ricordo ancora perfettamente il momento in cui l'ho perso, un po’ meno quello che è avvenuto immediatamente dopo. Sospiro. Non si può tornare indietro, purtroppo. È stato un mio errore e gli errori si pagano, senza possibilità di scampo o sconti di pena. Tra poco serviranno la cena, ma non ho molta fame. Devi sforzarti, mi dice Marta da lassù. Non ho il coraggio di risponderle che è perché ho mangiato un pezzo della torta di Luisa.

Mercoledì 8 luglio 2009

Ciao mamma. Che saluto a fare? È solo una fotografia. A volte sono proprio sciocco. Ho dieci minuti soltanto per stare qui. Cambio i crisantemi poi vado in ufficio. Domani vado a far visita a papà. Sarà il solito strazio, io che non so cosa dire, lui che non sa cosa dire. Perché te ne sei andata? Lella è a Londra, sai? Saresti orgogliosa di lei. Ce l’ha ancora con papà. Un po’ la capisco, ma è pur sempre nostro padre. Ci ha fatto penare, non sapevamo mai se sarebbe tornato a casa intero. Ma è fatto così. Lella dovrebbe smetterla, una figlia deve avere più rispetto per il padre. Guarda questa tomba. Piena di terra, possibile debba fare sempre tutto io? Sono sempre stato io a badare alla famiglia. Lui non c’era mai, sempre in giro, in missione. Ma tu stravedevi per lui. Magari ti faceva anche le corna, ma tu lo amavi ciecamente. Scusa, hai ragione. Ho esagerato. Adesso però vado, sono uno sciocco a parlare con una fotografia. Meglio andare.

Giovedì 2 luglio 2009

“Allora come va?” “Il solito schifo, Luigi.” Il mio collega si mette a ridere, sta per accendersi una sigaretta ma incontra lo sguardo di Beatrice, la mia infermiera preferita. Rimette la sigaretta nel pacchetto e il pacchetto in tasca. “Sei ancora giovane, potresti smettere. Anch’io ho smesso.” “Ci ho provato, lo sai. Ma non ci sono mai riuscito.” Guardo Luigi: ha un viso simpatico, pieno di rughe di espressione. La testa è piena di capelli, ormai tutti grigi. Se non fosse per rughe e capelli lo scambieresti per un ragazzo di venti anni. La sua aria giovanile mi ha sempre affascinato. Avrà bevuto un elisir di giovinezza, questa è l’unica spiegazione. È apionato al suo lavoro, come pochi. “Se la cava l’agenzia senza di me?” “Direi di sì, senza la zavorra di un nonno. A proposito, i nipoti?” “Niente, per ora. Ma ci credo poco.” A Marta sarebbe piaciuto avere intorno dei marmocchi da viziare. “Allora, come mai sei qui? Non dirmi perché ti manco.” “A dire il vero volevo vedere se c’era ancora quella biondina che conosci bene. Mi ha appena lanciato uno sguardo di fuoco.” “Beatrice? Non sei un po’ maturo per lei?” La sua aria da ragazzino si è sempre accompagnata a un’immaturità mai superata del tutto. Ciò talvolta mi ha creato non pochi problemi sul lavoro. Sembra che non prenda niente sul serio, fino a che non gli si impone la disciplina. Allora

diventa un collega perfetto. “Smettila di fare il bambino. Fallo almeno per i tuoi figli.” D’un tratto il suo volto invecchia di venti anni. Mi dispiace, ma devo sempre toccarlo sul vivo per rimetterlo in carreggiata. “Potevi risparmiartela questa, Gianni. Con tutto quello che devo spendere per gli alimenti. E li vedo ogni quindici giorni se va bene…” Non sono mai stato un diplomatico, non so se per fortuna o sfortuna. Ora Luigi distoglie lo sguardo, per un momento rimane in silenzio, poi un sorriso fiorisce di nuovo sul suo viso riempiendolo di rughe intorno agli occhi. “Allora parliamo di lavoro. Non si può nemmeno scherzare con te.” Non riesco a capire come abbia fatto a sopportarmi per tutti questi anni. Sono sempre stato un burbero, proprio l’opposto di lui, sempre allegro e gioviale. Forse davvero mi vede come un’autorità paterna. Forse gli è mancato un padre severo che lo regolasse: il suo lo ha lasciato orfano a dieci anni. Così si è legato a me. Una strana coppia, veramente. Poi stava simpatico a Marta: di carattere un po’ si assomigliano. Quando Luigi veniva a cena da noi non era raro che i due si coalizzassero contro di me e mi sfottessero per tutta la sera. “È per un caso di qualche anno fa. Ti ricordi Solana?” “Solana, Solana… Non mi dice niente…” La mia memoria. E sono ati solo pochi anni. “Possibile che non te ne ricordi? Ci abbiamo lavorato tanto a quel caso.” Luigi mi guarda preoccupato. Io non so che dire, non me lo ricordo. “Il trafficante, il sudamericano, proprio niente?” “Ah, sì, Solana…” Sto bluffando, in realtà. Spero che non lo scopra, spero che mi dica altro intanto che mi torna la memoria.

“Beh, abbiamo perso completamente le sue tracce e non sappiamo più come recuperarlo. Questo circa sei mesi fa.” “E vieni solo adesso per chiedermi consiglio?” Non me lo ricordo ancora questo maledetto Solana. “Sai com’è… L’obbligo di riservatezza… Poi sembrava che stessimo per rintracciarlo…” In realtà so che Luigi ha aspettato tanto perché ha voluto, come suo solito, fare di testa sua. La sua cocciutaggine è un aspetto del suo carattere con cui ho imparato a convivere. Solana. Incomincio a ricordare. “Ho messo tutto quello che ti serve in questa pen drive. Vorrei che tu guardassi tutto e poi mi dicessi il tuo parere. Stiamo proprio brancolando nel buio e il tempo adesso stringe.” “Cos’è? Cosa devo fare con questa supposta?” “Non hai mai visto una pen drive? Ma sei proprio dell’età della pietra!” “Così piccola no.” Il riso di Luigi rimbomba fino al soffitto. Non so che dire, mi sa che sono stato poco attento all'evoluzione tecnologica in questi ultimi anni. “Ho visto che avete una sala computer. Devi inserirla nella porta USB, sai qual è? Poi fa tutto da sola.” “Sì, sì, so cos’è una porta USB. Li ho sempre usati i computer, io.” Di nuovo bluffo, è più forte di me. Non ho mai amato i computer, ho sempre preferito l’azione allo stare seduto davanti a uno schermo. Ma spesso sono stato costretto a utilizzarli, mio malgrado. Luigi sta ridendo ancora. “La vuoi smettere?”

“Sì, adesso faccio un bel respiro… Ecco, mi sono ripreso. Ti prego Gianni, dacci un’occhiata. Io torno tra dieci giorni. Hai tutto il tempo che ti serve.” Dieci giorni? Ma io ti so già dare una risposta domani, Luigi. “Va bene.” “Ora devo scappare. Naturalmente tutto questo rimanga tra noi. Se all’agenzia sanno che ti ho ato le informazioni su Solana mi licenziano in tronco e mi tagliano le mani…” Luigi si accorge dell’espressione che ha usato. Segue un breve momento di imbarazzo. “Scusa, m’è scappata.” “Non importa, Luigi.” “Perché non ti fai una protesi?” “Alla mia età? Ormai cosa vuoi che faccia.” “Era un’idea. Comunque prima che dica qualcos’altro di sconveniente me ne vado. Ci vediamo tra dieci giorni.” “D’accordo.” Il ragazzo di una volta si alza dalla sedia e mentre prende la via dell’uscita meccanicamente estrae il pacchetto di sigarette e se ne infila una in bocca. Prima che scompaia dalla mia vista l’ha già accesa. È un brav’uomo, forse troppo buono. Non è ancora mezzogiorno. Una capatina alla sala computer faccio in tempo a farla. Di solito qui si a il tempo a chattare o a navigare. Non io, ho sempre preferito eggiare che chiudermi in questa stanza. Stavolta però non vedo l’ora di entrarvi. Scelgo una postazione: in questo orario molte sono libere, gli ospiti si sono già

ritirati nelle loro camere per prepararsi per il pranzo. Non so che preparazione debbano fare: mancano ancora venti minuti. In teoria c’è solo da lavarsi le mani, nel mio caso ce n’è una sola, poi. Scuoto il mouse per disinserire il savescreen: l’operazione mi costringe a stare in una posizione un po’ scomoda, dato che il mouse sta alla destra della tastiera. Potrei spostarlo a sinistra, certo, ma è come se non mi rassegnassi a tenerlo come un destro normale. Dove diavolo sarà quella dannata porta USB? Cerco ma non trovo nulla in cui possa infilare la chiavetta: è così piccola che potrei ingoiarla. Tra i pochi rimasti c’è Giancarlo, si sta alzando dalla sua postazione. È uno dei più esperti in tema di informatica, qui dentro. Ma non voglio abbassarmi a chiedergli un favore. Non mi è mai stato molto simpatico, fin da quando l’ho visto per la prima volta. Eppure non mi ha fatto niente di male: è semplicemente una questione di pelle. Aspetto che Giancarlo si allontani prima di riprendere a trafficare con le porte del mio pc. Sicuramente la mia presenza risulta piuttosto insolita, in un anno che sono qua non ho mai messo piede qui dentro. “Serve aiuto, Giovanni?” Era inevitabile. “No grazie, Giancarlo.” Poi ci ripenso. “Beh, sì… Una cosa ci sarebbe…” “Dimmi tutto.” L’espressione ebete di Giancarlo si fa ancora più odiosa quando gli si illuminano gli occhi. “Mio figlio mi ha mandato delle fotografie su una chiavetta e non riesco a trovare la porta USP…” “Vuoi dire USB. È proprio qui dietro… La vedi? È questa. Dov’è la pen drive? Te la inserisco io…”

E vattene, Giancarlo dei miei stivali. “Grazie, adesso faccio da solo.” “Come vuoi. Se hai bisogno d’aiuto sono nella mia stanza.” “Sì, sì.” Forse sono stato un po’ brusco, ma pare che le mie maniere non abbiano affatto scalfito la flemma di Giancarlo. Infilo la piccola unità di memoria. Mentre attendo che il file si apra, torno a pensare alla mia amnesia su Solana. Eppure prendo regolarmente le medicine per la memoria. È proprio la fine per me. Mentre mi lascio andare a riflessioni sul decadimento celebrale e sulla morte imminente lo schermo s’illumina d’improvviso e io torno a essere l’agente in servizio, dimenticandomi in un istante della mia vecchiaia. Ecco che compare il file su Solana. File di sola lettura, vengo avvertito.

Giovedì 10 luglio 2008

Sono in macchina con Massimo e sua moglie Luisa. Stiamo percorrendo una strada in salita, si arrampica su una delle colline che sovrastano la città. “Ti troverai bene, papà.” La Volvo di mio figlio è lussuosa, l’ha comprata da poco. Ha un bagaglio capiente, ora contiene tutto quello che mi servirà fino alla fine dei miei giorni. “Gianni, non dici niente?” Mia nuora mi chiama Gianni. Preferisco così piuttosto che mi chiami anche lei papà. Guardo fuori dal finestrino. Chi l’avrebbe mai pensato di finire in un ospizio, proprio io. Ma come si fa? Chi ha tempo di badare a me? A dire la verità io mi so arrangiare benissimo, anche con una mano sola. Ho sempre fatto tutto a casa, non mi sono mai fatto mancare niente. Ho ceduto alle insistenze di Massimo, insistenze che duravano ormai da mesi. E trovi da chiacchierare, e ti diverti, e sei servito e riverito… Stupidate del genere. E poi le rifilava a me, che ho sempre odiato la compagnia e preferisco fare le cose per conto mio, senza che nessuno ci metta il naso. Marta, quanto mi manchi, eri tu la mia unica valida compagnia, solo tu mi capivi fino in fondo. E mi sopportavi. I miei figli non mi hanno mai compreso del tutto, soprattutto Massimo. Lella invece quando era piccola assomigliava a sua madre. Poi è cambiata, non so perché. Arriviamo a un massiccio cancello in ferro battuto. Una targa reca la scritta “Residence La Quiete”. Mi domando come mai si siano inventati di chiamare un ospizio, sia pure d’alta classe, con la parola residence. “La Quiete” poi mi suona così: sei con un piede nella fossa, mio caro vecchio decrepito, tanto vale che ti rassegni e te ne stai buono.

Ma ora il cancello si apre: esso segna il mio aggio da una vita densa di accadimenti a una vita monotona e ripetitiva. D’istinto mi viene di scappare, di smontare dalla macchina e darmela a gambe, come un bambino che non vuole andare a scuola, ma non ne ho la forza. Resto seduto qui, sul morbido sedile della Volvo di mio figlio, lasciando che il destino si compia. “Ti troverai bene…” “L’hai già detto.” Vedo che Massimo diventa rosso in viso. Forse si è offeso. Non m’importa, mi sta sbattendo in un ospizio, se sono un po’ brusco con lui lo può capire. Luisa vuole fare da paciere. “Su, dai, Gianni. Conoscerai tanta gente…” “Sai che bello. A me non piace la gente.” “Infatti ogni tanto ti capita di farla fuori.” Faccio finta di non aver avvertito la stoccata di Massimo, in realtà ho subito il colpo. Per un po’ sto zitto. Mi rendo conto che non è facile sopportarmi. In realtà non ho mai fatto fuori nessuno, è Massimo che si è messo in testa questa idea. Forse da giovane ha guardato troppi film di spionaggio. Non sono mai stato un padre presente, questo è vero. Ero spesso e volentieri in missione in capo al mondo e, talvolta, non potevo nemmeno chiamare per dire che stavo bene. avano settimane, anche un mese prima che la mia famiglia potesse sapere che ero ancora vivo. Arriviamo all’ingresso di quello che sembra un esercizio di avanguardia architettonica: ardite finestre a nastro che percorrono tutta la facciata dell’edificio lungo tre piani senza soluzione di continuità, un ampio salone con al centro un bancone a ferro di cavallo da cui spuntano schermi video, come nei più rinomati alberghi di Dubai, una leggera musica di sottofondo si diffonde da chissà dove. “Andiamo a vedere la tua stanza.” Massimo è appena tornato dal bancone con una tessera magnetica e dei documenti.

“Queste carte le puoi firmare con comodo quando ti sei sistemato.” Dal bancone ci raggiunge una ragazza bionda con camice e ciabatte del dottor Scholls. “Buongiorno, sono Beatrice. Lei deve essere Giovanni. Venga, le faccio fare un giro.” Mi piace Beatrice. Ha un’aria sbarazzina e fin da subito è capace di metterti a tuo agio. È di una bellezza non proprio fine, è anche un po’ larga di fianchi, a dire il vero; ma la freschezza dei suoi venticinque anni o poco più fanno perdonare qualche chilo di troppo. Mi ipnotizzano i suoi occhi chiari, come i suoi capelli biondi, sciolti nella mia fantasia, in realtà raccolti in un fermaglio. “Prima di tutto le faccio vedere la stanza, Giovanni. Poi lasci lì tutto che la porto a vedere il parco.” Sono in paradiso? Mi sono dimenticato che mi manca la mano tanto è leggera l’aria vicino a Beatrice. Mi sono anche dimenticato dei miei accompagnatori, che sono rimasti nella mia camera per sistemare le mie cose. “Vede? Là dentro è pieno di computer. Se vuole chattare…” Chattare? Come odio l’inglese italianizzato. Ma lei, Beatrice può dire tutto. Io non ho ancora spiccicato una parola. Mi lascio guidare come Dante attraverso le sfere celesti, a differenza che io non sono l’Alighieri e rimango zitto per tutto il tempo con il viso bloccato in un’espressione stupida. Beatrice fa un sospiro che mi ringiovanisce di colpo di trent’anni. “Ma come è silenzioso, Giovanni. Non le piace l’ambiente?” “No… È tutto bello…” E accenno a un sorriso. È molto dura che dal mio viso rugoso esca un sorriso. Sorridevo con Marta, a volte, e con i miei figli quando erano piccoli. Che sia il demonio questa ragazza che riesce a farmi sorridere? Imbarazzato dalla strana smorfia che il mio volto ha assunto ritorno bruscamente burbero.

Finiamo il tour. Beatrice mi riconduce nella stanza, dove ritrovo Massimo e Luisa. “Ah, sei tornato. Mi sa che questa ragazza ha già cominciato a viziarti.” Luisa mi strizza l’occhio. Se avessi trent’anni di meno chissà cosa farei a mia nuora. Ma no, è come una figlia, è moglie di tuo figlio, vecchio assetato di sesso. Marta, non sto parlando sul serio. La guardo: indossa un vestito leggero, svolazzante. Ha i tacchi alti e mentre cammina verso di me fa rumore sul pavimento. La cosa mi eccita, non ci posso far niente, Massimo. Beatrice non può competere con la bellezza matura di Luisa e la mia attrazione per lei svanisce del tutto, facendomi improvvisamente dimenticare l’intera visita guidata. “Abbiamo messo la tua roba in questi armadi, papà.” Io non rispondo. “Adesso però dobbiamo andare. Se mai, o domani.” Segue un silenzio imbarazzato. “Ciao papà.” “Ciao Gianni. Ti faccio la torta.” Lascio che se ne vadano. Voglio stare solo, con te, Marta.

Domenica 10 luglio 1997

“Allora, sei contento che tra poco vai in pensione? Meglio, no? Tra l’altro non ti tocca fare gli straordinari la domenica.” La sua è una battuta vecchia. L’agenzia, si sa, è attiva ogni giorno, compresa la domenica. “Abbiamo da fare, adesso, Luigi.” Siamo davanti al monitor. Stiamo cercando informazioni sul cervello elettronico dell’agenzia, costato una cifra paurosa, secondo voci di corridoio. “No, dico, non ti mancherà tutto questo?” “Per ora tutto ciò di cui sento la mancanza è la mia mano destra.” “Ma non ti mancherò io?” “Per niente.” Luigi per un momento si rattrista. Poi il suo buonumore riprende piede. “Ma no, è impossibile. Ormai ti conosco, vecchia quercia, non lo diresti mai apertamente.” “La vogliamo smettere? Ho ancora un mese, ho intenzione di farlo fruttare.” Siamo alla mia postazione. Ho chiamato Luigi perché mi aiuti: la mia incompatibilità con il computer mi costringe a farlo alzare frequentemente dalla sua scrivania. Per lui è un piacere, lo fa sentire indispensabile. Senza di lui non so cosa farei, ma non glielo dico, si monterebbe troppo la testa. “Ora, vedi? Clicco qui ed entro nella funzione ricerca…” “Piano, piano, vai troppo veloce per i miei gusti.” “Adesso filtro la ricerca. Vedi? Ecco i dati.”

Si apre una schermata in cui una lista di nomi scorre rapida davanti ai miei occhi. “Perché va così veloce? Non riesco a leggere…” “Adesso si ferma da solo, quando ha trovato il nome.” Ecco che la sfilza di nomi si blocca su Solana Rodriguez. “E se voglio dare un’occhiata anche agli altri nomi mentre scorrono?” “Gianni, perché dovresti dare un’occhiata agli altri nomi quando tu ne stai cercando uno solo?” In effetti ha ragione. Che mi frega degli altri nomi? “Vediamo un po’… Guardiamo che ha combinato il nostro amico…” Solana. Ecco il nostro nuovo incarico. Il responsabile di tante efferatezze e morti. È una lista lunga un chilometro quella dei suoi reati. Si tratta di trovarlo. E di neutralizzarlo. Che mi tocca fare, alla mia età. Forse è questo l’incarico più pericoloso che ho avuto in assoluto. A pensarci bene anche quello nel quale ho perso la mano non scherzava. Ma questo m’inquieta di più, probabilmente per via della fama del nostro uomo. “Adesso te lo faccio vedere bene, Gianni.” Luigi muove il cursore su un’icona piccola, tanto piccola che manco l’avevo notata. Improvvisamente compaiono a tutto schermo le foto segnaletiche. Attraverso uno speciale software, mi dice il collega, è possibile far ruotare tridimensionalmente il suo volto. Sembra quasi di poter toccare la superficie della sua pelle tanto è alta la risoluzione: puntando il cursore su delle frecce in basso a destra Luigi me lo fa vedere da tutti i lati, persino dall’alto. “Questo è il risultato di circa un migliaio di fotografie scattate all’insaputa del nostro amico nel corso degli anni. Purtroppo adesso non si fa più vedere, magari si è fatto una plastica completa e adesso tutta questa tecnologia non ci serve a un bel tubo. In ogni caso puoi farti un’idea di come potrebbe ancora essere.”

Mi avvicino allo schermo. La cosa che mi attira di più è una cicatrice sulla tempia, cicatrice vistosa, ha l’aria di essere stata provocata da un grosso incidente. Il suo volto gira. Ha la barba incolta, due occhi inespressivi, la fronte bassa e rugosa. Difficile capire l’età da questa immagine tridimensionale. “Quanti anni ha, Luigi?” “Cinquantacinque, ecco la scheda.” D’un tratto la testa del Solana si sposta in secondo piano e una schermata con i suoi dati anagrafici si ingrandisce al centro dello schermo. “Allora hai già dato un’occhiata…” “Beh, sì.” Figuriamoci se Luigi non si era preparato prima. È il mio collega preferito. Non ho ancora trovato uno come lui, almeno qui in agenzia. Me lo devo tenere stretto. “Ti diverti a giocare con questi trabiccoli, vero Luigi?” “Un mondo.” Il suo volto si illumina, mi guarda compiaciuto. È felice di usare il suo giocattolo. La testa di Solana continua a girare su più assi davanti a me, molto più piccola di prima. La osservo ancora. Soprattutto gli occhi mi impressionano: sono quelli di un animale, neri, scuri, profondi e privi di sentimento. Sento un brivido dentro di me. “Che hai, Gianni?” “Niente, è che questo qua non mi piace.”

“A me fa proprio paura.” Lo dice sorridendo, come per esorcizzare le proprie parole. “Su, diamoci da fare. Vediamo tutti i dati.” Non se lo fa dire due volte, il buon Luigi. “Ecco la sua storia. Ha un curriculum lungo un chilometro. Da dove iniziamo?” “Perché non dalla fine?” “Perché dalla fine?” “Ah, sei un pivello.” Luigi mi guarda un po’ irritato. Quando non riesce a capire s’arrabbia e si chiude a riccio. Infatti ha l’aria offesa, gli erà. Si è arrabbiato ma non vuole la spiegazione, non vuole capire. È troppo orgoglioso, a volte. Forse è anche per quello che la sua famiglia sta andando a pezzi. Povero Luigi, non lo invidio. “Allora… La sua ultima apparizione è stata a New York. Pare che andasse a fare spese ai grandi magazzini con la propria famiglia… Che faccia tosta.” Il posto più sicuro, a volte, è proprio alla luce del sole, mi viene da pensare. Ma non lo dico a Luigi, potrebbe scaldarsi ancor di più, e ora non è il momento, perché mi serve qui, davanti al computer. “Ci tocca chiamare New York, ho paura.” “Non t’interessa altro, Gianni?” “Beh, stampami tutto che lo guardo con calma.” “Stamparti? Sei proprio obsoleto, Gianni.” Non mi piace leggere al computer. Preferisco la stampa, stressa molto meno gli occhi.

“Non t’interessa altro, dove è nato, come è cresciuto?” “Sì, sì. Stampa tutto.” Ha un’aria sconsolata. Non riesce a capire il mio metodo, non vuole nemmeno capirlo. Del resto non posso fare a meno di lui: è un ottimo braccio. Ora però voglio meditare da solo. Aspetto che la lunga stampata abbia terminato, poi recupero il materiale. “Ti conviene rilegare.” Ascolto il consiglio con sfumatura ironica di Luigi. Prendo il malloppo e vado al piano di sotto. La copisteria è affollata di fotocopiatrici, tutte schierate e tutte in attività. L’odore tipico, il calore delle macchine e il loro rumore ripetitivo: tutto mi dà l’idea di una fabbrica, dove al posto di operai in tuta da lavoro ci sono impiegati in camicia e cravatta. Quanta carta che va sprecata… “Ciao Gianni.” “Ho bisogno di una rilegatura, Beppe.” “Fascicolo voluminoso, caso impegnativo.” “Già.” “Adesso te lo rilego per bene, Gianni.” “Grazie Beppe.” È un brav’uomo, Beppe. È qui da una vita. Quando sono arrivato io lui forse c’era già. È il responsabile della copisteria. Peserà un quintale, qui dentro fa caldo e la sua fronte è perennemente imperlata di sudore, mentre le ascelle sono sempre pezzate. Ma non me ne faccio un problema. Non sono schizzinoso. Lui cosa dovrebbe dire quando gli sventolo davanti il mio moncherino? Dopo pochi minuti il fascicolo è rilegato e posso tornare al mio ufficio. Alla copisteria ho sempre un trattamento speciale, forse perché sono il più anziano. Non credo perché mi faccia amare, non mi impegno tanto in questa direzione. Forse è per questo che mia figlia mi odia. Eppure quand’era piccola mi adorava. Cos’è cambiato in lei? Forse mi dovrei chiedere cos’è successo a me.

Ormai è tempo di timbrare il cartellino, non mi sono accorto che intanto la giornata è finita. Decido di studiarmi il fascicolo a casa. Finalmente nelle mura domestiche dopo un’intensa giornata. Quella faccia mi continuava a tornare davanti agli occhi mentre guidavo verso casa. Un’espressione profonda e diabolica, quasi da essere sovrannaturale. Forse la mia impressione è stata alimentata dalla ricostruzione al computer, forse. Fatto sta che stasera sono inquieto. Questa casa. Manchi da così poco tempo, amore. Non lo so, non me la sono sentita di piangere, ero fermo come una statua di sale al funerale. Niente sembrava vero, nemmeno ora sembra vero che non ci sei. Nella mia mente è come se fossi uscita a fare spese e avessi fatto tardi. Non l’ho ancora superato il trauma, per niente. A volte mi sembra di diventare matto. Accendo la luce esterna per poter vedere la serratura elettronica dell’ingresso. Inserisco la chiave e un suono sordo mi avverte che la porta blindata si è aperta. Entro. Buio e silenzio. Ogni volta è un pugno nello stomaco che quasi m’impedisce di respirare. Poi prendo coraggio e premo l’interruttore. Il lampadario del salotto si accende. La mia casa, la nostra. Punto dritto alla cucina. Marzia, la nostra governante, ha lasciato il pranzo per me prima di andarsene. La minestrina. Va scaldata. Tutto è apparecchiato. Accendo il fornello e intanto prendo il telecomando e pigio il tasto rosso. Il telegiornale è bello che finito. Ho fatto veramente tardi stasera. Ormai la minestrina borbotta sul fuoco: è ora di versarla. Con un gesto fluido faccio arrivare tutto nel piatto; la mia sinistra è diventata da tempo una buona destra. Sorbisco il brodo con lentezza e sopra pensiero. Ho davanti il fascicolo e lo sfoglio. Alla televisione danno un quiz, nemmeno lo considero. Solana. Che ci fa un delinquente, sia pure sotto forma di carta, in casa mia? Come ho permesso che il lavoro entrasse in queste mura? Me lo dicevi sempre, cara. Lascia il lavoro fuori dalla porta. È stato visto a New York. È da questa città che partirei. Dio, ma come è venuto in mente ai miei capi di darmi un incarico del genere? Con i miei anni, e la mia

menomazione? Che senso ha? Certo la mia esperienza ha pesato, ma perché mettermi in prima linea? Avrei potuto semplicemente essere un consulente, cosa che del resto ormai faccio da un po’ di anni a questa parte, ma che senso ha questo mandarmi in pasto a degli assassini? Il punto è che non ho detto nulla, ho accettato senza batter ciglio: ha prevalso l’uomo di una volta, incosciente, desideroso di avventura; non ho pensato nemmeno un momento alla mia età. Rimane la domanda iniziale: come mai i miei superiori considerano Giovanni Franti la persona più idonea per questo caso? Mi guardo il moncherino. Quanti anni saranno ati, dieci, quindici? Pare che il tempo acceleri d’un tratto il suo scorrere e dieci anni, bum, sono partiti in un attimo. Eppure mi sembra ieri, eppure la mano il giorno prima l’avevo, non mi sono ancora arreso all’idea di averla persa. Il piatto della minestra cade per terra: per un istante ho creduto di poterlo tenere con un arto fantasma. Il rumore del piatto che si rompe mi sottrae dall’accumularsi improvviso dei pensieri. “Vedi che disastro che sono, Marta?” Trattengo per un attimo un moto di commozione. Cosa fai, Gianni, ti metti a piangere come un lattante? Mi vergogno di me stesso e faccio un lungo sospiro. Chiudo il fascicolo di Solana, aspetterà domani. Sta iniziando un film, perlomeno per un’ora e mezza non penso. Quello sguardo da animale l’ho già visto.

Martedì 3 luglio 1984

Meglio stare nascosto ancora un poco. Non mi muovo dal mio giaciglio, anche se a loro basterebbe un paio di occhiali a infrarossi per individuarmi all’istante. Ma non ho scelta, almeno per ora. È stato stabilito il silenzio radio, sono dappertutto, ci si deve arrangiare per ora. E dire che ne ho ate tante. Non ci ho mai fatto l’abitudine. Il rischio è di essere catturati e interrogati. Penso a Marta. Come sempre non le ho detto niente dei particolari della mia missione, ci mancherebbe altro, mi fa una crisi isterica. Un rumore molto vicino a me, divento di pietra. Accento straniero, voce bassa. I miei compagni sono distanti, acquattati nei loro nascondigli. Io sono ai piedi di un muro, dentro un cespuglio. Si trattava di installare microfoni e microcamere tutto intorno all’edificio e poi anche al suo interno. Operazione di routine, una delle tante. Non abbiamo fatto i conti con l’esistenza di un vero e proprio esercito privato. Potevano segnalarcelo, maledetti quei colletti bianchi dell’agenzia. Abbiamo dovuto ripiegare e nasconderci. Possibile che questo uomo sia così importante? Non so più a che santi attaccarmi per rimanere fermo e in silenzio. Un crampo mi ha preso la coscia, ah, dovrei allenarmi di più, e a stento trattengo uno starnuto, per non parlare del prurito sulla schiena. Sento un rumore di sterpaglie calpestate, sarà a un metro da me. Non riesco a pensare, resto sospeso tra l’essere scoperto e farla franca per qualche secondo. Infine l’amico si allontana, non so di quanto, non posso alzarmi per accertarmene. Lascio are qualche minuto, poi decido di uscire allo scoperto. È buio. La proprietà è piena di vegetazione, pare quasi di essere in una foresta. Dai miei compagni nessun segnale. Il silenzio ora regna sovrano. Un silenzio strano, troppo silenzioso. Ristabilire il contatto radio? Ne sarei tentato, anche se l’esperienza mi dice che è ancora troppo presto per farlo. Inizio a muovermi, con cautela poggio un piede dopo l’altro, in modo da non fare nessun rumore. In questi casi non bisogna avere fretta. Mi sento solo, come se tutti gli altri fossero partiti, o fossero stati catturati, questa seconda ipotesi non voglio nemmeno considerarla. M’incammino verso la base mobile: l’abbiamo lasciata a qualche chilometro di

distanza dal confine della proprietà, un furgone vecchio e arrugginito, perlomeno fuori. Che sia la strada giusta? Vado un po’ a tentoni, non mi ricordo bene. Proseguo lentamente, in questo modo ho il tempo per guardarmi intorno, per studiare le ombre, per individuare la minaccia. Una voce. Mi rannicchio ai piedi di un grosso albero. Evidentemente il comitato di benvenuto ci sta ancora cercando. Ma dove sono gli altri, che mi abbiano abbandonato qui? “Gianni…” È Luca, la sua voce è un bisbiglio, proviene dall’albero più vicino al mio. “E questi? Chi li ha invitati?” “Non ne ho idea, Gianni. Luigi è da queste parti, ha deciso di seguirli…” “E perché mai, testa calda che non è altro… Dobbiamo andarcene da qui, e subito. La missione è annullata.” “Vallo a dire a quello là…” “Silenzio.” Sento le voci avvicinarsi, probabilmente attirate dalla nostra imprudente chiacchierata. Vorrei tanto aver scelta in questo momento. Preparo il coltello, questa volta è un miracolo se non si accorgono di noi. Il miracolo avviene. Un ululato, un lupo, che ci fanno i lupi in una proprietà privata come questa? Ma certo, è quello stupido di Luigi. Vuole farsi ammazzare, a quanto pare. A ogni modo riesce nel suo intento e li allontana da noi. Probabilmente indossa gli infrarossi e ha avuto modo di osservare lo sviluppo della situazione. “Dobbiamo arrivare alla base mobile, Luca. Gli altri?” “Sono già quasi arrivati, ci siamo sentiti via radio.” Via radio? Mi viene rabbia di fronte all’ingenuità dei miei uomini. A ogni modo

la squadra sta convergendo al furgone, tutti tranne noi, che siamo rimasti indietro, e Luigi, che sta depistando i nostri amici. Sono preoccupato per lui, ma per ora non posso fare altro che ricongiungermi con gli altri, sperando che anche lui faccia lo stesso. Appena il piccolo esercito è a debita distanza Luca e io ci muoviamo. Luigi è spericolato ma sa sempre quello che fa. Sono sicuro che lo ritroverò al furgone, perlomeno me lo dico per farmi coraggio. “Dannazione a te, Luigi.” “Non preoccuparti, Gianni. Vedrai che ne esce, come sempre.” Già, come sempre. Con cautela ci muoviamo nella vegetazione, intorno a noi il silenzio. Dopo un quarto d’ora di cammino ecco che la base mobile è in vista. Sull’onda dell’entusiasmo mi aspetto che ci sia anche Luigi, anche se ragionando è impossibile che sia arrivato prima di noi. Non c’è. Gli altri componenti della squadra rimangono attoniti. Che sia stato preso? Aspettiamo a dirlo, è presto. Alla fine a mezz’ora: di Luigi nessuna notizia. A questo punto decido: bisogna andarlo a cercare. “Tu Rampani, e tu Polini venite con me. Gli altri restano qui.” Rampani Luca, forse la persona di cui mi fido di più dopo Luigi. È un ragazzo sempliciotto ma molto efficiente. È apionato al suo lavoro e, pur non essendo proprio nato per esso, s’impegna con tutte le sue forze. Per Luigi invece è naturale, gli riesce tutto senza sforzo. Anche mettersi nei guai. Bisogna ritornare dentro il bosco e questo non mi piace affatto. Brutto incosciente, possibile ti debba sempre cacciare fuori dai casini? Rampani si è messo davanti, si muove veloce e in silenzio. Faccio fatica a stargli dietro. “Rampani, aspetta.” Non risponde. Si limita a fermarsi e a girarsi. Capisce che deve lasciarmi andare

per primo. Ora sono davanti e conduco la piccola pattuglia. Preferisco andare con o lento, dovrebbero capirlo questi giovani che la lentezza è la strategia migliore. Ma loro vogliono strafare, quanti ragazzi abbiamo perso perché avevano fretta di arrivare davanti agli altri. Luca fa un sospiro impercettibile mentre lo supero. Andiamo fino alla muraglia. “Dobbiamo saltare dall’altra parte.” “E chi ti dice che Luigi è di là?” “Non lo so, Luca, ma bisogna controllare.” A nostro rischio e pericolo, mi dico. Giungiamo ai piedi della cinta. Bisogna scavalcarla, senza sapere praticamente nulla di cosa vi sia di là. “Un momento, Gianni.” Rampani estrae dalla sua sacca un oggetto bizzarro. Mi guarda come se stesse dicendo “ehi, dinosauro, quand’è che ti aggiorni?”. Ma naturalmente non dice una parola, se no sentirebbero la sua esclamazione. Rampani traffica con quello che sembrerebbe un braccio telescopico: lo allunga fino al massimo e ne piega la piccola estremità a novanta gradi. Il braccio è piuttosto sottile, nell’oscurità non si vede tanto. Ecco che l’attrezzo è pronto. Luca Rampani lo tiene da un’estremità, lo pianta per terra facendo arrivare in cima al muro quello che ora riesco a distinguere come un piccolo occhio artificiale. Poi avviene un piccolo prodigio: il braccio telescopico si allunga da solo silenziosamente, mentre intanto Rampani ha indossato un paio di occhiali simili a quelli della vista infrarossi ma più compatti. Ne ha altri due: li allunga a me e a Polini. Meraviglia della tecnologia: vediamo come se fosse giorno e con una definizione dell’immagine tale che potrei quasi contare i sassolini del vialetto che conduce al portone d’ingresso dell’abitazione. Altro prodigio: Rampani muove la testa e l’occhio artificiale si sposta in sincrono con essa, zoomando se lo sguardo si sofferma su un particolare. Si tratta di una villa a un piano solo. C’è una piscina a forma di fagiolo. La casa

è piena di finestroni che danno sul giardino. Sembra tutto tranquillo, la cosa non mi piace, visto che poco prima era stato mobilitato un piccolo esercito per accoglierci. È come se ci stessero aspettando, mi dà questa impressione. “Gianni, non c’è nessuno. È il momento giusto per scavalcare.” “Aspetta ancora.” Sono consapevole che più tempo a più Luigi è in pericolo, ma dobbiamo aspettare. Non abbiamo nemmeno una pianta sufficientemente dettagliata della villa, né del giardino che vi sta intorno. E dire che parte della missione era di inserire spie e sensori all’interno, quei maledetti ci hanno dato uno straccio di piantina vecchia di anni. La cosa mi ha subito puzzato, dicevano che non si era riuscito a recuperare di meglio, strano considerando i mezzi a disposizione dell’agenzia. Chissà perché ho accettato lo stesso la missione. Anzi forse lo so il perché. Aspettiamo circa un quarto d’ora, il quarto d’ora diventa mezz’ora, mezz’ora un’ora. Siamo snervati. Dall’altra parte non si muove una mosca. Guardo i miei compagni: hanno uno sguardo vuoto e rassegnato. Poi, d'un tratto, un rumore. Qualcuno che parla. Di scatto rimettiamo i visori che ci eravamo tolti per un istante. “Dobbiamo trovare gli altri, adesso.” La voce viene dall’interno dell’abitazione, si sente appena. Riesco a comprendere solo questa frase, poi non sento più nulla. Luca ci indica una piccola cuffietta collegata al visore, ci fa cenno di metterla. Di colpo sentiamo perfettamente. “Quanti siete, dove siete appostati, parla, piccolo scarafaggio.” Un brivido mi percorre la schiena. Sento un risolino inconfondibile. “Perché dovrei dirvelo?” “Perché tra un attimo ti facciamo fuori se non parli.”

“Tutto lì?” Dannato Luigi, prendi tempo, dì che vuoi parlare, inventati una balla. Possibile che tu voglia sempre fare l’eroe? Per cinque interminabili minuti non si sente più niente, tranne un lamento sommesso: lo stanno picchiando. Sono combattuto tra l’entrare in azione e l’attendere ancora lo sviluppo degli eventi. L’istinto mi dice di agire, la ragione di restare fermo. È sicuramente una trappola: lo sanno che siamo qui, sono stati in attesa per vedere quale mossa avremmo fatto, poi hanno deciso di attirarci con l’ostaggio. In questo momento non posso fare altro che stare al gioco. a qualche minuto. Guardo i miei compagni senza fiatare. Sono ancora terribilmente indeciso sul da farsi, ma non è il momento di avere tentennamenti. Il resto della squadra è lontano e bisogna intervenire subito. Succeda quel che succeda andiamo a tirar fuori Luigi. Scavalchiamo nel buio della notte.

Quarantacinque anni prima

Ma cosa ti sei messo in testa Gianni? Lavorare in prima linea, come dici tu, proprio adesso? Eri talmente eccitato quando me l’hai detto che non ho voluto dirti niente. Desidero la felicità per te, ma non potevi scegliere l’ufficio? Adesso ti vedrò pochissimo, non sarai mai a casa. Al solo pensiero dei rischi, del pericolo, all’idea di perderti mi sento morire. Certo ho fiducia in te, Gianni, so che hai la testa sulle spalle, se no non ti sposavo nemmeno. Me lo diceva mia madre a cosa andavo incontro, ma ho voluto fare di testa mia. Perché ti amo. E questo non l’ho scelto io. Quanta roba da preparare, è domenica, e come tutte le domeniche arrivano i suoceri: una domenica i miei, l’altra i tuoi. Così è stato deciso. Tutti insieme solo a Natale, Pasqua e compleanni. Mi piace fare da mangiare, non è un peso per me. Credo di aver sempre preparato da mangiare. Fin da quando ero bambina seguivo mia madre come un’ombra, l’aiutavo a cucinare tutto, leggevo il ricettario ogni giorno. È ora di tirare fuori l’arrosto. Anche oggi lavori, ma hai detto solo la mattina. Vado a dare un’occhiata a una cosa, mi dici sempre così. Poi magari torni la sera, ma ogni volta che mi fai questo scherzo non te la faccio are liscia. Te le scordi le coccole, te lo scordi l’amore. A volte mi a per la testa che tu abbia un’amante. Può anche essere. Se è così non te la perdono. Sei un uomo buono, Gianni, non lo faresti mai. Certo non ti lasci mai andare in effusioni, è difficile che da te arrivi un gesto cavalleresco, o un fiore, una carezza. Forse meglio così, se fossi troppo dolce potresti celarmi un segreto. Basta pensare, bisogna apparecchiare. Fra poco si riunisce la famiglia.

Venerdì 10 luglio 2009

Sono stato tutto il pomeriggio nella saletta computer del mio ospizio di lusso. Il tempo è volato senza che me ne accorgessi. Ne avevo bisogno dopo una mattina di rimbambimento davanti allo schermo piatto della sala tv. E poi tra due giorni torna Luigi: devo prepararmi. Beatrice mi è venuta a cercare. È ora di cena, mi dice col suo sorriso fresco dei suoi vent’anni. Se si può cenare alle sei e mezza, non ho nemmeno fame tanto sono assorto dal materiale che mi ha mandato il mio socio. Ormai è tornato tutto alla memoria. Per primo la faccia di questo Solana e l’impressione che mi aveva dato. Possibile non ci sia nessuno all’agenzia che possa districare questa matassa? Devono cercare aiuto da un ex agente in pensione e invalido? Sono proprio messi male. Come anni fa, quel volto da animale mi fa venire i brividi. È tornato a dare problemi? Non lo avevamo reso innocuo? Beh, non del tutto. Se non altro lo avevamo isolato, ma pare che, alla lunga, non sia stata la strategia migliore. “Su, Gianni, andiamo. Ti fai sempre desiderare.” “Arrivo…” Come diavolo si esce da questa schermata? Se questa vede a cosa lavoro per me e per Luigi sono guai. “Problemi col computer? Ti chiamo un attimo Giancarlo. Se ne intende più di me. È bravo, sai?” “No.” Finalmente trovo il modo. Esco dal file, stacco la chiavetta e spengo il computer. Mi tocco il mento, sento l’ispido della barba, rimango un attimo soprappensiero, poi mi alzo. La cosa è complicata. “Ti vedo pensieroso Gianni…”

Beatrice mi guarda stupita, è la prima volta che vede questa espressione sul mio volto da quando sono qui dentro. È l’espressione di quando ero in prima linea e riflettevo sul da farsi. “Su, adesso andiamo.” “Sì, sì. Vado a lavarmi e arrivo.” Beatrice fa un risolino. È soddisfatta, è riuscita nell’intento di convincermi. È proprio una ragazzina, per questo sono affezionato a lei. Come a una figlia. Lella. Perché mi odi? Pare che stasera ci sia animazione. Gli ospiti sono eccitati più del solito: si ride e si scherza. Hanno unito i tavoli, c’è aria di festa. Ora ricordo: c’è il ballo. Dopo cena ci si sposta nella sala grande e, per chi vuole, ci sono valzer e tango a volontà: proprio l’ideale per me. Trascinato dai compagni di tavolata ho perfino bevuto un bicchiere di rosso. L’effetto è stato di cancellare dalla mia memoria il lavoro di tutto un pomeriggio. “E sciogliti un po’, Gianni, sei sempre così abbottonato. Su, riempi ancora, ti fa bene.” “No… Basta… Ho preso le medicine…” “Ma cosa vuoi che ti faccia un po’ di vino. Dopo mi fai ballare, vero Gianni?” Mi sembra di essere all’inferno. Che ci faccio io qua? Dannato Massimo. Pina insiste. È una signora elegante, sui settantacinque. Piena di vita, è lei che anima le serate dell’ospizio. Le vogliono tutti bene, il suo spirito contrasta con l’asettica atmosfera dell’ambiente. Da sotto le rughe si possono leggere i lineamenti di quella che è stata una bella donna. Una bellissima donna. “Sei un funerale, Gianni. Su, bevi, hai una brutta cera.” Le piace punzecchiarmi. Sfortuna vuole che sia al mio stesso tavolo. “Gianni l’ho prenotato io, vi taglio le mani, befane, se lo toccate.”

La sua gaffe pare non scuoterla minimamente. È incontenibile quando beve un po’, è per quello che le si riempie sempre il bicchiere: il divertimento così è assicurato. Vorrei che prendesse di mira qualcuno che non sia io, per il resto è piacevole la sua compagnia. Ma cosa dico, sono ammattito? Marta, non ascoltare quello che dico. Quella lì piacevole? Ma se non mi lascia in pace un minuto. Tu invece sapevi quando era il momento di lasciarmi solo. Questa sera è interminabile. Come previsto sono finito nella sala da ballo. Sono dovuto andare a cambiarmi. Ma perché? Non potevo dire di no? Non lo so, ora sono qui. Sto seduto nel posto più defilato che ho potuto trovare. Pina, o Giuseppina, sta ballando con un ospite. Per ora è distratta, non so quanto durerà questa tregua. Finisce la canzone, la vedo salutare il cavaliere e dirigersi verso di me. È finita. Che faccio? Sarebbe scortese andarsene, non è da me. “Eccolo il mio cavaliere!” “Ma… Non so ballare…” “Sei un bugiardo. Io lo so che balli.” “Ma mi manca una mano…” “E allora? A cosa ti serve?” A Pina la mia menomazione non fa né caldo né freddo. Quasi non si accorge che mi manca un pezzo di corpo. Mi guarda dritto negli occhi attraverso i suoi occhiali e sorride mostrando tutta la sua dentiera perfetta. Si è avvicinata e mi tende la mano. Senza poter pensare a qualche altra scusa mi ritrovo in mezzo alla pista. E adesso? Non sono capace. Accidenti a te, Pina. “Su, Gianni, fammi ballare.” “Non so…” La mia frase rimane per metà in bocca, Pina ha deciso di guidare lei. “Devi fare così. Muovi così. Tieni il tempo… Bravo!” Tutto sommato non me la cavo poi male. Con la mano mi tiene quel che resta del mio polso, facendo sembrare la cosa assolutamente naturale. Dopo qualche giro

di valzer ho affinato la tecnica. Certo non faccio numeri da ballerino provetto ma seguo la musica e tengo il tempo. “Bravo! Visto che sai ballare?” Non le rispondo. Sono intento a mantenere il ritmo e mi viene da guardarmi le scarpe. “Guarda me, imbranato. Il tempo lo senti con le orecchie o con i piedi?” Obbedisco e mi ritrovo davanti il suo sorriso da terza dentizione e i suoi occhi opachi e brillanti al tempo stesso. Mano a mano perdo la cognizione del tempo. Facciamo uno, due, tre balli. Dio, ha l’energia di una quarantenne, la cosa che mi stupisce di più però è che nemmeno io sono stanco. Durante il giorno mi sento spossato, assonnato. Stasera è come se mi fossi svegliato da questo torpore. Non mi sembra vero di aver scoperto un divertimento in questo posto. Soprattutto non mi sembra vero che ci sia un’attività ludica che mi assorba quanto mi assorbiva il mio lavoro. Ballo e il mio pensiero è spento. Perfino la mano mi è ricresciuta, o meglio ho smesso di sentire le fitte delle terminazioni recise. Che sia una strega questa Pina? La serata è volata. Sono le undici, è ora del coprifuoco. Prima di andarsene Pina si avvicina a me e mi guarda, senza dir niente. No, mi viene da pensare. Non si può alla nostra età. Nemmeno io dico niente. Ricambio lo sguardo un po’ imbarazzato, vorrei farle un cenno di saluto, ma muore sul nascere. Ritorno alla mia camera. Sono assonnato e al tempo stesso leggero come una piuma. Tra le lenzuola ho ancora l’impressione di star ballando con Pina.

Giovedì 9 luglio 2009

Stanotte non riesco a prender sonno. La visita imbarazzata di Massimo mi lascia sempre un po’ di amaro in bocca, ma non è questo. Guardo l’orologio: sono le undici ate e i miei occhi sono ancora sbarrati. Non ne posso più. Se resto ancora un istante in questa cella divento pazzo. Decido di avventurarmi per l’ospizio. Una volta, quando ero ancora nella mia casa, semplicemente sarei andato in cucina per bere un bicchiere di latte. Qui non è proprio la stessa cosa. Certo la mia stanza è un piccolo appartamento, con tanto di cucinino, che non ho mai usato. Ma è pur sempre un’unica stanza, e queste pareti non le sopporto più. Esco, con cautela. Se mi trovano in giro mi fanno delle storie. È proprio un carcere questo posto, né più né meno. Le luci sono soffuse. Mentre percorro il corridoio penso al caso Solana. È una settimana che ci ragiono, è diventato un tarlo che mi mordicchia dentro la testa. Ho in tasca la chiavetta che mi ha dato Luigi, ma ora la sala multimediale è chiusa. È da una settimana e più che mi metto davanti al computer. Questo mio mutamento non è ato inosservato: ho ricevuto la visita dello psicologo della struttura, pensano che mi stia attaccando ai siti pornografici. Anche Beatrice pare preoccupata: mi guarda con apprensione, cerca di non farsi vedere ma io me ne accorgo. È una brava ragazza, ha preso il mio caso un po’ troppo a cuore. Arrivo in fondo al corridoio. Nessuno si è ancora accorto del mio vagare notturno. “Ehi.” Mi giro. È strano: non credevo che il corridoio fosse così lungo. Quanto ho camminato? Dall’altra parte c’è una persona che mi chiama, ma non riesco a capire chi sia, è troppo distante e io ho lasciato gli occhiali sul comodino. “Chi sei?”

La persona non risponde. Resta ferma. Ma no, non c’è nessuno, stupido. È solo la paura di essere scoperto che mi ha fatto immaginare di vedere qualcuno. Eppure è una voce che ho già sentito. Torno sui miei i. “Ehi, dico a te, stronzo.” Rimango raggelato. Stavolta non me la sono sognata. Mi volto di scatto: chi è che mi odia così tanto? Cosa gli ho fatto? Di nuovo distinguo la sagoma di un uomo, ma non ne vedo il volto. “Cosa vuoi? E modera il linguaggio, sciagurato.” “Se no che mi fai?” “Vieni qui e te lo faccio vedere.” “Sai che paura.” Ha un accento strano. Ora mi ricordo. È lui. Come è possibile? Adesso sono preso dal panico. Che ci fa qui, in questa casa di riposo? “Tu me la paghi, bastardo.” Si sta avvicinando. Sono paralizzato. È proprio lui. Solana. A stento riesco a respirare.

Mercoledì 8 luglio 2009

Dannazione, quanto lavoro da fare qui a Londra, non ho un attimo di respiro. Ma sono contenta, la mia collezione piace. Vediamo l’agenda… Tra mezz’ora ho un appuntamento con un cliente. Massimo non mi ha ancora chiamato per dirmi come sta papà, in casa di riposo chissà come si sentirà, lui che ha girato il mondo. Non c’era mai, che padre era? Vediamo se ci sono messaggi sul cellulare. Ce n’è uno di Mariella. È una brava segretaria, un ottimo braccio destro, non gliel’ho mai detto. Mi dice di sbrigarmi, l’incontro è stato anticipato. Nessun messaggio di Massimo. Magari chiama stasera. Vorrei sapere come si trova. In fondo è mio padre, anche se ha tradito la mamma. Non gliela perdonerò mai di aver fatto soffrire la mamma, mai. Adesso chi è che bussa? Prego? Chi è? A moment, I open. E chi è questo?

Giovedì 2 luglio 2009

Incomincio a ricordare, mano a mano che le informazioni mi scorrono davanti. Ora sono solo nella sala computer. Quel seccatore di Giancarlo non è più tornato. Ho ricostruito tutto ormai, tutte le indagini, tutto quello che è successo. Lo avevamo arrestato il bastardo, non è stato facile, un sacco di rischi, notti insonni, anni ati. Il caso ci aveva completamente assorbito, la vita privata ne aveva risentito in modo forte. Soprattutto il rapporto con mia figlia. Ma a questo ora non voglio pensare. Non c’è tempo, c’è da fare, e alla svelta. Solana è troppo pericoloso per permettere che giri indisturbato. Vediamo… Si erano perse le tracce a New York, poi era stato ritrovato, grazie al mio gruppo di indagine. Adesso, a quanto pare, è di nuovo latitante, solo che questa volta è stato più bravo. Nessun indizio, nessuna traccia da seguire, niente di niente. Scorro il fascicolo e faccio fatica a trovare un'informazione da cui iniziare. Proprio nulla. Sono sconfortato. L’intera sua famiglia è scomparsa. Strano, ho come l’impressione che sotto vi sia una gran brutta storia. Ora sarà veramente arrabbiato, per questo bisogna trovarlo al più presto. “Signor Franti.” Dannazione. È l’infermiera antipatica. È venuta a cercarmi per il pranzo. “Su, forza, signor Franti, è ora del pranzo.” La riempirei di sberle, la befana. Falsa come Giuda. Zitella acida. “Un momento.” Non ci pensavo nemmeno al pranzo, ero completamente preso da Solana. Quanto odio questa vita da ospizio scandita dalla colazione, dal pranzo e dalla cena, sempre uguale, monotona all’inverosimile. Non ne posso più. Poi sono stato interrotto sul vivo, mentre facevo quello che più mi piace, ciò che mi fa sentire ancora scorrere il sangue nelle vene. Ora però il sangue mi va alla testa, dalla rabbia.

“Che modi, signor Franti. Meno male che io sono paziente. Adesso però venga a pranzo.” Per un istante mi sembra di scoppiare. Non posso perdere il filo, a mangiare posso andare più tardi, non ho fame e devo finire ciò che ho iniziato. “No.” “Non faccia storie, se no chiamo l’infermiere.” L’infermiere si chiama Marco, è uno sloveno di cento chili, un po’ taciturno. “Un momento.” So che il mio impuntarmi non può durare a lungo. Dove diavolo sei finita, Beatrice? Reprimo la rabbia ed esco dal file per poter estrarre la chiavetta. Sento che la disperazione mi assale. Che credevo di fare? Di tornare a essere un agente? “Bravo, adesso andiamo.” Quel suo trattarmi da bambino disubbidiente mi manda in bestia. Ma devo subire, se no arriva Marco. Sono in una prigione, a tutti gli effetti. La prigione si chiama vecchiaia. La vecchiaia t’impedisce di fare, di essere autonomo. Eppure dentro c’è ancora il fuoco di un ragazzo, che lotta invano per liberarsi da tutta questa carne flaccida e cadente. È un senso unico l’esistenza, non si pensa mai che non si può tornare indietro, ringiovanire a piacimento. Vorrei piangere, ma la puttana è ancora lì, sulla porta. Non le voglio dare la soddisfazione.

Giovedì 10 luglio 2008

Guardo la mia nuova stanza. È bella, non c’è che dire. Un letto grande, un arredamento moderno in legno chiaro, un colore caldo alle pareti. C’è anche un cucinino. Il bagno è enorme. Quanto avrà speso Massimo? C’è persino un televisore a schermo piatto, come se non bastasse quello di chissà quanti pollici che ho visto durante il tour con Beatrice. Ho l’impressione di stare in un albergo, di essere in vacanza. Come quando facevo i miei viaggi in giro per l’Europa. Ci saranno microspie? Non ho con me il rilevatore. Ma che sto dicendo? Mi viene da sorridere per la mia ingenuità. In effetti la novità mi attira. Sono in un posto confortevole, trattato come un nababbo. In fondo non è così poi male. E poi c’è Beatrice, che mi fa sentire come un re. Cosa voglio di più? D’un tratto sono di buonumore: voglio godermi questo lusso. Dopotutto me lo sono meritato, con tutti i sacrifici che ho fatto. Decido di andare a farmi un bagno nella piscina che ho visto dieci minuti fa. Ma sarò capace di ritrovarla? Questo ospizio è un labirinto e da solo mi perderei. Prendo il telefono e pigio il tasto. Attendo. Di là la voce di Bea mi fa tornare ancora una volta uno stupido adolescente. “Vorrei… andare in piscina.” “Vedo che si sta già ambientando, Giovanni.” Non le rispondo. Ho il fiato troppo corto per farlo. “Adesso però sta per chiudere. Può andarci oggi pomeriggio.” E intanto che faccio? Lo dico ad alta voce, senza accorgermene. “Ma ce ne sono di cose da fare.” Dal tono non sembra molto convinta. Per un istante rimane in silenzio, mi

sembra di vedere i suoi occhi luminosi. “Arrivo appena posso, Gianni.” La comunicazione s’interrompe. Per quale motivo mi sta così a cuore questa ragazzina? È solo mezz’ora che la conosco, o poco meno. Chissà cosa mi salta per la mente. Mi aspetto che arrivi da un momento all’altro con l’entusiasmo di un adolescente. Ecco che bussa alla porta. È lei. Il cuore mi batte a mille. Non è Beatrice. Mi vorrei uccidere. È un ospite che probabilmente vuole darmi il benvenuto. Dannazione, quando arriva Beatrice? E questo che cavolo vuole? Voglio stare solo con Beatrice, voglio fare all’amore con lei, voglio averla solo per me. “Buongiorno. Io sono Giancarlo Pellizzeri.” “Buongiorno.” Non mi viene di allungare il discorso. Segue un silenzio imbarazzato, che io cerco di mantenere il più possibile, a costo di essere maleducato. Non mi va proprio di parlare con questo ebete. “Lei? Il suo nome, intendo.” “Giovanni.” Chissà perché gli ho detto dritto il mio nome. Solitamente quando non voglio dare confidenza mi presento col cognome. Non lo so, mi è scappato fuori. Non voglio stare un minuto di più con questo scocciatore. “Cosa le è successo?” Allude alla mano che non ho? Possibile abbia così poco tatto? Sta fissando il mio moncherino, non c’è alcun dubbio che alluda alla mano, questo fetente. “Ah, un incidente.” “Un incidente?” Lo vorrei ammazzare. Prevale, ma di poco, l’autocontrollo.

“È una storia lunga.” “Me la racconta? Ci diamo del tu?” “Niente di bello, Giancarlo.” “Beh, un giorno me lo racconterai.” Prima che giri i tacchi e se ne vada mi fa un sorriso, come per dire “ho pazienza, prima o poi me lo racconti”. Si richiude la porta dietro di sé e io torno a essere solo. Strano uomo, rifletto. Ha un volto che prenderei a schiaffi con la mano rimastami, è un seccatore, un pettegolo che non è capace di farsi i fatti suoi. Ha un’espressione odiosa, come odioso è il timbro della sua voce. Non mi ha fatto niente, a parte la domanda inopportuna, eppure lo legherei a una sedia e lo torturerei, per il solo gusto di farlo. Ma devo ammettere che ha coraggio: è il primo che mi chiede direttamente e senza tanti giri di parole la causa della mia menomazione. Beatrice tarda. Sarà stata chiamata da qualcuno che aveva più bisogno di me. Ecco che bussa. “Scusi Giovanni, ma ho avuto un’urgenza.” Siamo in una struttura che ospita persone vicine alla morte, anagraficamente parlando e non solo. Tendo a dimenticarmi di questo, come tendo a dimenticarmi che anch’io faccio parte di questo club. “La piscina è chiusa ma la posso portare in palestra. Le faccio fare un po’ di cardiofitness.” D’un tratto mi pento di avere desiderato di are del tempo con questa fanciulla. Mi procura un infarto questa qui. Ma voglio vedere a che punto può arrivare, quasi mi diverte l’idea di stramazzare a terra per eccesso di ginnastica. “Le piace andare in bici, Giovanni?” Adesso mi fa fuori sul serio. “Pronti che andiamo.”

“Sono un po’ stanco.” “Ma su, è appena arrivato.” Appunto, non è stata già abbastanza scombussolata la mia esistenza oggi? Quasi mi arrabbio, ma prevale il fascino acerbo di Beatrice. Sono alla sua mercé. “Su, pedali.” E che pedalo. Sono un vecchio di ottant’anni, cosa cavolo mi fai pedalare. E intanto pedalo. Continuo a pedalare. E ancora. Non mi fermo più. “Ancora, pedali Giovanni.” Mi sembra di pedalare da un mese. Eppure non mi ricordo di essermi spostato in una palestra. Tra l’altro questa mi sembra diversa da quella che avevo visto. Intanto che faccio questa considerazione continuo a pedalare. Beatrice ora è diversa: s'è cambiata il vestito. Indossa un abito da sera. Ma come? Ha il viso di mia nuora e mi sorride. Non mi sono mai sentito così rilassato, continuo a pedalare ma non faccio fatica, è come se fossi su un motorino, intorno vedo prati fioriti. Mi sveglio. Dopo che lo scocciatore se ne era andato mi ero coricato un attimo. Sono partito subito e ho sognato. Dopo lo scocciatore non è arrivato più nessuno.

Domenica 10 luglio 1997

Stanno scorrendo i titoli di coda. Mi sono addormentato. Mi dispiace perché era un bel film. Alla mia età faccio sempre più fatica a rimanere sveglio, specie se mi metto sul divano. Parto come un bambino. Non mi resta che trascinarmi a letto. Non voglio. Quel posto vuoto accanto al mio. Non ci ho ancora fatto l’abitudine. Ma ho bisogno di riposo, domani mi aspetta un giorno impegnativo. Questo Solana ci darà filo da torcere, me lo sento. Mi abbandono sul materasso. Sento freddo, come è possibile in questa stagione? Il mio corpo suda: quello che provo è un freddo mentale, dovuto all’assenza di calore umano. Spengo la luce, per un po’ rimango con gli occhi aperti, non voglio riaddormentarmi. Ho paura. Un uomo grande e grosso come me ha paura? Di cosa? Forse dell’ignoto, di ciò che non è del tutto controllabile con la ragione. Come i sogni. Io non voglio sognare, so già che lei mi verrebbe a trovare, che io m’illuderei di averla ancora accanto a me, che i contorni del sogno, così netti, così distinti, domattina si dilegueranno lasciando il posto a una profonda amarezza. Non voglio chiudere gli occhi.

Martedì 3 luglio 1984

Abbiamo scavalcato il muro. Non si torna indietro. Rimaniamo uniti, con cautela attraversiamo il giardino e raggiungiamo la villa. Ora l’attrezzatura di Luca non ci serve più. Mi avvicino alla porta-finestra per poter vedere. La porta-finestra si apre all’improvviso. Non ho il tempo di pensare, vengo preso e tirato dentro. Mi arriva un pugno in faccia senza che faccia in tempo a scansarmi. Mi trovo per terra, con la mano destra mi massaggio la mandibola. “Era ora che arrivassi.” Luigi è una maschera di sangue, ma non sono riusciti a cancellare il suo sorriso da ragazzaccio. È stato legato su una sedia con del nastro adesivo argentato. “Smettila di fare il buffone, una buona volta.” Un calcio nel fianco mi fa capire che non mi è stato dato il permesso di aprir bocca. Forse una costola si è rotta. Mi pare di aver sentito un crack. “Bastardi.” Anche Luigi si prende la sua razione, non ne ha avute abbastanza a quanto pare. I miei due compagni di spedizione sono ancora fuori, per fortuna. Sono la nostra unica speranza. Luca, datti da fare, chiama gli altri, maledizione. Un altro calcio, stavolta però oppongo il braccio. Il risultato è una fitta bruciante, però non si è rotto niente. Adesso riesco a vedere le facce. Uno di loro mi fa rabbrividire: il suo volto inespressivo non sembra nemmeno umano. “Voi adesso la pagate. Questa è invasione di proprietà, o mi sbaglio?” La sua voce, non so perché, mi gela il sangue. Forse è la calma estrema con cui parla che mi fa paura. Ha un tono da conversazione amichevole mentre ci minaccia.

“Certo questo sciagurato non è arrivato da solo. Alfonso, prendi Klaus e Antonio e guardate in giardino.” I tre si muovono all’istante. Mentre escono dalla stanza estraggono le loro pistole dotate di silenziatore. La cosa si mette davvero male. Guardo Luigi: anche lui lo ha capito. Spero nell’addestramento dei miei uomini, ora più che mai. “Adesso vediamo quanti siete.” Segue un momento di silenzio in cui quasi trattengo il fiato. La nostra vita dipende da come si comporterà la mia squadra, io non posso che affidarmi del tutto a loro. Che sciocco, sono stato fregato come un pivello. Siamo nel salotto della villa, arredato in maniera moderna. Io sono per terra, rannicchiato su un tappeto beige. È sporco di sangue, del mio forse. Fuori si sente un trambusto. I quattro che ci tengono in ostaggio hanno un’aria preoccupata, lo stesso noi due. La porta d’ingresso si è spalancata d’improvviso: si sente il rumore secco del legno che sbatte violentemente. I quattro si trovano spiazzati, no, non tutti. Il loro capo ha la prontezza di riflessi di puntare la sua pistola contro di me. “Ah, ah. Attenzione. Cosa credete di fare? Faccio saltare le cervella al vostro capitano.” La sua voce rimane tranquilla, è la voce di chi ha il completo controllo del proprio stato d’animo. Tenendo d’occhio Rampani e Polini si è avvicinato lentamente a me e mi ha fatto alzare. Ora tiene appoggiata la pistola alla mia tempia. Rampani e Polini tengono comunque spianate le armi: bene, mantengono il sangue freddo, ora è necessario tenere il sangue freddo. “Allora non avete capito. Come devo dirvelo?” Questo non ha paura di nulla. Sono impietrito, ora mi ammazza.

Quarantacinque anni prima

Dov’è Gianni? Ha detto che si fermava un po’ di più al lavoro. Maledizione, perché me lo chiedete, so quanto voi. Siamo tutti a tavola e lui non c’è ancora. Lo so, mamma, lo so che non va bene che lavori così. Vedrete che tra cinque minuti è qui, non bisogna preoccuparsi. Dannazione, perché non arrivi?

Sabato 11 luglio 2009

Mi sono divertito. Faccio fatica ad ammetterlo ma è così. È la prima volta che mi sento veramente rilassato da quando ho messo piede qua dentro. Mi alzo dal letto fresco e riposato, ho addosso un’energia tale che andrei a fare venti chilometri sulla cyclette. Vado alla finestra e tiro su la tapparella. Riesco a sentire una lieve brezza, mi lascio accarezzare il volto. Sono quasi felice di stare in questa prigione. Sto per uscire dalla stanza, ma è presto, mi dico. Non ho mai avuto così premura di andare a fare colazione. Perché mai? Perché voglio vedere qualcuno. Una faccia amica, con cui parlare. Marta, non so cosa mi succede. Sembra che ieri sera sia avvenuto un cambiamento in me. Percorro leggero il corridoio. Incrocio l’infermiera odiosa e le sorrido: ha un’espressione stupita, l’ho spiazzata a quanto pare. Arrivo alla sala; per un istante indugio a entrare: non è da me arrivare così presto, in un momento mi sto giocando tutta la mia fama di burbero e di orso che con fatica mi sono creato. Non è da me, mi ripeto divertito, ed entro. Come prevedibile gli ospiti mi guardano un po’ stupiti. Prendo posto, ma stavolta cambio zona. Non più un tavolo defilato ma in centro alla sala, come se volessi farmi notare. Ed ecco che qualcuno mi nota. “Buongiorno, mio bel ballerino.” Dio mio, è Pina, viene dritta da me e io non posso farci niente. Bravo che sono stato, potevo addirittura sventolare il tovagliolo già che c’ero. “Buongiorno, ho detto. Non ti devi vergognare, sai?” Io? Vergognarmi? Di cosa? D’un tratto arrossisco, mi viene voglia di sprofondare sotto terra. “Di… che… cosa…”

“Ma di noi due, slambrottone.” Noi due? Cado dal pero. Da quanto ricordo abbiamo solo ballato, non ci siamo fidanzati. La parola fidanzati a questa età è ridicola. Come cavolo ti esprimi, rimbambito? Di colpo ritorno rigido, tutto lo slancio che avevo viene meno. Ma davanti a me Pina non molla. Ecco che si è seduta. Tutti ci guardano. Non posso certo cacciarla, tantomeno alzarmi e cambiare di posto. “Allora non dici niente?” “Cosa devo dire.” “Lo sai, slambrottone. Alla nostra età cosa vuoi, girarci intorno?” “Abbiamo solo ballato.” “Sì, è vero. Ma adesso siamo insieme.” Mi viene un colpo. Questa è tutta matta. Cerco una via di fuga, non so che fare, mi agito sulla sedia come se avessi una serpe che mi sale su per la maglietta. Per aumentare l’effetto delle sue parole Pina appoggia la mano sul mio moncherino. Non ci vedo più e mi alzo di scatto. Non so cosa mi prenda, me ne vado dalla sala per tornare nella mia stanza. L’infermiera antipatica mi segue minacciandomi di chiamare Marco. Non le do retta e proseguo verso la mia stanza, incurante del pericolo. Sono confuso e arrabbiato. Sbatto la porta e mi barrico nel mio appartamentino. Sento i i di qualcuno che arriva: è l’infermiera, e con lei c’è Marco. Ora verrà aperta la porta e Marco verrà da me con le buone: ho già visto come si comporta osservandolo in azione con altri ospiti agitati. Non mi dice nulla di buono. D’istinto prendo il cellulare e chiamo Massimo.

“Papà, cos’hai? Perché chiami a quest’ora? Cos’è successo?” Resto col cellulare in mano, non riesco a dir niente. E cosa gli dico, di venirmi a prendere come un bambino che non vuole stare all’asilo? “Pronto! Mi fai preoccupare! Cos’hai?” “Niente. Scusa. Ho sbagliato.” Riattacco e spengo il cellulare. Ora sono nelle mani di Marco.

Giovedì 9 luglio 2009

Come fa ad avermi trovato? Il primo pensiero che faccio è “adesso mi ammazza”. Non muovo un muscolo. L’ombra si avvicina a me mostrando la sua cicatrice. È silenziosa, non si sente mentre si muove. Che sia tutta un’allucinazione? “Che pensi, che stai sognando, stronzo?” Sono pietrificato, non mi esce nemmeno la voce per urlare, per chiamare aiuto. Non riesco quasi a respirare. “Adesso ti stacco la testa, vengo lì e ti ammazzo.” Ma è reale? Come può essere? Incomincio a ragionare, certo è difficile in una situazione simile, ma sento che per uscirne non posso che usare la testa. Solana mi sta minacciando di morte in un corridoio di una casa di riposo, nel bel mezzo della notte. È un edificio controllato, soprattutto a quest’ora: vista l’instabilità mentale di molti ospiti bisogna stare attenti. Intanto che medito pare che Solana o chiunque sia non accenni più ad avvicinarsi ma si accontenti di stare nella penombra, mantenendo la minaccia a livello verbale. Poi diviene silenzioso, quasi stesse ad ascoltare il mio ragionamento. Non può essere qui, è impossibile. “Impossibile? Ti faccio vedere io impossibile, bastardo.” Il suo intervento mi fa trasalire, poi recupero il controllo dei miei nervi e proseguo nella mia riflessione. È tutto nella mia testa. Un’allucinazione, o giù di lì. Me lo ripeto per darmi coraggio, ma è tale l’impressione che sia tutto reale che non riesco a tranquillizzarmi. Tremo come una foglia. Ecco che l’ombra torna a muoversi, punta dritta verso di me, lentamente,

inesorabilmente, mentre io sono inchiodato e non riesco a muovere un muscolo. Di nuovo si ferma: strano, mi sembra che la distanza da me non sia cambiata. Eppure si è avvicinata. “Giovanni, tutto bene?” Mi volto in direzione opposta alla visione. È Giancarlo in pigiama: lui, ne sono certo, è reale. “Cosa ci fai alzato a quest’ora?” “Non lo vedi?” “Cosa dovrei vedere?” “Là in fondo, non vedi un uomo?” “Là in fondo dove? Non vedo nessuno io.” La presenza di Giancarlo mi restituisce coraggio, il sangue torna a scorrermi nelle vene. Mi giro di nuovo verso la minaccia: porca puttana, è ancora lì dove l’ho lasciata. “Gianni, stai calmo. Adesso a.” Il tono di Giancarlo vuole essere il più rassicurante possibile; intanto fa qualche o verso di me tendendomi il braccio, come se temesse qualche mia strana reazione. “a cosa, dannazione!” Ecco cosa a: il mio delirio. D’improvviso realizzo che non c’è nessuno a minacciarmi e che io sono vecchio e la mia testa gira a vuoto perché i suoi ingranaggi sono consumati dal tempo. Un groppo alla gola mi costringe a piangere. Piango, piango come un poppante e le lacrime allentano la tensione dei miei nervi. “Adesso calmati e torna a letto. Non fare così. a sempre, è che non sei abituato.”

Giancarlo mi prende per il braccio e mi riaccompagna nella mia stanza. Ho deciso di ignorare il fantasma di Solana: andandomene gli volto le spalle e non gli do più importanza.

Mercoledì 8 luglio 2009

Dove mi portano? Ho paura, perché io? Dove mi portano? Non voglio morire. Vorranno un riscatto? Quest’uomo sembra un diavolo, con quella cicatrice sulla faccia. Non voglio morire. Qualcuno mi aiuti. Papà, cosa hai combinato, lo so che dietro tutto questo ci sei tu, lo sapevo che prima o poi finiva male. Maledetto te e il tuo lavoro. Per me è finita. Dio aiutami. La macchina si è fermata. Qualcuno mi tira fuori. Non vedo niente, c’è buio. Devo scappare ma come? Sono legata mani e piedi. Papà, dove sei? Aiutami, papà!

Giovedì 2 luglio 2009

Ho obbedito e sono andato a mangiare. In realtà non ho toccato cibo: oggi non ho fame. Ho scelto il mio solito posto: nell’angolo, da solo, vicino alla finestra. Così posso guardare fuori ed evitare che l’occhio cada sui miei simili. “Ma Gianni, non hai mangiato niente. Non stai bene?” Mi si allarga il cuore: Beatrice ha iniziato il suo turno e ora è qui davanti a me. Vuol dire che è l’una ata: infatti ormai anche l’ultimo ospite escluso me ha levato le tende, me ne accorgo solo ora. Non mi viene di dirle niente, sono ancora irritato con la sua collega. “Come sei silenzioso, Gianni. Dai che ti accompagno al tuo alloggio.” Alloggio? Ma come parla? Come se fossimo su una nave da crociera; in effetti si sta effettivamente facendo un viaggio qui dentro, per la precisione l’ultimo della nostra vita. Per quanto lussuoso sia questo transatlantico con la chiglia infilzata nella collina, la destinazione è il nulla, la fine. “Sì, un momento.” “Tranquillo, non c’è fretta.” “Allora posso stare ancora un po’?” “Adesso bisogna sparecchiare, Gianni, lo sai.” “Solo un minuto.” Beatrice rimane in silenzio, i suoi grandi occhi azzurri fissi su di me, le braccia incrociate come se fosse pronta a sgridare un bambino un po’ discolo. Poi si scioglie in un sospiro. “E va bene, ma solo un minuto.” Si siede davanti a me e tira fuori il cellulare. Intanto che a il minuto legge un

messaggio e il suo viso s’illumina. Che bella gioventù. Gli avrà scritto il suo moroso ed è tutta contenta. È lontana anni luce dal comprendere il mio disagio, ma la sua ingenuità ha l’effetto di alleggerire il mio spirito. “Va bene, andiamo.” Faccio per alzarmi quando Marco, l’infermiere, entra nella sala. Punta dritto verso di me e la cosa mi preoccupa non poco. “Stava per tornare nel suo alloggio, Marco, non serve che tu intervenga.” Beatrice si rivolge al suo collega con tono seccato: evidentemente neanche lei lo trova simpatico. “Andiamo Gianni, è ora.” “Di cosa t’impicci, Marco? Si sta già alzando.” Marco le sorride di traverso. Beatrice sostiene il suo sguardo per un lungo, interminabile istante; alla fine l’ha vinta lei e Marco se ne va con la sua espressione stupida. “Che pezzo di merda.” Quanto sono d’accordo con lei, quanto odio quell’enorme stronzo. Mi alzo e Beatrice mi prende a braccetto. “Adesso ti porto a fare un giro.” “Dove?” Non mi risponde. Non mi sta accompagnando al mio alloggio ma ci stiamo dirigendo verso l’uscita. Cosa diavolo ha in mente questa ragazzina? Adesso si mette nei guai. “Gianni, cammina e fa’ finta di niente. Ti porto a fare un giro in città.” “Ma non sono neanche vestito, almeno fammi mettere una camicia…” “Stai benissimo, e poi fa caldo, non ti nota nessuno.”

Ho indosso solo una maglietta e un paio delle braghe di cotone di mia figlia.

Giovedì 10 luglio 2008

Sono un po’ intontito. Vado in bagno e mi sciacquo la faccia; ho la bocca impastata: bevo un sorso d’acqua fredda dal rubinetto, prima di mandarla giù la tengo per un attimo in bocca. Ultimamente mi capita spesso di appisolarmi durante il giorno: pare che il mio corpo abbia bisogno di sempre più riposo e se lo prende da solo, senza il mio permesso. Quanto odio quando non sono padrone delle mie azioni, ultimamente mi succede spesso; è una cosa che non sopporto. Che ora è? Ho perso la cognizione del tempo. Cerco il mio orologio: dove diavolo l’ho cacciato? Per fortuna, si fa per dire, lo posso ancora portare sul polso rimasto intero; quando sono entrato nella mia stanza probabilmente me lo sono tolto. Guardo nel cassetto del comodino: niente; mi abbasso per vedere se è finito sotto il letto: niente. Dove diavolo è finito? Con quello che è costato, dannazione. Dopo una lunga ricerca mi siedo sul letto sconfortato. E adesso? Come lo dico a Marta? Me l’ha sempre detto che sono distratto, che mi dimentico le cose in giro. Devo assolutamente trovarlo, se no mi tiene il broncio per tutto il giorno. Ma che dico? Marta è morta. Come è che confondo la realtà con la fantasia? Mi arrabbio con me stesso, cosa pretendo di indagare, che lucidità posso avere per ragionare su un caso, stupido vecchio rimbambito? Poi mi ricordo che non lavoro più, sono in pensione. Perché mi arrabbio? Mi sento impotente di fronte a questo franare della mia mente. Suona il cellulare. “Allora come ti trovi, nonnino?” Luigi, che bello sentirlo. “Sì… Non è male…” “Me l’ha detto il tuo figliolo che ti sei trasferito. Se aspettavo te, buonanotte che sapevo che eri lì.”

“Mi sono dimenticato di dirtelo.” In realtà non avevo il coraggio di far sapere al mio ex collega che mi rinchiudevano in un ospizio; speravo che non venisse mai a saperlo. Sono uno sciocco: prima o poi l’avrebbe scoperto, non appena fosse venuto alla mia vecchia casa e non avesse trovato anima viva. “E tu credi che non sarei riuscito a scovarti? Meno male che Massimo non ha preso da te, orso che non sei altro.” “Quindi Massimo ti ha chiamato?” “Sì. Era preoccupato per te, per come l’avresti presa questa storia della casa di riposo.” “E ti ha chiesto di chiamarmi?” “L’avrei fatto comunque. Come? Non mi conosci abbastanza da sapere che io non abbandono il mio collega preferito? Mi potrei arrabbiare, sai?” Luigi è sempre ato da me dopo che sono andato in pensione. Devo ammettere che è solo per sua iniziativa che ci sentiamo e vediamo ancora. “Insomma volevi sbarazzarti di me, eh, Gianni? Ma a quanto pare non è così facile, caro il mio vecchierello. Ti vengo a trovare non appena mi libero. Va bene la settimana prossima?” “Va bene.” Vorrei dirgli “fesso, sono ospite di una casa di riposo, che bisogno c’è di chiedermi se va bene? Tanto sono libero ventiquattro ore su ventiquattro, non è che sia particolarmente impegnato in qualche attività, a parte il mangiare e il dormire”. Una volta l’avrei strigliato per una domanda stupida come questa, ma stavolta rimango in silenzio, attendendo il suo saluto finale. “Allora alla settimana prossima. Forse riesco addirittura lunedì. Massimo mi ha già dato gli orari di visita.” Come in prigione, mi viene da pensare.

“Ora ti devo lasciare. Vacci piano con le infermiere, Gianni.” “Sì… Ci si vede.” Luigi interrompe la comunicazione. Rimango per un istante con il cellulare in mano. Mi sono sentito imbarazzato. Potevo dirglielo, cosa cambiava? Lo ha sempre detto Marta che il ragazzo ha un carattere d’oro. Spengo il cellulare e lo appoggio sul comodino. La telefonata di Luigi mi ha rinfrancato: se viene a trovarmi mi parla sicuramente di lavoro, così magari mi tiene aggiornato. Trovo l’orologio: ce l’ho al polso. Ecco Beatrice. “Come si trova? Ha riposato un po’? Vuole fare un altro giretto? La porto in un posto che non ha ancora visto.” Come dirle di no? Mi alzo automaticamente dal letto su cui ero seduto e mi lascio prendere a braccetto dalla favolosa Bea.

Lunedì 11 luglio 1997

Ho dormito profondamente. Non credevo che avrei chiuso occhio stanotte, con tutto quel pensare. Mi volto per raggiungere l’interruttore della luce e sento un tonfo: è il dossier su Solana che è caduto per terra. Non mi ricordavo più che dopo il film me lo ero portato a letto per leggerlo ancora un po’. Sfogliare il fascicolo ha avuto l’effetto di distogliermi dai cattivi pensieri: così ho potuto prendere sonno. Ringrazio il buon Solana per la dormita e infilo le ciabatte ai piedi. Faccio colazione, mi lavo e scatto verso l’ufficio. Mi sento in forma stamattina, fresco e lucido. Salgo sulla mia BMW modificata e mi getto nel traffico mattutino. Tengo il dossier sul sedile del eggero; mentre sono in fila al semaforo ne approfitto per darci ancora un’occhiata. “Sei qui prima del solito, collega.” Luigi tiene le braccia incrociate e sta appoggiato allo stipite della porta, come per dire “è inutile che cerchi di arrivare prima di me, vecchietto”. “C’è molto da fare, Luigi, un sacco di roba.” “Allora andiamo alla mia postazione. Hai letto?” “Sì.” “Hai un'ispirazione, ormai ti conosco.” “Andiamo al tuo computer, ho bisogno di rivedere un dato.” “D’accordo, capo.” Sinceramente non so nemmeno io di preciso quale dato abbia bisogno di rivedere; più che altro è un modo mio di parlare, dico sempre che voglio rivedere un dato quando inizio una ricerca. “Vediamo… New York. Ci serve sapere il momento esatto in cui è scomparso, è

importante saperlo per ricomporre i pezzi del puzzle.” “E come facciamo?” “Bisogna risalire alle sue abitudini, alla sua giornata tipo a New York, a chi frequentava ogni giorno.” “Una parola, Gianni. E come diavolo facciamo?” “Ci sto pensando.” Mentre parliamo ci dirigiamo verso la postazione di Luigi; i colleghi intorno sono tutti indaffarati: c’è fermento stamattina, chissà perché. Siamo arrivati alla scrivania di Luigi: lui mi invita a sedermi sulla sua sedia, poi ne recupera un’altra per sé. Serve ricostruire ogni movimento del nostro uomo prima della sua sparizione: solo così possiamo avere una base su cui lavorare. Luigi apre il file e attende un ordine da parte mia: devo darglielo, se no che figura ci faccio? Muoviti Gianni, non deludere il tuo allievo. “Ehm. Ho bisogno del profilo di chi ha visto Solana appena prima che scomparisse.” “D’accordo Gianni. Ma non hai già letto nel dossier? Lì c’è tutto, dovresti sapere già.” “L’ho letto che era tardi, non mi ricordo bene ogni cosa. Dannazione Luigi, hai voglia di rompere già di prima mattina?” “Ho solo detto che…” “Lo so cosa hai detto, dammi tregua, ragazzo. Quei dati, forza.” Luigi ora è contrariato, rimane in silenzio ed esegue l’ordine che gli ho dato. Poi gli scappa un commento tra i denti: “Che maniere…” Ha ragione a lamentarsi; non so proprio come faccia a sopportarmi. Incasso e sto zitto, attendendo che Luigi riprenda la parola.

“Ecco le schede degli ultimi tre testimoni che hanno visto Solana a New York: Adrian Smith, John Jefferson e Linda Mantivano. L’ultima fa la escort e non è affatto male. Vuoi vedere qualcos’altro di lei?” “Se serve all’indagine, sì.” “A quanto pare a Solana piace divertirsi. Il giorno prima che svanisse nel nulla era in compagnia di Linda.” “Potremmo cominciare da qui. Come facciamo a rintracciare questa prostituta?” “Beh, un’idea ce l’ho.” “Cioè?” Luigi si avvicina a me e si mette a parlare a bassa voce. “Potrei chiamarla, così, per una serata con lei. Potrebbe dirci di più davanti a una bottiglia di spumante. Che ne dici, Gianni?” Incrocia le mani dietro la nuca e mi sorride soddisfatto. “Non scherzare, Luigi. Gli altri due?” “Ah, l’autista e lo psicologo? Non è uscito molto da loro. Sai, ci si è portati avanti, sono già stati sentiti nella nostra filiale americana, se l’agenzia aspettasse i tuoi comodi… Linda invece non è stata ancora convocata.” Chissà perché, mi domando. “Ti stai sicuramente chiedendo per quale motivo un testimone così importante come Linda non venga interrogato.” “Già.” “Ordine superiore, Gianni. E sai, coi tempi che corrono ci mancherebbe che mi fi licenziare per aver disubbidito. Però se si fa come dico io, nessuno…” “Di chi è stato l’ordine?” “Del tuo caro amico.”

Luigi torna a parlarmi a bassa voce. “Borlotti.” Il vicedirettore dell’agenzia. Quanto odio quel figlio di buona donna. “Siamo con le mani legate, lo capisci Gianni? Ho l’impressione che qua dentro qualcuno stia remando contro questa indagine. Dobbiamo trovare una strada non convenzionale se vogliamo procedere. Ho già il numero del cellulare di Linda, basta che la chiami e fissi un appuntamento. Credimi Gianni, non abbiamo altra strada.” Sono solo cinque minuti che ci siamo messi al lavoro sul caso e Luigi mi ha già sconvolto. È questo che apprezzo soprattutto di lui: la sua capacità di spiazzarmi. La sua idea sembra stupida ma potrebbe anche funzionare: a volte non serve un cannone per ammazzare una zanzara, come più o meno diceva Confucio. Ma è rischioso, si rischia di perdere il posto. Rimango un attimo a riflettere, davvero non so che fare davanti alla proposta di Luigi. Decido di prendere tempo. “Vediamo se nelle registrazioni delle telecamere di sorveglianza della città è stato trovato qualche indizio interessante. Prima di prendere una decisione affrettata voglio capire se si può trovare un’altra strada.” “Ah, beh. Aspetta… Ecco qua, tutte le registrazioni dell’ultimo mese a New York: è un bel malloppo e, a quanto pare, Solana non si è mai visto. Un fantasma.” “Dobbiamo controllare ancora, Luigi. Magari è sfuggito, magari era travestito.” “Magari si è fatto fare l’ennesima operazione di chirurgia plastica.” “In una clinica della città?” “Non credo. Tra l’altro dubito che si sia fatto operare negli Stati Uniti.” “Perché dici così” “Perché il nostro uomo è molto attento e scrupoloso in materia di

mimetizzazione. Se si è fatto rifare i lineamenti è andato sicuramente in una clinica brasiliana.” Il Brasile è noto per la sua eccellenza nella chirurgia plastica, questo è vero. “Fammi fare la telefonata, Gianni. Così perdiamo solo tempo.” “Aspetta, non essere impulsivo. È impossibile che non ci sia un’altra pista…” “L’ha visto l’ultimo giorno, Gianni. Ora come ora, mossa migliore non può esserci.” “E se lei non sa niente? Perché c’è anche questa ipotesi, se lui non le ha detto nulla siamo al punto di partenza. E se qui dentro qualcuno scopre che è stata avvicinata per noi sono guai.” Vorrei buttare giù la porta dell’ufficio di Borlotti e chiedere spiegazioni dopo avergli sputato in faccia. Ma Marta non sarebbe d’accordo, lo so. “Se non si ficca dentro il naso non si può sapere, me lo hai insegnato tu, Gianni.” “So io come fai a ficcare il naso, Luigi. Te lo rompi sempre, testa dura che non sei altro.” Rimango per qualche secondo con lo sguardo fisso sullo schermo; in realtà guardo nel vuoto, meditando sulle conseguenze di ciò che sto per dire a Luigi. “E va bene, facciamo come dici tu.” “Grazie capo, non te ne pentirai.” “Me ne sto già pentendo, ragazzo. Hai già un’idea di come muoverti?” “Adesso vado alla toilette e la chiamo. Non vedo l’ora di collaudare il mio nuovo trial band. Che ne dici, non è un piano brillante?” Sono finito. Ho appena dato carta bianca a questo sciagurato, non so perché non ho opposto praticamente resistenza alla sua proposta. È che sono vecchio, mi viene da pensare, ho perso lo smalto di un tempo, adesso non sono più capace di tener testa all’irruenza di un giovane.

“Vado e torno, Gianni, non te ne pentirai.”

Martedì 3 luglio 1984

È una dannata situazione di stallo: Rampani e Polini tengono ancora le armi puntate, io rimango col tizio che mi appoggia la canna della sua pistola sulla tempia. È vicinissimo a me, dovrei sentire il respiro ansimante di chi è preoccupato, invece niente: è tranquillissimo, dio mio. Chi è questo diavolo, mi chiedo. “Allora? Cosa aspettate a posare le armi, bei bambini?” “Non cedete, è un ordine!” D’improvviso ho sentito un forte dolore alla testa e mi ritrovo per terra: mi è arrivato un colpo col calcio della pistola. Ora l’aguzzino si è portato da Luigi e mi guarda divertito dall’alto. “È ancora valido il tuo ordine, amico mio?” “Non sono tuo amico.” “Sei pronto a sacrificare il tuo uomo, allora. Di’ loro di lasciare il ferro, subito.” Non ho scelta. “Forza, fate come dice.” “Ma capo…” “Fate come dice, maledizione!” Rampani e Polini lentamente si abbassano e appoggiano delicatamente la loro Beretta d’ordinanza sul parquet. Uno dei tre scagnozzi le raccoglie. “Bene, bravi bambini. Ci voleva tanto a ubbidire?” “Falla finita, bastardo figlio di puttana. Non fai paura a nessuno.” Per tutta risposta Luigi riceve un manrovescio.

“Capitano, non hai insegnato al tuo uomo a tenere la lingua a freno.” “Smettila di fare l’eroe, te l’ho già detto. Fammi il piacere, non parlare per un po’, d’accordo?” Luigi mi guarda: leggo nella sua espressione lo smarrimento di un ragazzino che si è cacciato in un grosso guaio. Non posso permettere che questo essere viscido ponga fine alla sua, alla mia, alla nostra esistenza. “Che ne dici di fare un accordo?” Lui mi guarda incuriosito. “Cosa intendi per accordo? E poi non mi sembra che tu sia nella condizione di proporne uno. Che ne dite ragazzi, il capitano può proporre un accordo?” I suoi ragazzi rispondono con una risata, subito interrotta da un gesto del loro padrone. “Vede, capitano, ho a che fare con delle scimmie ammaestrate, magari avessi i suoi uomini, a parte quello che parla troppo. Sentiamo cos’ha da propormi, su, sono curioso.” Ha abboccato, mi dico. Forse c’è una speranza, è una pazzia ma è l’unica possibilità di salvezza. “Beh, vediamo… Tu ci lasci liberi e io ti faccio un lavoretto con i fiocchi. Che ne dici?” “Hai firmato la tua condanna a morte, capitano.” “Allora? Sono bravo, sai?” Per la prima volta leggo una punta di stupore nella sua espressione: sono riuscito a spiazzarlo a quanto pare. Ora inizia a essere a disagio. “Sei ammattito capitano? Cosa diavolo dici? La tua proposta è sconveniente, non credi?” Sconveniente. Vuole dire che in un’altra circostanza sarebbe conveniente. Ti ho

beccato, sei omosessuale. Lo sapevo. Luigi mi guarda con gli occhi fuori dalle orbite, lo stesso Rampani e Polini. Anche gli altri tre sono stupefatti. Se non fosse stato gay non avrebbe dato alcun segno di nervosismo, lui che è la flemma fatta persona. “Sto aspettando, amico. Anzi, sai cosa ti dico? Il mio amico è più bravo ancora, te lo dico per diretta esperienza.” “Gianni… Cosa cavolo… Sei impazzito del tutto?” “Su, provalo, ne vale la pena. Prima di ammazzarlo, se no è difficile che possa muovere la sua bocca.” Parlo tranquillo, ma sono terrorizzato per quello che potrebbero provocare le mie parole. Spero solo che la situazione si smuova, non so come ma magari si può aprire uno spiraglio. “Sì, dici che è bravo? Allora è un peccato farlo fuori, mi perderei una bella occasione.” “Fai tu, io te l’ho detto.” D’un tratto vedo la sua pistola che si abbassa e si allontana, anche se di poco, dalla nuca di Luigi. Un tentennamento: è ciò che volevo provocare. “Non mi freghi, sai. Vuoi giocare con la mente, capitano, non sono stupido. Non me la fai…” “Può essere, come può essere che io e il mio amico siamo pederasti. E tu? Non ti va di divertirti prima di farci secchi?” La pistola si abbassa ancora di un centimetro. Il nostro uomo si mette a ridere, altro segno di nervosismo. “Così tu credi che io sia frocio, capitano?” “Lo dimostra il fatto che non hai ancora premuto quel grilletto. Nella tua posizione puoi tranquillamente abusare di uno di noi due, non credi?” La canna dell’arma ora non punta più alla testa di Luigi: un’occasione simile non

potrò più averla. “Se sai che poi vi uccido tutti che senso ha fare un accordo allora? Tanto non uscite vivi da qui.” “Beh, è vero, non avevo pensato al fatto che tu sei un assassino senza alcuno scrupolo. Ma sei anche un uomo sexy e a me piacerebbe divertirmi un poco prima di are all’altro mondo.” Si allontana da Luigi e fa un o verso di me. È un po’ impacciato, ha perso la sicurezza di prima. Pare proprio che l’abbia eccitato. “Capo, cosa fa?” “Zitti voi e teneteli sotto tiro. Capitano, voglio godere per bene, mi raccomando. Se fai uno scherzo ti faccio saltare il cervello, chiaro?” È fatta. L’eccitazione gli fa perdere la lucidità e i suoi uomini non sembrano avere alcuna iniziativa senza di lui. Su quella dei miei invece posso contare pienamente, anche su quelli che sono rimasti alla base mobile: ora sono la nostra ultima spiaggia. Così facendo spero di prendere tempo, anche solo un quarto d’ora in più è prezioso perché si organizzino e vengano a prenderci. Click. D’improvviso ho intorno al polso destro una manetta di acciaio inossidabile. “Nel caso ti venga voglia di scappare, capitano.”

Quarantacinque anni prima

“Eccomi, scusate il ritardo.” “Lo sapevi, Gianni, che oggi venivano i tuoi.” “Sì, Marta, lo sapevo.” “Adesso siediti, mangia, se no si fredda.” Sono in ritardo sparato, accidenti. Sempre così quando lavoro. Perdo la nozione del tempo e vado avanti fino a che qualcuno mi avverte che sono ancora su questo mondo. “Ciao, mamma.” “Come fa a sopportarti mia nuora non lo so. Quando eri piccolo ti dovevo chiamare sempre per pranzo, ti cercavo dappertutto e non ti trovavo.” “Non è cambiato molto, Rina.” “Che diavolo, vi mettete in due contro di me?” Le mie parole suscitano l’ilarità generale. Meno male che la risata collettiva disinnesca la polemica, ci mancherebbe che madre e moglie mi fero in coro la ramanzina. “Come va papà?” “Bene, figliolo. Vedo che sei pieno di lavoro.” “Già, ne ho fin sopra i capelli. Ho la scrivania piena di rapporti da completare. Sono dovuto andare via se no stavo in ufficio tutto il giorno.” “Il mondo è pieno di segreti da svelare, a quanto pare.” “Già. Mi i le patate, per piacere?”

Ho una fame bestiale, se non metto del cibo sotto i denti svengo. “Gianni, vuoi un po’ di vino?” Mi faccio riempire il bicchiere, dall’altra parte del tavolo Marta mi guarda storto. “Lo sai che ti fa male bere troppo.” “Ma oggi non devo lavorare…” Poi mi ricordo che le ho promesso che oggi facciamo una puntata in città: se alzo il gomito non posso guidare. Il pranzo dura un’ora e mezza. Sono quasi le tre e i miei se ne sono andati da qualche minuto. Marta è di là a riordinare la cucina, io sprofondato nella mia poltrona senza far niente, la mia mente intorpidita nel mezzo della fase digestiva. Senza che me ne accorga me la ritrovo seduta sulle mie ginocchia, come se fosse levitata dall’altra stanza fino a qui. Mi fissa teneramente. Mi dà un bacio. Non so perché fa così, quasi mi mette a disagio. Le ricambio il sorriso e le accarezzo la guancia. “Non sei arrabbiata con me perché ho fatto tardi?” “Sì, lo sono, anche perché da ora in poi dovrai starmi più vicino se non vuoi che ti lasci.” La sua minaccia è accompagnata da un’espressione che di minaccioso non ha assolutamente nulla. Ha una luce strana negli occhi. “Non vedevo l’ora di dirtelo.” “Sei incinta.” Un urlo di felicità che equivale a un sì, poi Marta mi getta le mani al collo e mi stringe forte. Avrò un bambino, non mi sembra vero.

Sabato 11 luglio 2009

“Franti, apra la porta, subito!” “Su, Franti aprire porta, per favore.” La strega e Marco sono perfetti alleati qui dentro; mi viene addirittura da pensare che abbiano una relazione. Per me la situazione volge al peggio: non mi resta che aprire se non voglio aggravare la mia situazione. “Ecco, bravo, ci voleva tanto?” Con un colpo d’occhio noto che Marco impugna una siringa e la nasconde nella tasca del suo camice. Mi credi così rimbambito, brutto enorme stronzo? “Cosa volete fare?” “Stia calmo Franti, è un attimo. Poi si sentirà meglio.” Mi vogliono sedare come una bestia, bastardi. Vorrei far capire loro che non serve, che mi sono tranquillizzato. Ma sono determinati a infilarmi quella siringa nella carne, se no che figura farebbero con i colleghi? Ora che hanno preso la decisione vanno fino in fondo, qualsiasi cosa dica loro. Faccio il loro gioco, non ho scelta. È solo un tranquillante, Gianni, accontentali. Nel giro di pochi secondi Marco è già in procinto di spararmi in vena la medicina miracolosa. “Visto che non era niente, Franti? Adesso riposi un po’.” La porta della mia stanza è socchiusa, la vista mi si annebbia… Vedo Pina fuori in corridoio.

“Luisa, devo andare da papà.” “Dio, cosa è successo?”

“Non lo so, mi ha chiamato al cellulare. L’ho sentito agitato, è meglio che vada a dare una controllata.” “Sì, vai. Chiamami.” Accidenti, Lella, non t’interessa proprio nulla di tuo padre? È solo Massimo che se ne cura; quanto vorrei sculacciarti a dovere, ma sono tua cognata, non ne ho l’autorità. Appena torni ti aggiusto io, non m’interessa. Spero non sia niente di grave: gli voglio bene come a un padre, è sempre gentile con me. Proprio stamattina è successo questo casino, stavo per dire a Massimo che aspetto un figlio da lui. Accidenti anche a te, Gianni.

Giovedì 9 luglio 2009

Giancarlo mi ha riaccompagnato nella mia stanza; per fortuna nessuno del turno di notte si è accorto della mia sortita. Se non fosse stato per lui non so come sarebbe andata a finire. Sono ancora sconvolto per quello che è successo; evidentemente non mi ha fatto bene rispolverare il caso Solana; non devo più interessarmene se ci tengo alla mia salute. Sono seduto sul letto e non faccio che pensare a quello che è successo: ormai sarà un’ora che fisso la parete davanti a me. È meglio infilarsi nel letto, se no domani non mi sveglio più. Ma cosa devo fare? La colazione, una eggiata, il pranzo, una eggiata, la cena e poi di nuovo a letto. Che fretta c’è di andare a dormire? C’è solo un motivo per cui valga la pena far riposare il cervello: il caso Solana. È diventato la mia ossessione tanto che ho le allucinazioni. Ma non mollo, non l’ho mai fatto, tantomeno adesso. Venga pure a trovarmi il suo fantasma: ora sono pronto ad affrontarlo. Ho ancora in mano la pen drive, l’ho tenuta stretta nel pugno sinistro per tutto il tempo. La osservo: è talmente piccola che è un attimo perderla; è come se, in questo momento, il senso della mia vita fosse tutto quanto racchiuso in questo oggetto minuscolo e apparentemente insignificante. Mi viene da sorridere: il senso della mia vita può finire nello scarico del water e perdersi nelle fogne della città. È meglio che dorma ora: sto incominciando a dire stupidaggini. Provo un’infinita gratitudine verso Luigi, ragazzaccio che non è altro. Ripongo la chiavetta nel cassetto del comodino, il più in fondo possibile. Per stanotte la lascio lì, domani troverò un nascondiglio più sicuro. Spengo la luce: i nervi d’un colpo si allentano e il mio corpo finalmente si rilassa; faccio fatica a tenere gli occhi aperti. In fondo sei una brava persona, Giancarlo.

Mercoledì 8 luglio 2009

“Bene, bene. Uguale al padre, stesso naso, stessi occhi, stessa bocca. Non devi piangere, sai? Finirà tutto, te lo prometto.” “Chi sei?” “Un vecchio amico di famiglia, mia cara fanciulla.” “Cosa vuoi farmi?” “Ah, non lo so ancora. Dipende dal capitano.” “E chi è?” “Ma che domanda è? Tuo padre. Tuo padre è il capitano.”

Giovedì 2 luglio 2009

Non mi sembra vero: fuori dalla prigione, vado laggiù, in città. “Devo andare a fare una commissione per la casa di riposo, non ho voglia di andarci da sola, Gianni.” Non lo so ma la faccenda mi sembra un po’ pericolosa. Ho l’impressione di essere tornato in missione, sento il profumo del pericolo. O è quello della ragazza bionda che ho accanto? Sono confuso ma felice, un po’ incosciente, come lo ero una volta. Beatrice mi accompagna fuori dall’ingresso con fare distratto: nessuno alla portineria mostra alcun sospetto. Quando siamo fuori mi viene da respirare profondamente, come se l’aria fuori dall’ospizio fosse più pulita. Sempre senza fretta Bea mi conduce alla sua vettura: santo cielo, mai stato su una macchina tanto minuscola: è più alta che lunga e sembra un giocattolo. Mi viene aperta l’ampia portiera e salgo: una volta dentro ho l’impressione di essere su di un’utilitaria a cui mancano i sedili posteriori. “Ti piace la mia Smartina? La infilo dappertutto, sai?” Non ho dubbi. L’infermiera ragazzina chiude la portiera e raggiunge il posto di comando, accanto a me. Sembra una bambina col suo balocco meccanico; istintivamente recupero la cintura di sicurezza e me la allaccio. Si parte. Una sola, fluida manovra e la mezza macchina è già fuori dal parcheggio, pronta ad affrontare i tornanti che conducono a valle. Ha una guida nervosa. “Hai una guida sportiva.” “A me piace correre. Non hai paura, vero, Gianni?” Non rispondo perché sono intento ad attaccarmi come posso per contrastare la forza centrifuga della Smartina che affronta la prima curva; è come quando portavo Lella e Massimo sulle montagne russe. Mentre sterza, Beatrice traffica

con i comandi sulla plancia e, un istante dopo, l’abitacolo si mette a vibrare insieme alle mie budella. “Ti piacciono i Nirvana?” “Eh, sì…” “Lo sai che il loro cantante si è ammazzato? Stiamo ascoltando un morto defunto, non ti fa impressione?” “Già.” Morto defunto lo sarò anch’io se non metto subito piede fuori da questa trappola a quattro ruote. Finalmente entriamo in città. Ho un po’ di mal di mare, ringrazio il cielo che a pranzo sono stato leggero. Intorno le case, le macchine, le persone, la vita. “Adesso si cerca un parcheggio… Bisogna tirare l’occhio… Vedi un posto libero, Gianni?” Non serve che l’aiuti perché ha già individuato il buco dove infilarsi: affianca una vettura ferma e, con una retromarcia decisa, s’infila tra questa e un’altra: tra le due ci sarà sì e no un metro e mezzo. “Brava.” “Grazie, Gianni.” Bea esce e fa il giro per venirmi ad aprire; dopo qualche secondo io e lei eggiamo per il viale; mi tiene a braccetto come farebbe col suo fidanzato. Non avrei mai pensato di poter rivedere ancora una volta la città; ormai mi ero rassegnato a considerare il viaggio sulla Volvo di mio figlio l’ultimo che avrei fatto su questa terra. Mi sento bene mentre respiro lo smog e cammino lungo il marciapiede sporco e caldo: l’essere qui mi fa sentire ancora parte dell’umanità. “Manca poco, Gianni. Non sei stanco, vero?” “Un po’ sì…”

Subito mi pento della mia risposta: in effetti sono un po’ stordito per questo cambiamento rispetto alla tranquilla routine quotidiana dell’ospizio, ma ora voglio che questa gita duri il più possibile. “Vuoi che ti riporti su?” Divento rigido; non serve che parli, lei capisce. “Ma dai, un giovanotto come te non è sicuramente stanco. Ancora cinque minuti e siamo arrivati.” Il suo sorriso mi rischiara dentro e mi rimette in forze; mi viene perfino un’erezione, la mia andatura si fa impacciata nel vano tentativo di non darlo a vedere.

Giovedì 10 luglio 2008

Dove mi porti adesso, ragazza? Andiamo in basso, un piano più sotto del livello zero. Sto scendendo nello scantinato dell’edificio, a quanto pare. Non vorrà mica violentarmi qui sotto? Gianni, non farti troppe illusioni, eppure ho la netta impressione che voglia appartarsi con me. “Le faccio vedere la vecchia biblioteca.” Avevo intravisto durante il tour iniziale una sala moderna piena di scaffali carichi di libri disposti in modo ordinato; pensavo fosse quella l’unica biblioteca. Invece pare che ce ne sia un’altra, quella vecchia, appunto. Pare tutto abbandonato: un intero piano inutilizzato, come se fosse stato dimenticato completamente. Incomincio a preoccuparmi: in fondo questa qui chi la conosce, potrebbe essere anche una maniaca schizofrenica. No, impossibile, con quello sguardo così dolce. “Stia attento a dove mette i piedi, Gianni. Posso darle del tu?” “Sì… Fai pure.” “Oh, che bello, adesso possiamo essere amici.” “Amici?” “Sì. Non ti va? Sai, io la penso così: se si è amici degli ospiti si lavora meglio. Oh, ma se vuoi che continui a darti del lei non c’è problema, Gianni.” Sono del tutto spiazzato dall’ingenuità di Beatrice, ogni parola che dice e ogni gesto che compie mi conquistano. Mi piace sempre di più questa pazzerella. “Attento a dove metti i piedi, Gianni: per terra c’è di tutto. Ogni tanto qualche ospite finisce qui sotto e non lo troviamo più. Non so quando l’amministrazione si deciderà a far bloccare il bottone dell’ascensore. Hai visto che roba?” Non le rispondo: sono troppo intento a guardarmi intorno. È molto strano che vi

sia un intero piano dismesso. La polvere ricopre ogni oggetto: tavoli, scaffali, una vecchia sedia a rotelle con una ruota sola in mezzo al corridoio. “Lo so, è strano. Come mai non lo mettono a posto con tutti i soldi che ha questa casa di riposo? Me lo chiedo in continuazione, l’ho chiesto a chi lavorava già qui prima di me ma nessuno mi ha mai saputo rispondere. Nessuno sa niente del piano meno uno. Vieni, di qua.” Raggiungiamo finalmente la vecchia biblioteca: è una sala enorme, immersa nella penombra. Poi d’un tratto si accende una fila di neon. “Là. Così si riesce a vedere. Bella, vero?” In effetti non vedo quale fascino possa avere questo ambiente: un bancone in legno massiccio dal disegno piuttosto lineare, un’interminabile serie di scaffalature dello stesso materiale del bancone ancora in parte occupata da qualche libro e rivista, un corridoio centrale con tavoli e sedie per i lettori di un tempo. “Adesso guarda chi arriva.” “Chi deve arrivare?” Attendo che si materializzi questo individuo misterioso non senza un po’ di timore. “Dove sei, Ernesto? Ernesto?” Senza rumore, muovendosi con circospezione ecco che dalla base di uno degli scaffali spunta un piccolo gatto bianco e nero. Ha ancora pochi mesi e, appena ci vede, si affretta a venirci incontro. “Ma come sta il mio amorino, vieni qui bello di mamma!” E allarga le braccia per invitarlo: Ernesto non se lo fa ripetere due volte e si mette a trottare a tutta velocità verso la sua padroncina miagolando di felicità. Bea lo prende su e si mette ad accarezzarlo e a sbaciucchiarlo. “Può avere una malattia…”

“Ma se è sano come un pesce, vero Ernesto che sei sano come un pesce? L’ho trovato la settimana scorsa, in appartamento non posso tenerlo, se no mi sbattono fuori. Così lo nascondo qui, ma pulisco tutto, sai? E poi ha già imparato a farla nel suo cartone.” Mentre parla è eccitata come una undicenne. “Volevo che tu lo conoscessi. Ma che sia il nostro segreto, d’accordo Gianni?” “D’accordo.” Tutto lì? Voleva solo farmi vedere un gattino, questa qui. Sono intenerito, la guardo mentre se lo coccola e penso che ai miei figli non ho mai regalato un animale. “Adesso però andiamo Gianni, se no mi fanno il sedere a quadri.” Salutiamo Ernesto che pare non voglia saperne di staccarsi da noi. Beatrice è costretta a chiudergli davanti la porta a vetri della biblioteca. “Sta’ buono Ernesto, vengo stasera, prima di andare via.” Riprendiamo il corridoio deserto, camminiamo alla luce sfarfallante di un neon difettoso. Devo dire che l’ambiente è un po’ inquietante; qua e là ci sono anche attrezzature mediche evidentemente non più utilizzabili che contribuiscono a dare questa impressione: una macchina per aerosol, una di quelle gru che servono per sollevare gli anziani non autosufficienti, arrugginita in più punti. Questo affare mi fa pensare a uno strumento di tortura medievale: senza che me ne accorga allungo il o. “Non preoccuparti Gianni, non ci scoprono, ormai conosco i miei polli.” “Devi stare attenta, se no ti licenziano.” “Hai paura che me ne vada, vero?” E si mette a ridere come un’oca. Giungiamo all’ascensore: bisogna chiamarlo, è tre piani sopra. Finalmente la porta si apre: entriamo e Beatrice pigia lo zero: in un battibaleno

siamo su. “Ora Gianni devo fare il giro degli altri ospiti. Ti riporto in camera.” Non mi dispiace dopotutto riposarmi un po’ adesso, oggi ci sono state fin troppe novità per un uomo della mia età. Mentre percorriamo l’ultima parte del corridoio ecco sbucare all’improvviso un’altra infermiera: avrà suppergiù quarantacinque anni, ha un viso lungo e imbronciato. Punta dritta verso la sua più giovane collega, è chiaro che ce l’ha con lei. “Dove sei finita? Con quello che c’è da fare. Hai già fatto vedere a Franti il residence, non serve che lo faccia un’altra volta, non ti pare?” Il tono di questa megera non mi piace; vorrei risponderle, difendere la mia accompagnatrice, ma non spiccico una parola. Nemmeno Beatrice reagisce: diventa tutta rossa in viso, segno che sta trattenendo dentro di sé un moto di rabbia. “Ci penso io al signor Franti, adesso vai a controllare Giustacchini, stamattina se l’è fatta addosso. “Va bene. Ciao, Gianni.” “Ciao.” “Andiamo signor Franti, l’accompagno in stanza.” In cuor mio spero di aver a che fare il meno possibile con questa qui. Non mi piace per niente, frustrata megera dei miei stivali.

Lunedì 11 luglio 1997

Ecco che Luigi torna dal bagno. “È fatta.” “Cosa vuoi dire? Hai fissato l’appuntamento?” “Ebbene sì. Dopodomani sera, alle otto. Mi richiama per darmi l’indirizzo.” La frittata è servita, mi dico. “Ci sarà bisogno di un microfono, devo sentire.” “Niente microfono, Gianni.” “Ma…” “Fidati di me. Niente microfono.” “E il denaro? Quanto vuole?” “Già, quanto vuole… Questo è il punto dolente. Mille verdoni…” Dovevo aspettarmelo, una escort si fa pagare uno sproposito, che ingenuo che sono a non averci pensato. “Ma non preoccuparti, penso io alla grana.” “Vuoi sborsare di tasca tua quella cifra per un’indagine dell’agenzia?” “Non è proprio così… Comunque ci penso io, Gianni.” “Ci pensi tu? Ti rendi conto in che guai ci stiamo cacciando, brutto incosciente?” Luigi sfodera uno dei suoi sorrisi e mi mette un braccio sulla spalla. “Ti preoccupi troppo, amico mio. Devi rilassarti un po’, divertirti, are del

tempo con una bella donna. Sai che ti dico? Ci vai tu all’appuntamento. Così è deciso.” “Non ci penso nemmeno. Ma sei ammattito? E poi io sono un vecchietto senza una mano…” “Meglio. Si confiderà di più con uno che può essere suo padre che con uno sbarbatello come me. La mano poi è un ottimo argomento di conversazione. Da’ retta a me, Gianni, su queste cose ho intuito.” Il suo ragionamento non fa una grinza, devo ammetterlo. “La finiamo di confabulare? Se volete fare una chiacchierata andate alla macchinetta del caffè. Qui dentro c’è gente che deve concentrarsi sul lavoro.” È il figlio di puttana. Per fortuna non ha sentito niente: teniamo sempre il tono della voce basso. Aspettiamo che si sia allontanato. “Brutto…” “Lascia stare, collega. È uno stronzo e un giorno o l’altro finirà nel buco del cesso.” Io non lascio stare niente. Me la paga, lo faccio buttare fuori dall’agenzia. Dopo che mi è ata la rabbia torno in me. Mi sovviene un dubbio. “Luigi. Non sono neanche le nove del mattino. Come hai fatto a fissare un appuntamento a quest’ora? Una escort fa vita notturna, a rigor di logica è difficile che tenga il cellulare di prima mattina, non credi?” “Ah, sì… Non ci avevo pensato. Comunque ha risposto, ed è quello che conta, no?” Potrebbe essere una mattiniera, che ne so. Poi mi ricordo che lei sta a New York. “Luigi, il fuso orario.” “Ah, già, che sciocco.” “C’è un piccolo problema, mio caro Luigi.”

Nella foga dell’entusiasmo ci siamo dimenticati che Linda Mantivano è dall’altra parte dell’Oceano. Si può essere così stupidi?

Martedì 3 luglio 1984

“Adesso ti consiglio di darti da fare. Magari poi posso ripensarci e ti risparmio la vita, se sei abbastanza bravo.” Da dove diavolo saltano fuori queste manette? Non le avevo viste prima. Questo qui è un bastardo perverso, mi sto pentendo della mia mossa, ma ora è necessario prendere tempo, a tutti i costi. Mi ha bloccato a un palo cromato di sezione circolare che va dal soffitto al pavimento: insolita presenza nel mezzo di un salotto, il vezzo di un arredatore di interni stravagante, perfetto per la funzione che va ora ad assolvere. Il palo sostiene una mensola rotonda in cristallo: probabilmente è stata concepita per appoggiarvi il drink mentre si conversa in piedi nel bel mezzo di un cocktail party organizzato dal facoltoso padrone di casa. Chissà di chi è questa casa. Mentre mi perdo in questa riflessione mi ritrovo il membro del mio aguzzino che sventola a un centimetro della mia faccia. Non ha ancora raggiunto la sua massima dimensione: forse c’è troppo pubblico e il tizio è timido. “Forza capitano, prendi in bocca, forza.” Per un momento mi viene da vomitare ma riesco a trattenermi. E va bene, ne va della vita dei miei, devo farlo, mi dico. Improvvisamente un fragore di vetri rotti. La stanza è invasa dal fumo dei lacrimogeni lanciati dal resto della mia squadra. È arrivata la cavalleria, appena in tempo. Con tutta la forza che ho gli stringo i testicoli; lui urla impazzito dal dolore, poi si accascia per terra tenendo le mani sui genitali. Ha lasciato cadere la pistola ma, dalla mia posizione, non riesco a raggiungerla. Non si vede più niente.

Quarantacinque anni prima

È contento. Quasi avevo paura di dirglielo, non sapevo come l’avrebbe presa. Quanta gente che c’è in città oggi, tutti a vedere le vetrine dei negozi, sereni, felici. Anch’io lo sono, anche Gianni. Mi sembra di essere tornata a quando non eravamo ancora sposati, ci teniamo per mano come due giovani innamorati. Non l’ho mai visto così raggiante.

Sabato 11 luglio 2009

“Papà, cosa è successo?” Massimo è in piedi vicino al letto. Mi sono appena svegliato. Quanto ho dormito? “Che ora è?” “È l’una. Hai dormito tutta la mattina.” “Mi hanno dato un sonnifero.” “Sì, per farti stare tranquillo. Stamattina sei stato male.” D’improvviso mi ricordo tutto: le avance di Pina, la telefonata, la puttana e il suo gorilla. “Suo figlio è stato qui tutto il tempo, Franti.” È il dottor Guastaldi che parla. È gentile con tutti, un signore qui dentro. “Comunque è tutto a posto, lei sta bene. Ha solo avuto un leggero attacco d’ansia. Prima o poi capita a tutti, a qualsiasi età. Non si preoccupi, le serve solo un po’ di riposo.” “Hai sentito il dottore, papà? Tutto a posto.” Tutto a posto un corno. In questo ospizio non ci voglio stare un minuto di più. “Non dici niente, papà?” “Sì, sto bene. Mi serve solo un po’ di riposo, ha ragione il dottore.” Mi stupisco della mia risposta. Mi aspettavo che dalla mia bocca uscisse una protesta per ciò che ho dovuto subire, invece sono rimasto mansueto. Mi sono limitato a ripetere meccanicamente le parole di Guastaldi.

“Adesso devo andare. Luisa è rimasta a casa, ha un po’ di nausea. Ha detto che viene a trovarti; è preoccupata per te, sai?” Massimo sorride mentre lo dice. Strano, un sorriso da mio figlio, il primo da quando mi viene a far visita al Residence La Quiete. Un evento. Mi saluta e si allontana con il dottore; scambia con lui ancora un paio di parole sulla porta, poi scompare dalla mia vista. “Signor Franti, si riposi. Più tardi ritorno a vedere come sta.” Sono solo ora. La vista di Massimo mi ha rinfrancato e riesco a non pensare a niente. C’è silenzio, fuori e dentro me. Forse ha ragione il dottore: oggi mi prendo un giorno di riposo.

“Pronto, parlo col figlio del capitano?” “Il capitano? Lei chi è?” “Vuole che sua sorella viva?” “Santo cielo, che scherzo è? Chi è lei?” “Massimo, ti prego, fa’ quello che ti dice.”

La linea cade.

“Lella? Cosa diavolo succede? Pronto! Pronto!”

Mercoledì 8 luglio 2009

Ecco il caro capitano. Adesso ti tengo io per le palle. Te la faccio pagare, stai sicuro.

Giovedì 2 luglio 2009

Ma sono ammattita? Portare fuori un paziente dalla struttura? Se qualcuno se ne accorge sono finita. Ma lo vedi come è rinato? Lo sapevo che aveva bisogno solo di aria, guardalo come osserva dappertutto, gli occhi, come gli brillano. Beatrice sei un’incosciente. Chi se ne frega.

Giovedì 10 luglio 2008

Finalmente la simpaticona se ne è andata. La visita al piano fantasma mi ha generato inquietudine: che senso ha questa situazione di totale abbandono, specie in una struttura moderna come questa? Più ci ragiono e meno ci vedo chiaro. Forse è nella mia natura sospettare di tutto; forse tra una settimana arriveranno gli operai, sistemeranno e adibiranno il piano a qualche attività ricreativa. Il pomeriggio è ancora lungo; sono stato parcheggiato nella mia stanza e abbandonato a me stesso. Che faccio? Senza pensare mi ritrovo con il telecomando della tv a schermo piatto nella mia mano sinistra. Faccio una carrellata dei canali che ho a disposizione. Come un bambino mi lascio ipnotizzare dalle immagini: queste sono straordinariamente nitide, un altro pianeta rispetto a quelle del trabiccolo che ho a casa. È proprio un ospizio lussuoso, questo qui. La mia attenzione poi si sofferma su un canale di video musicali, lo stesso che guardava Lella quando era ancora a casa: esiste ancora a quanto pare. Improvvisamente provo come una vertigine nel calcolare il tempo che è ato. Mi riscuoto dall’attacco di nostalgia e pigio nuovamente sul telecomando: ora sono davanti ai titoli di coda di un film. Sono interminabili, lascio che scorrano davanti a me mentre un pensiero maligno si fa strada: anche i titoli di coda della mia vita stanno per arrivare. In ordine di apparizione: Giovanni Franti nel ruolo di se stesso. Basta. Decido che non danno niente di interessante alla televisione e spengo l’apparecchio. Mi affaccio al corridoio. Cosa posso fare? Andare a fare conoscenza con gli altri ospiti del residence? Io che sono allergico ai rapporti sociali? Maledizione, mi sento in trappola. “Sei nuovo, tu? Piacere, Pina Ziglioli.” Una distinta signora mi porge la mano. Senza che me ne accorga le ho già presentato il mio bel moncherino, non me lo ricordo mai. “Giovanni Franti.”

Pina non fa una grinza e, invece di arretrare la propria destra, con presenza di spirito la allunga fino a stringermi l’avambraccio. “Sei di dove, Giovanni Franti?” “Vengo dalla città.” “Un raccomandato, come tutti noi, del resto.” “Già.” “Siamo fortunati, non credi? Abbiamo dei figli d’oro.” “Già.” “Senti Gianni, che ne dici di una partita a scala quaranta tra mezz’ora? Si riunisce il Club delle Vedove Nere in sala. Presentarsi con cinque euro. Non guardarmi così, non sei l’unico maschietto, il club è aperto anche all’altro sesso.” “Ma io…” “Beh, non farti pregare. Tra mezz’ora. Così ci conosciamo un po’.” Non faccio in tempo a risponderle che se ne è già andata. Strana donna. Ritorno nella mia stanza. La spiacevole sensazione di non saper come are un pomeriggio vuoto di impegni è svanita. Vuol dire che ho deciso che andrò a giocare a scala quaranta? Come, Giovanni Franti, adesso ti sei messo a decidere cosa fare senza prima avermi consultato? Perché io non ne voglio proprio sapere di andare al Club delle Vedove Nere, sai? Vado alla finestra e guardo fuori. Piuttosto di marcire qui dentro a pensare che devo morire, forse è meglio andare. Vado, tasto la situazione e, se mi trovo a disagio, me ne torno qui. Nessuno mi obbliga a restare se non me la sento. Quando reputo che circa mezz’ora è ata decido di partire. Non guardo l’ora: quando sono in missione lo faccio il meno possibile perché mi rende nervoso. Allora sono in missione? La tensione è la stessa. Dio mio, sono ridotto così male da aver paura di un gruppo di vecchiette? Mi sento profondamente stupido.

Intanto mi muovo, come se qualche forza oscura mi spingesse a farlo contro la mia volontà. M’incammino verso la sala, ignaro di cosa m’aspetti.

Lunedì 11 luglio 1997

Siamo nella merda. Cosa ti è successo Gianni, hai perso d’un colpo tutta la tua saggezza da dare ascolto a questo sbarbatello? “Senti, non se ne fa niente. Come si fa a essere a New York dopodomani? I tempi sono troppo stretti È impossibile.” Dentro di me so che non è vero: oggigiorno con Internet si può prenotare un volo all’ultimo momento; è che non intendo incoraggiare il piano di Luigi. Il mio socio intanto pare abbia esaurito le sue idee: fissa la scrivania grattandosi di tanto in tanto la nuca. Poi mi viene un dubbio. “Ora a New York sono le tre e mezza del mattino. Luigi, mi spieghi come hai fatto a trovare la Mantivano al cellulare?” “Beh, in realtà le ho mandato solo un messaggio. Le ho chiesto se era libera per dopodomani sera. Aspetto che risponda.” “Perché mi hai mentito?” “Non lo so, Gianni. Forse avevo paura che non volessi accettare il mio piano.” Mentre mi parla continua a fissare la scrivania, non osa guardarmi negli occhi. “Non sei più un bambino da tempo, Luigi. Sei un professionista e ti pagano per esserlo.” “Mi sembra di sentir parlare quel sergente stronzo alla scuola di addestramento.” “Basta scherzare, non puoi scherzare per tutta la vita.” “Sì. Hai ragione. Sono stato uno stupido.” Segue un lungo momento di silenzio. Non so proprio più che fare; il moncherino ha iniziato a prudermi: succede sempre quando sono nervoso.

Il cellulare nella tasca di Luigi emette un suono singolo: gli è arrivato un messaggio. Lui però non accenna a muoversi. “Non controlli? Magari ti ha risposto.” Con poca convinzione tira fuori il cellulare. Poi sul viso gli torna il sorriso da ragazzaccio. “La sai una cosa? Ci ho imbroccato: vuole proprio mille dollari.” “Stai zitto “ Ha abboccato, non mi resta che inventarmi una scusa e salire su un aereo. Luigi ha già davanti il sito di una compagnia low cost; pochi minuti dopo abbiamo la prenotazione: un colpo di fortuna grosso come una casa. “Adesso cosa si dice al capo?” “Non è necessario dirgli niente. Uno può sentirsi male dalla sera alla mattina, no?” “Ho capito Gianni, ti prendi un paio di giorni.” L’aereo parte domani pomeriggio all’una e un quarto. Stamattina non dovevo neanche alzarmi dal letto, lo sapevo. Sono troppo vecchio per queste cose, accidenti. Proprio adesso che mi manca pochissimo alla pensione, chi me lo fa fare. Stai già brontolando, Marta, ti sento da qui. E come fare a non darti torto?

Martedì 3 luglio 1984

È l’inferno. Non riesco a vedere assolutamente nulla, i miei occhi lacrimano generosamente, come se non bastasse ho anche lo stomaco sottosopra. Il mio braccio destro è sempre attaccato al palo: mi viene d’istinto di dare uno strattone nella speranza che questo ceda. Il problema è che il dannato palo è cementato sia al pavimento che al soffitto. “Gianni, dove sei? Gianni!” Questo è Luigi: sento la sua voce provenire da una direzione diversa rispetto a dov’era prima: evidentemente è stato liberato. “Qui, scemo! Dove vuoi che sia andato!” “Arrivo, ti libero!” “E come? Hai forse la chiave?” Nel trambusto riesco a distinguere delle ombre che si muovono verso l’esterno: stanno fuggendo. C’è un nuovo problema però: le tende e buona parte del mobilio hanno preso fuoco. Il bastardo ha appiccato un incendio per creare un diversivo. “Non lasciatelo scappare!” D’improvviso il volto tumefatto di Luigi spunta fuori dalla nebbia dei lacrimogeni. “Dobbiamo liberarti, capo. Qui brucia tutto, non c’è tempo per seguirli.” Qui dentro fa sempre più caldo: il fuoco ormai avvolge l’intera stanza. I miei sono tutti intorno a me e si adoperano per liberarmi. “Andate via! Via di qui!” “Non senza te, Gianni! Non senza te!”

“Questo maledetto palo non si stacca!” “Non c’è tempo! Andate via!” “Dov’è l’attrezzatura, Luca!” “L’ho lasciata fuori!” “Dannazione, qui brucia tutto!” “Tagliate!” “Cosa?” “Tagliate e basta!” “Cosa tagliamo, Gianni?” “Hai capito bene, Luigi! Ce la puoi fare! Usa quel cazzo di coltello!” “No, Gianni, no! Ci deve essere un altro modo, porca puttana!” “Lo sai benissimo che non c’è un altro modo! Datevi da fare!” Per quanto me lo consentono le lacrime indotte, fisso Luigi dritto negli occhi. “Se vuoi salvarmi devi farlo. Lo so che puoi farlo.” Luigi non parla: sa benissimo che ho ragione, che è l’unica possibilità per me. “D’accordo. Qualcuno mi i il suo coltello, lo faccio io. Vorrà dire che a cose fatte ti devo una mano, vecchio mio.” “È più forte di te, Luigi. Non puoi fare a meno di scher…”

Quarantacinque anni prima

“Se lo chiamassimo Massimo?” “Perché Massimo?” “Così, mi piace il suono. È il nome di una persona destinata a grandi cose.” “Sei così sicura che sia un maschio?” “Sarà un maschio, Gianni.” “Se lo dici tu. A me piacerebbe anche una bambina.” “Mi dispiace, questo qua ha il pisellino.” Marta mi stringe, mi devo fermare, non riesco più a camminare. “Mi vuoi uccidere?” Non mi risponde. Si limita a guardarmi dolcemente.

Sabato 11 luglio 2009

Cosa devo fare? Andare alla polizia? Se lo dico a mio padre gli viene un colpo. Non posso perdere un solo attimo, devo muovermi. Dio mio, chi ci vuole così male? È di sicuro legato a una sciocchezza che ha combinato papà. Maledizione a te, guarda in che guaio ci hai ficcati. Sono arrivato a casa. Devo dirtelo amore, non sopporto di tenermi dentro tutto questo un minuto di più. “Luisa, c’è un guaio.” “Hai una cera… Cos’ha tuo padre? Non sta bene?” “No, lui sta abbastanza bene. Stamattina si è solo agitato un po’.” “Dimmi cosa non va, ti prego, Massimo.” “È Lella. L’hanno rapita.” “Dio mio. Dobbiamo chiamare la polizia.” “Non lo so se è bene farlo, ora.” “E perché, Massimo, perché diavolo non bisogna chiamare la polizia?” “Prima voglio parlare con mio padre.” “Chi ti ha detto che l’hanno rapita?” “Il rapitore. Mi ha chiamato al cellulare.” “Amore, ho paura.” “Anch’io, Luisa. Anch’io.”

Mercoledì 8 luglio 2009

Solana cammina avanti e indietro per la stanza. Lella è seduta sul divano. Non è legata, basta la presenza dell’uomo per farla desistere da qualsiasi tentativo di ribellione. E lui lo sa.

“Quanto ci mette quello là?”

Lella piange.

“La prego, non mi faccia niente. Cosa le ha fatto mio padre, perché se la prende con me?” “Sei sangue del suo sangue, mia cara.” “Lei è un bastardo, lei la pagherà per tutto questo, brutto bastardo!” “Hai un bel caratterino, ragazza mia. Proprio un bel caratterino. Mi piaci, sai?”

Lella fa per alzarsi ma Solana le blocca la strada. Si risiede e scoppia a piangere.

“Cosa vuole da me? Cosa vuole da mio padre? La prego, me lo dica.” “Da te niente, mia cara. Da tuo padre diciamo… un lavoretto lasciato in sospeso.”

Solana sorride. Lella lo osserva: è anziano, sulla settantina se non di più. Ha una lunga cicatrice sulla tempia destra. I suoi lineamenti non permettono di capirne la provenienza etnica. Gli occhi, quelli sono veramente terribili. Scuri come la pece, come due buchi neri che inghiottono tutto, compresa l’anima di chi lo fissa. Lella ha spirito di osservazione, l’ha ereditato dal padre. Seguita a studiarlo mentre lui le sta davanti. Di statura media, sugli ottanta chili più o meno. I suoi capelli sono radi, tinti, unti; su ogni lato del collo, appena sotto l’orecchio, una piccola, quasi impercettibile, cicatrice: inequivocabile segno di un’operazione di plastica facciale. Lella ha a che fare in continuazione con stilisti che si fanno ritoccare dai migliori chirurghi sulla piazza, lo vede subito se uno è stato operato.

“A cosa stai pensando, mia cara?”

Lella ha smesso di piangere; ora cerca in silenzio una via di fuga.

“Che lei è un bell’uomo.” “Ah, ah. Tale padre, tale figlia. Ma io non ci casco un’altra volta.” “No, è vero. La sua donna? Lei ha una moglie di certo.”

Solana si oscura in volto, è stato toccato nel profondo. Si blocca per un istante.

“Troppo curiosa per i miei gusti. Adesso sta’ buona qui. Ah, il cellulare ce l’ho io. Non ti dispiace, vero?”

Lella non gli risponde. Lo fissa, è spaventata a morte ma lo fissa. Avrà un punto

debole questo figlio di puttana.

Giovedì 2 luglio 2009

Siamo arrivati al negozio: Beatrice deve ritirare uno stock di lenzuola ordinato dal Residence La Quiete qualche giorno fa. Bianche, semplici, con ricamato in un angolo il logo della casa di riposo: il profilo stilizzato di un anziano con di fronte quello di un bambino, le due lettere “R” e “Q”, i cui estremi terminano in volute di rampicanti. Orrendo, non mi è mai piaciuto. Carichiamo il tutto sulla Smart a fatica, fino a riempire tutto il minuscolo bagagliaio. “Adesso si torna, Gianni.” Si torna là dentro. Vorrei dire a Bea di lasciarmi qui, mi farei ancora un giro, arriverei fino in piazza Duomo, almeno vedere la piazza, fosse anche solo per un minuto. Niente, sto zitto e salgo sulla macchina giocattolo senza opporre alcuna resistenza. È come se fossi rassegnato all’idea di non appartenere più alla città, alla vita, al flusso delle persone che vanno e vengono lungo queste strade, persone attive, frenetiche, stressate sì, ma comunque con un ruolo, un impegno da svolgere quotidianamente. In prima linea, insomma. La brusca partenza mi riscuote: Beatrice ha dovuto infilarsi tra una macchina e l’altra per poter immettersi nel viale. Stiamo percorrendo la strada che riporta al residence, mi sembra di essere di ritorno da una gita in un paese straniero: guardo fuori dal finestrino con l’avidità di un turista che non vuole farsi scappare nulla, nessun angolo, nessun particolare del luogo che sta visitando. “Spero solo che non se ne siano accorti.” Adesso Beatrice è un po’ preoccupata; la vedo seria e il suo viso paffuto e pulito non fa nulla per nasconderlo. Poi, come per scacciare la paura, si mette a ridacchiare. “Ma sì, chi vuoi che se ne sia accorto, ci abbiamo messo solo mezz’ora. Dai, Gianni, la facciamo franca, non preoccuparti.”

E intanto pigia sull’acceleratore, non che la mezza macchina abbia una grossa spinta, però basta a lanciarci oltre gli ottanta all’ora. D’istinto faccio per attaccarmi alla maniglia, ma come posso se non ho dita per stringerla? Frano contro la portiera e batto la testa contro il vetro. “Gianni! Ti sei fatto male?” Non lo so cosa mi succede, incomincio a ridere forte, rido di gusto, una risata incontrollata. Beatrice mi guarda con gli occhi fuori dalle orbite: crederà che sia ammattito, in un anno che mi conosce non ho mai avuto una reazione del genere. Mi sa che non l’ho avuta mai, non ricordo nessun momento nel mio ato in cui abbia riso così sguaiatamente, senza controllo né ritegno. “Mi vuoi far fuori, adesso ho capito, matta d’una ragazza!” Le prendo la guancia e la strizzo delicatamente. Beatrice è ancora scioccata; ha rallentato la Smart ed è incerta se procedere o accostare. Poi il sorriso le fiorisce di nuovo e diventa rossa. “Ma cosa dici, Gianni… Non è vero…” “Mi ricordi mia figlia, sai?” “Hai una figlia così giovane? Non mi hai mai detto che hai una figlia.” “Adesso ha trentacinque anni, l’ho avuta un po’ tardi. Si chiama Lella, lavora nella moda.” “Fico. Non l’ho mai vista venirti a trovare. Sarà presissima dalle sue cose.” Segue un attimo di silenzio imbarazzato. “Però potrebbe venire da suo padre, in un anno possibile che non trovi mai il tempo?” “Ce l’ha con me.” “E perché? Cosa le hai fatto che non ti vuole più vedere?” “Se lo sapessi…”

“Senti, dammi il cellulare che gliene dico quattro, non si tratta un papà così, come è concepibile che non ti voglia vedere, non le hai fatto niente, lo so, ti conosco, non faresti del male a una mosca, tu sei un uomo buono. Ma guarda questa qui, ingrata d’una figlia…” Mentre s’infervora gesticola vistosamente e molla il volante. “Sì, però adesso torniamo, se no se ne accorgono.” “Va bene, Gianni.” Manda un sospiro e torna a concentrarsi sulla strada. “Però non è giusto che ti tratti così.” Arriviamo al cancello d’ingresso; un colpo di clacson e ci viene aperto.

Giovedì 10 luglio 2008

“Ecco il nostro Gianni. Allora sei arrivato, siediti, dai che iniziamo. La conosci la scala quaranta, Gianni?” Lo sapevo che dovevo starmene nella mia stanza. Pina mi invita a sedermi accanto a lei. “Facciamo la presentazione ufficiale. Questo è Giovanni Franti e viene dalla città. Sembra un burbero ma so che è molto simpatico.” E adesso? Devo stringere la mano a tutti, magari. Bell’affare. Per fortuna ci si limita a dirsi il nome. “Giuseppina, cos’è quel sorriso? L’ho visto prima io, quando è arrivato.” “Ma cosa dici, Rosa. Io l’ho portato qui, me lo sposo io, cara.” Per mia fortuna si mettono tutti a ridere. Quattro donne e tre uomini, uno di loro è Giancarlo. Non lo degno di uno sguardo, nemmeno lui è tanto interessato a me. Strano. “Forza, Gianni, a te l’onore, dai le carte.” “Ma…” “Ah, sì, ti manca una mano. Giancarlo, forza, tocca a te.” Con disinvoltura Giancarlo mescola il mazzo e distribuisce le carte. Le dà a uno, quello dopo lo salta e così via. “Si gioca in coppia, Gianni. Io sto con te.” Noto che invece Giancarlo resta da solo e ha il proprio mazzo di carte. “Ah, lui è il più bravo, non gli serve la spalla.” “Se lo dici tu, Rosa.”

Inizia il gioco: praticamente è la signora Pina che ha il comando, io mi limito a guardare le sue mosse. Siamo partiti bene, abbiamo perfino un jolly. “Dove lo mettiamo il nostro amico, Gianni?” Pina mi si è fatta vicina e mi sussurra per non farsi sentire. “Si può fare una scala di quadri, abbiamo la regina, il re e l’uno. Direi prima della regina.” “Ottima idea. Sei bravo a giocare, Gianni.” Vorrei dirle che anche un bambino sarebbe capace di mettere in fila delle carte. Per educazione mi trattengo. “Ci giocavo quando ero in vacanza.” “In fondo lo sei qui dentro, intendo in vacanza: sei servito e riverito e non fai assolutamente niente. C’è anche la piscina, che vuoi di più?” Non è difficile vincere la prima mano. Anche la seconda è nostra; alla fine conquistiamo il premio del torneo, da dividere a metà. Li tiene lei, mi dice: quando ne avremo vinti tanti divideremo. Non faccio alcuna obiezione, ci mancherebbe che mi mettessi a litigare per poche decine di euro. È ata circa un’ora e non me ne sono nemmeno accorto. La compagnia ora si scioglie, tutti tornano alle loro occupazioni, non so quali possano essere se non guardare la televisione o eggiare per il parco. Sta di fatto che ognuno se ne va per i fatti suoi, tranne una persona. “Allora Giovanni, ti stai ambientando?” “Abbastanza, Giancarlo.” “Che tipo Pina, vero?” “Sì, è un bel tipo.” Cosa vuole, dannazione. Fammi respirare, come mai stai incollato in questo modo?

“Ci vieni alla prossima partita?” “Non lo so.” Resto asciutto nel rispondere, non lo faccio apposta, è più forte di me. In fondo Giancarlo vuole mettermi a mio agio in questo ospizio. “Beh, penso di sì.” “Allora ti faccio sapere quando giochiamo. Una volta alla settimana, se no rimaniamo senza soldi.” “Non vi dice niente nessuno? Vi permettono di fare puntate in denaro?” “Nessuno lo sa che giochiamo a soldi. E poi noi siamo grandi e vaccinati, non credi?” Non ha tutti i torti. In fondo che male si fa? “È un modo per rendere il tutto più eccitante. Io mi sono fatto una piccola fortuna, sai? Quando ne ho un po’ li spendo in regalini. Sai, un pensierino, magari per Natale. A volte faccio un regalino anche agli infermieri.” Sporco ruffiano. “Adesso devo andare alla sala dei computer. Se ti interessa sono là. Lo sai dov’è?” “Sì, me l’ha fatta vedere l’infermiera.” “Allora ti aspetto. Ciao Gianni.” “Ciao Giancarlo.” A quanto pare lo scocciatore è un apionato di informatica.

Lunedì 11 luglio 1997

Metto giù il telefono. Ho appena avvertito in ufficio che ho la febbre a quaranta, è la prima scusa che mi è venuta in mente. Luigi deve coprirmi in ogni modo, soprattutto deve fare sì che nessuno venga a controllare a casa: sarebbe un bel guaio visto che io sarò a New York nelle prossime ore. Spero che trovi una soluzione: se il grande capo scopre o solamente fiuta il nostro piano per noi è finita. Che mi porto? Ho davanti a me, appoggiata sul letto disfatto, la ventiquattrore con doppio fondo segreto. Sicuramente un abito da sera: devo essere convincente, a partire da ciò che indosso. È il primo indumento che ficco nella valigia; poi mi blocco. Resto lì, senza sapere cosa prendere. Giovanni, vai e torni, che diavolo ti serve? Spazzolino, dentifricio, rasoio, maglieria intima di ricambio. Sul letto ho anche il pacchetto con dentro il denaro che mi ha procurato Luigi nel pomeriggio di ieri. L’efficienza del ragazzo non finisce mai di stupirmi. Preferisco non chiedermi in che modo se lo sia procurato, forse è meglio non saperlo, per ora. La pistola la porto? Da quanto tempo non la uso, non ho nemmeno allenato la mia sinistra a maneggiarla. Che fesso che sono stato. In fondo posso avere una buona mira anche con l’altra mano. La mira è una dote innata; sì, va esercitata, ma non è necessariamente questione di destra o sinistra. Sbagliavo difficilmente quando sparavo al poligono. La tengo in cassaforte, la mia Beretta 93R Parabellum da venti colpi, sempre lei, fedele compagna da anni. Ma sì, in fondo devo are una serata con una bella donna, a che diavolo può servirmi un’arma? D’un tratto mi rendo conto che affinché la sceneggiata risulti credibile devo entrare in pieno nella parte: ciò vuol dire anche andare a letto. Sono eccitato al pensiero di avere un rapporto sessuale con una bellissima donna come un bambino che va al luna park. No Gianni, questo è lavoro, non devi infiammarti, distacco professionale.

Lo sguardo cade sulla foto di Marta sul comodino: all’improvviso mi sento un fedifrago e me ne vergogno profondamente. No Marta, non ti ho mai tradito e non lo farò nemmeno adesso che non ci sei più. Inventerò una scusa al momento opportuno, la Mantivano non sospetterà nulla. L’immagine di me e della prostituta insieme è però ormai dentro la mia testa e ogni mio tentativo di cacciarla fuori è vano. “Accidenti.” Esco dalla camera per distogliermi dal pensiero; vado in bagno per recuperare il necessaire per la toilette. Sono davanti allo specchio e mi osservo. In fondo non sono da buttare via, sì, un po’ anzianotto ma ancora efficiente da quel punto di vista. Ancora? Stamattina è diventato un chiodo fisso questo sesso, dannazione. È da una vita che non faccio più all’amore, sarò ancora capace? No, Gianni, tu non devi scopare la Mantivano, devi solo farle delle domande, porca miseria! E poi cosa vuoi che le piaccia un uomo vecchio e senza una mano? Ma la pago profumatamente io, e lei farà tutto quello che voglio. Basta. Deciderò quando sarà il momento. Perdonami Marta per la mia reazione, è come un fiume in piena che non riesco ad arginare. È solo un momento di debolezza. Non ti tradirò mai, mai e poi mai. Chissà che misura porta di seno la Mantivano. A giudicare dalla foto almeno una quarta, a me piacciono belle grosse le tette.

Martedì 3 luglio 1984

“Dove mi porti, Luigi? La mano, la mia mano, che dolore…” “Ragazzi, si è svegliato.” “Sta’ tranquillo Gianni, ti portiamo via.” “Fa male, dio mio, non ce la faccio, Luigi, ti prego…” “Resisti vecchio mio, non mollare proprio adesso.” “Perché mi hai dato un pugno... Luigi… Perché…” “Considerala anestesia creativa. Adesso non parlare.” “La mano… Luigi… Dov’è la mia ma…”

Quarantacinque anni prima

“È ora Gianni! Svelto, tira fuori la macchina! Dio mio, che male!” “Respira, su, da brava, come ti ha insegnato il dottore, brava, così. Continua così, brava…” “Non sono una bambina, porca puttana! Lo so che devo respirare, veloce, portami all’ospedale! Ah, quando mai mi sono messa in testa di avere un bambino, che male!” “Resisti, vado a preparare la macchina, tu resta qui un attimo, sì, brava, siediti, torno subito.” Meno male che oggi sono a casa, ci mancava che Marta fosse sola in questo momento. Vado in garage, manovro la mia Volkswagen e la parcheggio davanti al vialetto. Compio ogni gesto con tutta la calma che posso attingere dal mio buon senso. Raggiungo Marta che aspetta vicino all’ingresso, seduta su una poltroncina stile ottocento imbottita che abbiamo acquistato perché ci sembrava bella da mettere lì e che non abbiamo mai usato. Ecco a cosa serviva, a far sedere Marta in questo momento mentre io andavo a prendere la macchina per portarla all’ospedale quando avrebbe avuto le doglie. Lo sto per dire a Marta ma mi rendo conto che sono agitato e l’eccitazione mi fa pensare una stupidata dopo l’altra. Marta soffre: in effetti il pupo riempie la sua pancia fino all’ultimo centimetro, chissà quanto pesa il torello. Le continuo a dire di respirare; lei vorrebbe ancora dirmi di smetterla di trattarla come una stupida ma è presissima nell’esercizio di respirazione e non riesce a rivolgermi la parola. Poi d’improvviso sbotta: “Non ce la faccio più! Gianni, aiutami, maledizione!” “E come? Resisti ancora un poco, continua a respirare!” Di questo o Marta dovrà scodellare il pargolo sul sedile della Volkswagen. Non so proprio che fare, non c’è possibilità di accelerare i tempi, a meno che

non venga un aiuto dal cielo. Mi attacco al clacson e premo a fondo l’acceleratore: il motore del Maggiolino risponde con estrema calma, maledetta tartaruga a quattro ruote. Ecco l’ospedale. Pianto la macchina davanti all’ingresso e corro dentro per chiedere aiuto. Prontamente arrivano un paio di infermieri, uno di loro spinge già una sedia a rotelle. In pochi minuti Marta è in sala parto. “Aspetti qui. Come si chiama?” “Marta Orlini in Franti. Io sono Giovanni Franti, suo marito.” “Bene. Si sieda pure, adesso sua moglie è in buone mani. Certo, proprio all’ultimo momento…” L’infermiera mi sorride, la sua espressione mi tranquillizza. Ha il fisico di un lottatore di sumo ma i suoi modi sono delicati e il suo sguardo dolce. “Vedrà, andrà tutto bene.” Quando arriva il dottore per darmi la notizia mi sembra che sia ata un’eternità. Fa il suo ingresso con un’espressione soddisfatta. “È un maschietto di quattro chili perfettamente sano. Complimenti signor Franti.” “Posso vederli?” “Certamente. Mi segua.” Mentre percorro il corridoio che conduce alla camera di Marta, inizio a sentirmi nervoso. Perché mai dovrei esserlo? Giovanni, vai a vedere tuo figlio, sei padre, mi dico. Padre. Una parola che ora mi pesa come un macigno: essa implica responsabilità, sono responsabile di un’esistenza umana, adesso. Porca miseria, come si fa a fare il padre, non me lo sono mai chiesto, non mi sono nemmeno aggiornato leggendo un libro sull’argomento. Sul lavoro non tralascio nulla, è difficile che mi si trovi impreparato; ora lo sono, del tutto.

All’improvviso ho paura, quasi vorrei scappare, provo disagio, come se mi sentissi del tutto vulnerabile, senza alcuna difesa di fronte a ciò che vedrò. “Gianni, ti presento tuo figlio, Massimo.” Marta ha un’aria stanca, ma i suoi occhi brillano come mai li ho visti prima d’ora. Tutta la paura che avevo si scioglie in un attimo. Accarezzo mio figlio e mi accorgo che già gli voglio un bene infinito.

Sabato 11 luglio 2009

“Papà?” “Sì?” “Lella è stata rapita.” “Cosa?” “Te lo devo ripetere, dannazione? Rapita. Sai cosa vuol dire rapita?” “E chi l’ha rapita?” “Tu non hai qualche idea?” Massimo è davanti a me. Stavo dormendo profondamente quando lui mi ha svegliato. Ho capito subito che c'era un problema non appena l’ho visto: è strano che capiti due volte in un solo giorno. “No. Perché lo chiedi a me, Massimo?” “Non so, tu eri una spia al servizio del governo. Qualche pasticcio lo avrai combinato in giro per il mondo, qualcuno può essere un po’ incazzato con te.” Il suo tono non mi piace ma non gli dico niente: in fondo ha le sue buone ragioni, non sono mai stato un padre presente. “Allora, paparino, non ti viene in mente niente?” Massimo stringe i pugni, è pieno di rabbia. Nei suoi occhi però si legge la paura. Mi siedo sul letto e con i piedi cerco le ciabatte. “Devo chiamare Luigi… Il cellulare, dov’è?” “Non lo so dov’è il tuo maledetto cellulare!”

Ora alza la voce. È visibilmente scosso e si scarica su di me. “Adesso me lo dici chi ha preso Lella, forza, sputa il rospo!” “Massimo, calma, ti prego…” “E no che non mi calmo! L’ammazzano Lella, lo capisci questo?” “Basta! Smettila e ragiona da adulto.” Adesso sono io che sono arrabbiato. Non ho mai avuto bisogno di alzare la voce con mio figlio, adesso però non ho scelta. Lo guardo dritto negli occhi e lui li abbassa. A quarantasei anni è dura essere ripreso dal proprio genitore ultraottantenne. “Ora il modo peggiore di agire è perdere le staffe, non credi Massimo?” D’improvviso ho la lucidità di quando ero operativo. È esplosa una bomba dentro di me che, invece di distruggermi, mi ha riattivato. Il torpore della vecchiaia di colpo è svanito. Non c’è tempo per farsi prendere dal panico, ci vuole un piano d’azione e subito. È per questo che mi serve il mio collega. Massimo non dice più niente. Si è lasciato cadere sulla sedia accanto al letto e guarda nel vuoto. Ritrovo il cellulare: con la sinistra imposto il numero di telefono di Luigi, lo ricordo perfettamente. “Ehi, vecchio. Non dirmi che hai bisogno di me.” “Sì, ho bisogno di te. Lella è stata rapita.” “Stai scherzando?” “Mi serve il tuo aiuto.” “Certo… Arrivo subito.” Arriva subito. La sua immediata disponibilità m’infonde coraggio. “Massimo, adesso devi raccontarmi tutto.”

Massimo rimane immobile, ha l’aria di uno che sta vivendo un incubo. È pallido come un cencio e non pare reagire a ciò che gli ho detto. Poi fa un sospiro e con le mani si stira la faccia. “Mi ha chiamato uno al cellulare… Magari è solo un brutto scherzo.” “L’hai chiamata?” “Il suo telefono è spento.” “Hai sentito qualcuno che lavora con lei?” “Sì, la sua segretaria.” “Cosa ti ha detto?” “Che non riesce più a trovarla. Non ha avvertito nessuno, credeva che Lella fosse andata via per starsene tranquilla. Le ha mandato un messaggio in cui diceva che era stressata, che aveva bisogno di una tregua di qualche giorno, via da tutto e tutti. Ha dovuto disdire un appuntamento importante all’ultimo momento. Sperava che avrebbe richiamato, così ha aspettato a dirlo alla polizia.” “Allora è tutto vero.” “Cosa posso fare?” “Adesso niente. Tieni il cellulare: sicuramente verrai contattato di nuovo.” “E se mi chiama? Cosa dico?” “Non fargli nessuna domanda. Lascialo parlare, ascolta le sue istruzioni.” “E la polizia?” “Niente polizia.” “Perché?” “Che rimanga fuori per ora. Fidati di me. Dillo anche alla sua segretaria.”

“Va bene.” Il mio Massimo è sempre stato un bravo figliolo. Non ho mai appoggiato la sua ione per la legge, anche se non gli ho mai impedito di fare quello in cui credeva. Mai una parola d’incoraggiamento per i suoi studi. Per fortuna che c’era Marta a spingerlo. È un avvocato molto richiesto, sono orgoglioso di lui. Maledizione Lella, adesso ti devo salvare. Cosa mi fai fare alla mia età?

Mercoledì 8 luglio 2009

“Cosa le ha fatto mio padre? Può dirmelo.” “Piccola, perché insistere su questo punto?” “Io odio mio padre.” “Ah, perché tu devi odiarlo?” “Perché ha tradito mia madre. La fa ridere?” “Sì, perché non ce lo vedo.” “Lo conosce così bene?” “Diciamo che ho avuto un incontro in ato e mi è bastato.” “Come lo ha conosciuto?” “Io facevo il mio lavoro, lui il suo. Ci siamo incontrati in un salotto.” “In un salotto?” “Precisamente. È lì che ha perso la mano.” “È stato lei allora? È stato lei a staccargliela?” “Beh, sì. Anche se io non gliel’ho nemmeno toccata.” “Cosa vuole dire?” “Ah, quanto è curiosa questa qui. Se l'è tagliata lui alla fine, credo. Io non c’ero quando è successo.” “Perché dice che mio padre non ha tradito mia madre?” “Io non dico. Io so solo che non tradisce nessuno chi è pronto a fare certe cose.

Chi è pronto a fare certe cose mostra profonda lealtà a chi è legato.” “A fare cosa?” “Adesso basta con l'intervista. Mi sono stufato. Dormi bene piccola, ci vediamo domani.” “Mio padre è in una casa di riposo, ha più di ottant’anni. Lo lasci stare.” “Questo non posso farlo, piccola mia.”

Giovedì 2 luglio 2009

Anch’io ne direi quattro a Lella, chiederle come si può trattare un padre che le ha sempre voluto bene, che l’ha cresciuta, che l’ha mantenuta e protetta. Si tenga tutte le sue dannate braghe, che me ne faccio io? Marta, dimmelo tu, cosa le ho fatto che mi odia così tanto? “Si può sapere perché hai preso su Franti?” “Che vuoi? Fatti gli affari tuoi.” L’infermiera odiosa è davanti a noi, insieme a lei l’immancabile Marco. “Adesso io vado a dire alla direttrice. Qui dentro non puoi fare tutto quello che vuoi, sbarbatella.” “Potrei andare anch’io alla direttrice.” “E per quale motivo, mia cara?” “Per raccontarle di come tratti certi pazienti, dei tuoi modi, dei sedativi.” “Provaci solo che ti rovino.” “Ah, sì? Che paura.” Le due si avvicinano, si guardano dritte negli occhi con espressione di sfida. Marco ridacchia come un ebete, non ci pensa nemmeno a mettersi tra di loro. “Stai attenta, sbarbatella, un giorno di questi ti pentirai della tua sfacciataggine.” “Sì, va bene. Adesso però levati che porto Gianni in stanza.” La vipera si scansa e ci lascia are. “Non preoccuparti per quella lì. Si crede di essere la primadonna. Lo sai che un giorno l’ho vista insieme a Marco mentre facevano…”

“Sì, ho capito. Non serve scendere nei particolari.” “Adesso devo andare, Gianni. È stato un bel giretto. La prossima volta ti porto ancora, non è un problema quella là.” “Va bene.” “E non pensare a quella figlia ingrata. Non si rende conto di che papà ha.” Ha la voce rotta dalla commozione. “Grazie per la gita.” “Non c’è di che.” Mentre se ne va il suo grosso sedere ondeggia teneramente dentro le braghe bianche della divisa. Mi fa tornare in mente Luigi: anche a lui quel fondoschiena è piaciuto stamattina. È venuto solo poche ore fa a trovarmi ma sembra sia ato un secolo. Il caso Solana irrompe brusco nella mia memoria. Non mi piace. Ho un brutto presentimento, non me lo so spiegare razionalmente. Lo sento e basta. Guai in vista, Gianni, stai sul chi va là. Quasi quasi torno a vedere il fascicolo al computer, Giancarlo permettendo. Forse in fondo è piuttosto semplice risalire a dove si nasconde il nostro amico.

Giovedì 10 luglio 2008

Manca poco alla cena, la prima che faccio in questo posto. Sono entrato nel primo pomeriggio, forse perché la mattina si doveva ripulire la stanza dalle tracce del precedente ospite. Defunto, naturalmente: qui dentro si esce solo in orizzontale. Ho pranzato da mia nuora, poi Massimo ci ha raggiunti dal lavoro e insieme abbiamo salito questa collina con la Volvo. Mi troverò a cenare insieme a tante facce sconosciute; beh, qualcuno lo conosco già: Giancarlo, Pina e i membri del Club delle Vedove Nere. Non ho assolutamente voglia, piuttosto me ne sto qui dentro. “Allora, si va a mangiare, Gianni. Non hai fame? È ora.” Parli del diavolo e… Se il diavolo avesse questo aspetto andrei dritto all’inferno senza pensarci un attimo, giuro. La dolce infermiera bionda mi allunga il braccio come per invitarmi a ballare con lei. “Su, ti accompagno. Così conosci un po’ di gente.” “Sì. Mi devo lavare le mani…” La mano, Gianni, la mano. Ne hai una sola. In effetti una certa fame ce l’ho: mi accorgo che, per un motivo o per l'altro, non tocco cibo da mezzogiorno. La merenda l’ho saltata: ero troppo intento a giocare a carte con Pina e soci. Mi hanno preparato in stanza un succo e una brioche ma non ho toccato nulla. Suona il cellulare. Proprio adesso che sto uscendo con Beatrice. Maledetto chi ha inventato il cellulare. “Come va? Tutto bene?” È Massimo, vuole accertarsi che non sia scappato. “Tutto bene. Sto andando a cena.”

“Allora ti lascio. Quando hai bisogno chiama, d’accordo?” “D’accordo.” “Ti saluta Luisa.” “Ah, sì. La saluto anch’io.” “Ciao adesso.” “Ciao.” “Era tuo figlio?” “Sì.” “È premuroso, un bravo ragazzo.” Ragazzo? Ma se va per i quarantacinque. “Sì, si preoccupa sempre lui.” “Fai silenzio, Gianni… Ad avercene di figli così.” E mi strizza l’occhio. Questa qui si è fatta un’idea sbagliata. Questa qui adesso mi porta nel piano abbandonato e mi sevizia. Ma sì. La mia stanza è al piano terra; i piani superiori sono riservati ai non autosufficienti: quelli sono assistiti totalmente e difficilmente si muovono da dove sono. C’è anche un reparto Alzheimer, l’ho letto sull’opuscolo sopra il mio comodino: super attrezzato, ultramoderno. Ecco che faccio la mia entrata in società. “Dove vuoi sederti, Gianni?” Mi guardo intorno per trovare un posto da cui possa non essere notato. “Vai là, è libero.” Beatrice mi indica un tavolo occupato da tre persone che non conosco.

Sembrano tranquilli, e poi ho una fame boia. Spero non abbiano voglia di attaccare bottone. Vado a sedermi sulla quarta sedia. “Ci vediamo dopo, Gianni. Ciao.” “Ciao…” “E questo chi è?” “Uno nuovo.” “È arrivato oggi.” Una battuta per uno, poi i miei tre compagni di tavolo non spiccicano più una parola. Io non ci tengo più di tanto a cavar loro fuori una conversazione, tantomeno loro sono disposti a socializzare. Non era quello che volevo? Mi metto a mangiare tutto quello che mi viene portato: una crema di asparagi, poi una omelette e verdura cotta, infine una tazzina di mele cotte. Faccio piuttosto alla svelta visto che il mio pasto non viene interrotto da nessuno che voglia conoscermi. Uno dei miei compagni di tavolo è magrissimo, gli altri due piuttosto corpulenti. Chissà che lavoro facevano. Sicuramente non un’attività a contatto col pubblico, non può essere, taciturni come sono. Chi è qui dentro ha alle spalle una famiglia con una certa disponibilità finanziaria. Forse sono imprenditori che si sono fatti dal nulla, magari un tempo questo era un contadino, quell’altro operaio, poi hanno trovato il bandolo giusto e hanno sfondato che so, il ciccione alla mia destra nella vendita di pennelli, lo stecchino di fronte nella produzione di mangime per animali esotici. Sono curioso, vorrei investigare sul loro ato. Ma smettila, mi fai ridere. Voglio solo andarmene di qui, non mi piacciono queste facce. Io non voglio condividere il tavolo su cui ceno con questi esseri raggrinziti e silenziosi. Adesso ordino il caffè, chiedo il conto e me ne torno a casa. A casa. Là ci sei ancora tu, amore.

Lunedì 11 luglio 1997

Sono in aeroporto. Mi guardo intorno in continuazione: basta che uno dell’agenzia mi veda e io posso dire addio alla mia carriera. D’istinto nascondo il moncherino facendo finta di tenere la mano in tasca. Ho una polo sportiva che stona con la ventiquattrore. Non volendo dare nell’occhio ho optato per un abbigliamento casual ma ora mi accorgo che con una giacca sarei meno notato. Mi accingo a effettuare il check in. Mi chiederanno un documento d’identità e il aporto. Intorno a me la folla dei eggeri attende pazientemente il proprio turno. “A che punto sei?” “Mi sto imbarcando, Luigi. Lì come va?” “Il capo ha solo piantato una bestemmia. Non credo sospetti nulla, per ora.” “Bene.” “Ricordati di chiamarla appena sei a New York. Ce l’hai l’indirizzo dell’albergo?” “Sì, ho tutto.” “Sei armato?” “Sì.” Perché mento a Luigi? “Fammi sapere non appena sei di là.” “Coprimi, mi raccomando.” “Sei in una botte di ferro, vecchio mio. A dopo.” “Cancella il mio nome dalla lista dei eggeri dal volo di andata non appena

tocco terra.” Il mio collega è un hacker con i fiocchi, per lui questo è un gioco da ragazzi. “Consideralo fatto. Hai altro da dire? Non posso stare al cesso una vita.” “Ok. Ci sentiamo.” L’aereo è piccolo: due file di tre posti ciascuna. Non si può pretendere più di tanto da un low cost. C’è una hostess più due steward rasati a zero, uno ha l’aplomb di un cameriere inglese. L’hostess è una bella ragazza: avrà suppergiù ventisette anni. Sorride a tutti con un’espressione distaccata. “Buongiorno.” “Buongiorno.” “Faccia vedere il biglietto, così le indico il posto.” “Grazie.” È gentile nei modi, raffinata. Andrebbe bene per Massimo. Mi porta fino al sedile e mi mette la ventiquattrore nel cassetto portabagagli. “Ti chiami?” “Luisa, signore. Faccia buon viaggio.”

Venerdì 13 luglio 1984

Devo essere stato incosciente per giorni. Riesco a ricordare ben poco, sono estremamente debole. Solo ora incomincio a essere un po’ più lucido. Sento una fitta terribile alla mano destra. Intorno al mio letto c’è una zanzariera, io sono in mutande. Ho una vistosa fasciatura che va dal gomito fino alla… Ma dov’è? Dove diamine è? “Sta’ calmo, Gianni, sei in un ospedale locale.” Luigi fa capolino dalla zanzariera, anche lui è stato medicato. “Luigi, cosa mi è successo?” “Non ti ricordi più, capo? La villa, il fuoco, il maledetto pervertito?” “Luigi, la mia mano, non la vedo.” “Ti credo, te l’ho tagliata io.” “Cosa hai fatto tu?” “Me l’hai detto tu, capo. Io ho solo obbedito. E forse ti ho salvato la vita. Fammi un favore però, di non darmi più un ordine del genere.” Scherza ma ha le lacrime agli occhi. Vuole sdrammatizzare ma è profondamente turbato da ciò che ha davanti. Ora ricordo. In un istante tutto torna alla mia memoria. “Ah, sì.” “Ah, sì? Mi ordini di segarti la mano col coltello ed è tutto quello che sai dirmi? Maledetto figlio di puttana, non farmelo più, se no giuro che t’ammazzo.” “Tu sei il mio uomo migliore, tu mi hai salvato la vita, ricordatelo.”

Luigi non mi risponde. Si mette a camminare nella stanza e si asciuga gli occhi con l’avambraccio. “La squadra?” “Tutti salvi. I codardi se la sono data a gambe.” “In che città siamo?” “Nella capitale, Gianni. Nella capitale di questo fottuto paese di merda. Appena sei guarito ce ne andiamo di qui.” “Sì, Luigi, ce ne andiamo. Adesso però cerca qualcuno, ho bisogno di un calmante per il dolore.” “Va bene, Gianni. Se riesco a farmi capire. Sai, il mio inglese è un po’ arrugginito.” Naturalmente fa dello spirito: sa perfettamente quattro lingue oltre alla propria. “Vai, Luigi.” “Vado…” Esce dalla stanza e rimango solo col mio dolore. Perché è andato storto? Cosa è successo laggiù? Non riesco a pensare ora, il male è troppo forte. La mia mano destra, non mi sembra vero di non averla più. Eppure è come se sentissi tutte le cinque mie dita bruciare. No, Gianni, sono le terminazioni nervose recise che danno questa sensazione. Il cosiddetto arto fantasma, mi è capitato di leggere un articolo in proposito. La mia mano, la mia mano, la mia maledetta mano. Cosa ho fatto di male? Perché, Dio, mi hai punito così?

Quarantaquattro anni prima

“Si è svegliato.” “Che ore sono?” “Le tre di mattina. Vado io.” “Sei un amore.” Mezzo rintontito mi dirigo verso la cameretta. Massimo è nella sua culla, si agita senza piangere. Sembra voler conversare con me nella lingua dei poppanti, i suoi occhioni aperti mi fissano nell’oscurità. “Devi dormire, da bravo, dormi.” Lo prendo in braccio ma non vuole proprio prendere sonno. Lo cullo un po’, inizio a girare per la cameretta. “Su, dormi.” “Va bene papà, anche se, a dire la verità, non ne ho alcuna voglia.” “Cosa? Come fai a parlare, hai solo un anno, Massimo.” “Lo so, non serve che me lo ricordi. So contare, sai?” “È impossibile. Tu non puoi parlare.” “Pensala come vuoi, papà. Comunque ho un messaggio da darti.” “Un messaggio? E da chi?” “Da un angelo, credo proprio sia il tuo angelo custode.” “E cosa dice il messaggio?” “Mah, credo sia una frase del tipo ʻapri il cassetto verde, lì dentro c’è la

salvezzaʼ.” “Il cassetto verde? La salvezza? Che vuol dire?” “E che ne so. Sono un lattante, io.” Mi sveglio nel letto, accanto a me Marta non c’è. Eccola di ritorno. “Avevi detto che andavi tu, poi ti sei messo a ronfare.” “Ma…” “Fa niente. Adesso dorme. La prossima volta tocca a te.” E tira su di sé il lenzuolo. Dopo poco sento il suo respiro farsi lento e regolare. Il cassetto verde, dove sarà mai? È un sogno, mi dico, solo uno stupido sogno.

Sabato 11 luglio 2009

Luigi è seduto sul mio letto, io sto in piedi, Massimo è ancora sulla sedia. Il mio collega ha un’espressione seria, di chi sta meditando sul da farsi. “Bel casino. Chi può volerti male, Gianni? Fa’ mente locale, cerca di ricordare.” “Non lo so, Luigi.” “Magari è solo un rapimento per riscatto. Forse qualcuno ha rapito mia sorella per fare un po’ di grana. Basta che lo paghiamo e risolviamo tutto.” “Temo che non sia un riscatto.” “E perché mai, papà, deve sempre esserci dietro un intrigo internazionale per te?” “Ha ragione tuo padre, Massimo. Chi rapisce per il riscatto va a colpo sicuro, sceglie una famiglia molto benestante.” “E noi non siamo una famiglia molto benestante?” “State bene, sì, ma c’è gente molto più ricca in circolazione. Sicuramente è legato allo spionaggio.” “Bene, papà, allora vuol dire che è ancora colpa tua, hai combinato di sicuro una sciocchezza. Non riesci a farti tornare in mente niente? Beh, sarà difficile, per anni non ti sei nemmeno ricordato che avevi una famiglia.” Il tono sarcastico di Massimo mi ferisce. Stavolta non reagisco e rimango in silenzio. “Smettila, Massimo. Ora bisogna risolvere questo problema, metti da parte il tuo odio per tuo padre, in questo momento il tuo atteggiamento è controproducente.” “Controproducente. Come diavolo parli, Luigi? Ah, adesso capisco. Anche tu sei come il tuo collega, siete della stessa pasta voi due, è per quello che andate d’accordo. Anche tu sei uno che si è dimenticato di avere qualcuno che lo

aspetta a casa. Facile mettere su una famiglia e poi far finta che non esista.” “Smettila, Massimo.” “Gianni, cosa succede?” Beatrice si è affacciata alla porta. Non deve sapere niente, nessuno deve sapere niente per ora. “Solo una piccola discussione.” “Va bene… Quando vuoi, chiamami.” “Sì.” Non appena se ne va, Massimo rincara la dose. “E chi è? La tua nuova figliola, papà? O te la fai di nascosto?” Luigi si alza di scatto e gli va vicinissimo. “Falla finita, capito? Ma cos’ha tuo figlio, Gianni? Adesso se vuoi veramente aiutare Lella stattene zitto per un po’.” “Faccio molto meglio. Vado dritto alla polizia.” “No, non lo fare, Massimo.” “L’ho già fatto.” Prende la giacca di scatto ed esce sbattendo la porta.

Mercoledì 8 luglio 2009

Il caro paparino, guarda che hai combinato. Sei solo capace di far soffrire chi ti sta intorno. Chissà dove sono. Ero bendata, tappi alle orecchie. Il viaggio è stato lungo, tre, quattro ore al massimo. Forse siamo in un altro Stato. Ma come sarebbe possibile, me ne sarei accorta se mi avessero messo su un aereo o su una barca, la Gran Bretagna è un’isola fino a prova contraria. È vero, mi sono anche assopita durante il tragitto, ma me ne sarei accorta lo stesso. Questa stanza è piuttosto piccola, finemente arredata. Un divano a tre posti, un letto matrimoniale, una parete armadio in mogano. Ho a disposizione anche un bagnetto. C’è sempre la luce elettrica, l’unica finestra è bloccata, non so come. Posso girare liberamente qui dentro ma non posso uscire, nemmeno guardare fuori visto che oltre il vetro c’è un pannello bianco. Forse ora è notte fonda. Sento un rumore, proviene dall’esterno. È un rumore continuo, familiare, ma non riesco ancora a individuarne la fonte. Devo assolutamente capire dove sono. E poi devo recuperare un cellulare, a ogni costo.

Giovedì 2 luglio 2009

Sono davanti al computer. C’è anche Giancarlo, è seduto lontano da me ed è particolarmente assorbito da quella che ha tutta l’aria di essere una ricerca su Internet. Per un attimo ho l’impressione che sia fuori posto qui: dopotutto non è così anziano, avrà su per giù sessantanove anni se non di meno. Che ci fa un uomo così giovane in un ospizio? Non pare abbia un problema fisico tale da giustificare la sua presenza; certo non vedo per lui un ato da atleta. Inserisco la pen drive e torno a studiare il caso Solana. Una foto mostra un particolare che prima ha attirato la mia attenzione. Dove diavolo è, dannazione... Per cinque minuti giro a vuoto, poi la ritrovo. C’è Solana a tavola con una serie di personaggi. Mandando il mouse sulla testa di ognuno e, cliccando, si accede a un file contenente ogni informazione a disposizione per il tizio scelto. Ma non è il curriculum di questa bella gente che m’interessa. È lo sfondo. Strano che nessuno all’agenzia se ne sia accorto. La foto ha più di dieci anni, Solana è vestito casual; pare tranquillo, si fuma un sigaro. La parete dietro di lui è particolare: è interamente ricoperta da legno. La foto è stata recuperata da un agente infiltrato. L’agente, stando al rapporto, è semplicemente scomparso nel nulla; magari è stato sciolto nell’acido, aggiungo io. C’è un quadretto alle spalle di Solana. Senza pensare sposto il mouse sul particolare e automaticamente viene fatta una zoomata. L’immagine si sgrana ma riesco ugualmente a vedere che dentro la cornice c’è un pesce. “È una foto che ti ha mandato tuo figlio?” Accidenti, quanto avrà visto, da quanto tempo stava alle mie spalle? “Ah, sì.” Rapidamente esco dal file. “Continua pure, non volevo disturbarti. Io per oggi ho finito, me ne vado. Alla prossima partita.”

“Alla prossima.” Se ne va, maledetto scocciatore, ha un tempismo perfetto per venirmi a rompere, l’ho sempre detto. Un pesce. I pesci stanno nell’acqua, forse è questo il punto di partenza su cui lavorare.

Giovedì 10 luglio 2008

“Ah, ecco dov’è Gianni. Che ci fai là? Vieni qui con noi, lascia quelle cariatidi.” Pina non si preoccupa di offendere i miei compagni di tavolo. Ha la voce alta, quasi grida. Io divento rosso dalla vergogna. “Asociale che non sei altro, vieni che si beve il caffè insieme.” “Il caffè?” Pina si mette a ridere. Resisti Gianni, ce l’avevi quasi fatta a evitarla. Tanto tra dieci minuti si deve uscire tutti da qui. Mi alzo senza salutare i tre, che non sono proprio un esempio di simpatia. “Allora, mangiato bene?” Questa è Rosa, che accompagna la domanda con uno sguardo dolce. “Sì, abbastanza.” Anche stavolta Giancarlo è della compagnia. Resta in silenzio, per fortuna. “La prossima volta mangi con noi, se no mi offendo.” “Pina, mi offendo anch’io, sai?” “Cara Rosa. Questo fusto è mio e solo mio.” “Lo vedremo.” M’aspetto che inizino a litigare, ma alla loro età è tutto un gioco, anche la rivalità in amore. Amore, cosa sto dicendo? Devo immediatamente andarmene da qui. “Devo…”

“Lavarti i denti? Andare a nanna? Cosa devi fare, Gianni, che hai tanta fretta?” “Ho detto a mio figlio che l’avrei richiamato.” “Ah, beh. Se è così. Hai il permesso. Quanti anni ha tuo figlio?” “Quasi quarantacinque.” “Come si chiama?” “Massimo.” “E cosa fa?” “L’avvocato.” “Ah, la sapete quella sugli avvocati?” Stavolta è uno nuovo che parla. Non l’ho mai visto prima d’ora, ha due guance tonde e piene di capillari, sarà alto un metro e cinquanta. Nel suo cranio pelato sono incastonati due occhietti vispi. “Sì, Nicola, dicci.” “Lo sapete che differenza c’è tra una battona e un avvocato?” Nicola resta in silenzio per creare l’attesa. “Su, Nicola. Forza. Vogliamo saperlo.” “La prima ti fotte solo finché sei vivo.” E si mette a ridacchiare da solo. “Che brutta. E lo dici davanti al padre di un avvocato? Magari lui è tutto orgoglioso del suo figliolo. Sei orgoglioso di tuo figlio, Gianni?” “Sì, direi di sì.” “Direi di sì? Orgogliosissimo, devi dire. Un figlio avvocato, ne ho sempre sognato uno.”

Questa Pina inizia a innervosirmi, non mi sento a mio agio. Continua a punzecchiarmi, chissà perché. Ed è solo il primo giorno. “Signori, adesso sparecchiano.” “Sì, adesso andiamo. Ah, Giovanni Franti, che tipo strano che sei.” Non le rispondo, se aprissi bocca le chiederei che cavolo vuole da me. Resto zitto e le faccio un sorrisino stupido. Finalmente si esce. ato dalla mia scusa messa su al volo mi allontano dagli altri. Torno nella mia stanza e d’improvviso mi sento come uno che ha commesso un errore. Marta, perché mi sento sbagliato ora? Guardo il cellulare: in realtà vorrei veramente chiamare Massimo.

Lunedì 11 luglio 1997

Osservo la città dall’alto mentre l’aereo compie una virata per mettersi sulla rotta per gli Stati Uniti. Sembra tutto finto, le case, le strade. Un plastico. Sono quasi contento di fare questo viaggio, è da un po’ di tempo che non mi muovo dalla sede. Dopo l’incidente alla mano ho sempre svolto lavoro di ufficio e, ora che torno in trasferta, ho la sensazione di risvegliarmi da un lungo sonno. Spero solo che sia una missione fruttuosa e che Borlotti non venga a saper niente. Mio figlio Massimo, non gli ho detto nulla. Ma sì, dopodomani sono già di ritorno. È da qualche anno che lavora come avvocato; ha studiato tanto, è sempre stato un ragazzo volenteroso e con la testa sulle spalle. Vive da solo, già prima della morte di sua madre. Sono ati tre anni da quando se ne è andata. Un anno prima Massimo è uscito di casa. È stato traumatico per lui, forse è quello della famiglia che ha sofferto di più. A un certo punto è diventato taciturno; prima era gioviale, come sua madre. “Buongiorno. Tutto bene? Gradisce una bevanda?” “Luisa, giusto?” “Sì, Luisa.” “Sei sposata, Luisa?” La ragazza fa una breve risatina nervosa. “Oggigiorno è difficile trovare l’anima gemella.” “Già.” “Bibita o succo?” “Bibita.”

“Aranciata o Coca-Cola?” “Aranciata.” “Ho un figlio, sai, Luisa?” “Bene. Me lo faccia conoscere, se ha preso dal padre deve essere un uomo affascinante.” Come conseguenza della propria battuta, Luisa diventa rossa come un pomodoro. La sua aria distaccata svanisce d’un tratto. Che bella ragazza. “Fa l’avvocato. Ti do il suo biglietto da visita, ne ho uno nel portafoglio… Ah, eccolo.” “Bene, ho proprio bisogno di una consulenza legale in questo periodo. Adesso devo andare. Lei si chiama?” “Giovanni. Giovanni Franti. Mio figlio è Massimo, ma c’è scritto tutto lì sopra.” “È stato un piacere, Giovanni.” “Anche per me.”

Martedì 17 luglio 1984

Oggi sto un po’ meglio. Il dolore è sempre forte ma più sopportabile, se sopportabile può definirsi l’amputazione di una mano nel modo in cui mi è stata praticata. Ma sono vivo, continuo a ripetermelo per convincermi del fatto che per un valido motivo ho perso un consistente pezzo del mio corpo. Devo avvertire Marta, devo dirle che non arrivo presto. Per ora non deve sapere niente, assolutamente niente. Come faccio a prepararla, dio mio. Non posso presentarmi così, senza che lei ne sia al corrente. Sono davvero preoccupato per come reagirà; non che lei non sia una donna forte, ma questa è grossa. Nella mente m’immagino mille volte la scena: Marta che piange, che si dispera e io che non so che dire e che fare. “Come va, capo?” Tutta la squadra è venuta a trovarmi. Luigi ha di nuovo il sorriso sulle labbra. “Meglio, grazie.” “Tra poco partiamo, ce ne torniamo a casa.” “Sì, Luigi, torniamo.” “Quel maledetto lo acciuffiamo, è solo questione di tempo.” Luca accompagna le sue parole col gesto di chi cattura una mosca al volo chiudendo la mano di scatto e formando un pugno. “Lo spero, quel farabutto la paga.” Non so, ma l'istinto mi dice che non sarà così facile ritrovarlo. Questa mia riflessione però la tengo per me, non voglio spegnere l’entusiasmo nei miei ragazzi. “Siete stati tutti bravi. Meritate una promozione, avete rischiato la vita per

salvare la mia, non mi dimentico di voi, statene certi.” “Lo spero bene, vecchiaccio. Adesso però vieni con noi che andiamo a berci una bella birra.” “Luigi, non posso, il dottore…” “Ma va là, prendi su che andiamo. Appena fuori di qui, girato l’angolo, c’è un posticino che merita.” “Devo riposare.” “Hai riposato abbastanza, caro mio. Hai bisogno di far sangue, con tutto quello che hai perso. Andiamo, per una cosuccia del genere fai tante storie. In fondo vuol dire che non ti serviva.” “Forse hai ragione, Luigi, forse non mi serve avere una mano per ogni braccio.” Ci scherzo sopra, voglio che l’umore dei ragazzi rimanga alto. Dentro di me però trattengo il pianto.

Quarantaquattro anni prima

È la vigilia di Natale, il primo che iamo in tre. I pacchetti sotto l’albero per Massimo sono numerosi. Vestitini, giocattoli, chi più ne ha più ne metta. Certo, è ancora troppo piccolo per provare entusiasmo davanti a un simile ben di dio. Mi sono fatto dare una settimana di ferie, ho fatto fatica a ottenerla ma ci sono riuscito. Per una settimana può scoppiare il mondo, io sto con la mia famiglia. Massimo si dimena con le gambe e mi fa un sorriso grosso come una casa. “Guarda, Marta, guarda come vuole bene al suo papà.” Suona il camlo. “È lei Giovanni Franti?” “Sì. Cosa vuole?” “Sono stato fortunato a trovarla.” “Lei chi è?” “Un amico. Le consegno questo.” L’uomo indossa un impermeabile; l’oscurità e il cappello calcato sulla fronte m’impediscono di vederlo bene in faccia. Mi porge un pacchetto. Dalla forma si direbbe una scatola da scarpe. “Arrivederci e buon Natale.” “Un momento, aspetti.” È troppo tardi, il tizio scompare nel buio. “Che c’è, Gianni?” “C’era un uomo fuori, mi ha dato questo...”

Senza pensarci su in un secondo rompo la carta e apro la scatola. “Una chiave?” Non so perché mi viene da guardare Massimo: dal salotto lui mi sorride di nuovo.

Sabato 11 luglio 2009

Massimo se ne è andato e non ho fatto niente per impedirlo. Mi ha colto di sorpresa, non sono riuscito a reagire. Luigi è sparito anche lui, si è messo a inseguirlo. Sono solo qui, incapace di far nulla. Sono disperato, resto immobile, seduto sul letto. Non c’è speranza, non salverò mai mia figlia.

Dannato Massimo, eccolo, sta per uscire. Adesso lo sistemo. “Dove diavolo vai, torna indietro.” “E mollami il braccio. Tu e mio padre siete proprio una bella coppia.” “Tu proprio non vuoi capire.” “Capire cosa? Che cosa c’è da capire? Lella è stata rapita e lui mi dice di non chiamare la polizia. Si vede che ha la coscienza sporca.” “Fermati un momento, maledizione. Devi aver rispetto per tuo padre.” “Ma quale rispetto. E lui? Ha avuto rispetto per noi?” “Sei solo un bambino, hai quasi cinquant’anni ma sei solo un bambino.” “E tu? Chi credi di essere per giudicarmi, guardati, guarda la tua famiglia, ti hanno dato una pedata nel didietro e sei fuori di casa. È stata più brava tua moglie di mia madre… Ah!” “Te la sei cercata, Massimo. Va’ dove vuoi, avverti pure la polizia. Ricordati però: se Lella muore sarà solo colpa tua.”

Mercoledì 8 luglio 2009

Un generatore. Deve essere vicino. E adesso cosa succede? Il divano, il letto, i mobili intorno iniziano a vibrare leggermente. Il generatore va su di giri. Ho capito. Stiamo salpando. È una grossa imbarcazione: quando era ferma non avvertivo alcun rollio. Forse una nave da crociera, no, impossibile. Come mi avrebbero caricato senza dare nell’occhio? E poi avrebbe mandato un suono di tromba. Come può questo bastardo possedere una nave?

Giovedì 2 luglio 2009

Ma certo, che stupido a non averci pensato prima. Il nostro caro Solana si muove sull’acqua. Una grossa imbarcazione, sicuramente, magari uno yacht super attrezzato, per forza, se gli tocca campare in mezzo all’oceano. Può essere poi che abbia qualche porto segreto in qualche isola sperduta. Questo spiega in parte la sua assenza sulla terraferma. Certo, rimane il fatto che un simile mezzo difficilmente può are inosservato. Figuriamoci. D’un tratto mi sento un tantino sciocco. La mia teoria ora la trovo banale, senza consistenza. Seccato, chiudo il programma ed estraggo la pen drive. Il computer protesta, si apre una finestra che mi avvisa che non è stata seguita la regolare procedura per scollegare una memoria esterna. Me ne infischio della procedura. Caccio la chiavetta in tasca, per un attimo ho la tentazione di gettarla nel cestino. “Accidenti a te. È finita, non sono più capace.” “Capace di cosa?” Pina.

Giovedì 10 luglio 2008

Il primo giorno nella prigione di lusso volge al termine. Sono sul letto e guardo la televisione. Davanti allo schermo ho quasi l’impressione di essere ancora a casa: danno lo stesso programma che la settimana scorsa seguivo sulla poltrona del mio salotto. L’immutato palinsesto televisivo crea una sorta di continuità con la mia vita di prima che mi rassicura. I nervi si distendono, pian piano mi addormento. D’un tratto sono di nuovo sveglio. Il programma, un documentario a puntate sulla storia del regime fascista, è ormai finito da un pezzo. Decido di spegnere la luce… Dov’è? Dannazione, che fine ha fatto l’interruttore? Poi mi ricordo che non è la mia camera, la disposizione dei pulsanti è diversa, qui. Il condizionatore emette un lieve ronzio. Mi fa venire in mente la cella frigorifera di un obitorio. Lo spengo e apro la finestra: fuori si sente solo il rumore lontano delle automobili della città. Inizia a far caldo ma non m’importa. Piuttosto di sentire il motorino elettrico dell’impianto di climatizzazione, grondo di sudore. Per fortuna stanotte c’è un po’ di brezza; sento che mi accarezza il corpo e mi fa star bene. Che giornata, dio mio. Sembra sia durata un mese. Ne ripercorro i momenti salienti e ho l’impressione che sia stato tutto un sogno.

Lunedì 11 luglio 1997

Sono al JFK. Mentre esco dall’aereo saluto Luisa. Sorride a ogni eggero che scende; quando arrivo io fa per porgermi la mano. Sto per dargliela ma mi trattengo: stringerebbe solo aria. “Mi scusi, non ci avevo pensato.” È imbarazzata, per tranquillizzarla appoggio la mia mano sinistra sul suo braccio allungato e le sorrido. “Succede sempre; forse è perché porto con tale disinvoltura il mio moncherino che do l’impressione che la mano ce l’abbia ancora. A presto, Luisa.” New York, finalmente. Non sembra vero. La osservo dal finestrino del taxi affascinato come quando la vidi per la prima volta. I suoi palazzi, il suo asfalto, la sua umanità brulicante. Più delle architetture, delle vedute, delle luci sono però le persone che mi attirano: i loro volti, i loro vestiti, le razze e culture messe una accanto all’altra alla fermata dell’autobus. Mi piacerebbe conoscerne l’esistenza, anche solo come ano la giornata. L’incontro è fissato per stasera alle otto. Ho già contattato la Mantivano al cellulare: è un tipo dai modi spicci. Mi piace la ragazza.

Domenica 22 luglio 1984

“Sono io.” “Gianni, si può sapere cosa è successo? Dovevi tornare da un pezzo, non hai chiamato, sono in pensiero, maledizione, non pensi ai tuoi figli, eh, disgraziato?” “Marta…” “Adesso che scusa tiri fuori, eh? Sono stanca delle tue tirate, stanca! Adesso quando torni, si può sapere o non me lo dici nemmeno?” “Dopodomani, forse.” “Forse? Torna quando vuoi ma non venire qui. È finita, maledetto bastardo, è finita!”

Quarantatré anni prima

Sto rovistando nei cassetti del mobile della cantina alla ricerca di un manuale d’istruzioni di un tosaerba. Tra carte e cianfrusaglie trovo una piccola chiave. Sembrerebbe una chiave d’armadietto, è piccola e luccicante. Poi mi ricordo tutto: Natale, l’uomo misterioso, il pacchetto. Me l’ero completamente dimenticata, l’avevo creduto uno scherzo. Non lo so, ma sono convinto che sotto c’è un qualche disegno, adesso che ce l’ho di nuovo davanti mi dà l’idea che sia un messaggio, un promemoria. Ma per ricordare cosa? “Gianni, l’hai trovato?” “Un momento.” Non mi sono accorto che Marta è scesa a cercarmi. Tiene le mani sui fianchi e mi guarda con aria interrogativa: deve essere tanto tempo che sono qui sotto. Non voglio che mia moglie mi creda un pazzo. Ricaccio la chiavetta nel cassetto. “Cosa hai messo lì dentro?” “Niente.” “Sei strano, Gianni. Tutto bene?” “Sì. Perché? Ti sembro strano?” “Hai la faccia di uno che ha visto un fantasma.” “Ah, ecco il manuale. Così la faccio partire quella trappola.” “Vado su. Massimo deve mangiare.” “Sì, arrivo anch’io.” Marta si allontana e io rimango solo coi miei pensieri. Chi sarà mai l’uomo che

mi ha dato la chiave? Riapro il cassetto, recupero la chiave e me la infilo in tasca.

Sabato 11 luglio 2009

Luigi è tornato indietro. Mi ha detto che ha seguito Massimo, che voleva farlo ragionare ma che non ci è riuscito. “Mi dispiace, Gianni. Mi sono fatto prendere dalla rabbia. Non sono mai stato un bravo diplomatico.” “Se ne sarebbe andato comunque. Allora siamo ancora io e te, da soli, come ai vecchi tempi.” “Pare di sì.” “Non so proprio che fare, amico mio. Alla mia età, una situazione del genere.” “Lo so, è un macello. Ti ricordi qualcuno che possa avercela tanto con te?” “Nessuno.” “Su, reagisci, dannazione. Tira fuori un nome.” D’un tratto mi entra nella testa quel nome. Non dico nulla a Luigi: mi sembra una coincidenza eccessiva, un’impressione influenzata dal mio stato d’animo. Una sciocchezza. “Non lo so… Ho una tale confusione nella testa e tu non mi aiuti se fai così.” “Bisogna trovare questo maledetto rapitore, dobbiamo rintracciarlo prima che lui agisca.” “Lo so, Luigi, lo so.” Prima che agisca significa prima che uccida Lella. “Papà.” Sulla porta c’è Massimo, è in lacrime.

“Non volevo, papà.” “Adesso siediti e sta’ calmo.” Luigi gli allunga la sedia in segno di pace. “Cosa posso fare? Come posso rendermi utile?” “Per ora devi solo aspettare che si faccia vivo, te l’ho detto.” “Va bene.” Massimo è docile ora, il mio Massimo. Ha ragione su tutta la linea ad arrabbiarsi. Ora però non è il momento. Quando tutto sarà risolto spero di avere la possibilità di rimediare in qualche modo. A ottantadue anni? Cosa vuoi rimediare, sciocco vecchio rimbambito. “Gianni.” “Sì, Luigi?” “Sei tra noi o la demenza senile ha preso il sopravvento?” Luigi davanti a me sorride. Lo conosco da tanto tempo: basta guardarlo in faccia per capire che ha un’idea.

Giovedì 9 luglio 2009

Qualcuno bussa alla porta. Che gentile che è, quasi non mi fa sentire un ostaggio. “Buongiorno, signorina.” Ecco lo sfregiato. “Dormito bene stanotte?” “Sì, a parte un po’ di movimento.” “Ah, c’è il mare cattivo. Un’onda dopo l’altra...” “Dove andiamo?” “Ancora, perché fare sempre la stessa domanda?” “Perché voglio una risposta.” “Non mi piace questo atteggiamento, mia cara.” “Vaffanculo. Non me ne frega niente se non le piace.” “Impertinente puttanella, tu la paghi insieme a tuo padre, lui ha distrutto la mia famiglia, io distruggo la sua.” Perde le staffe, forse per me è un vantaggio. “Cosa è successo alla sua famiglia?” “Non sono affari tuoi.” “Beh, vista la situazione sono affari anche un po’ miei.” “Ah, vuoi sapere? Tutti uccisi: moglie, figlio di dieci anni, figlia di sedici.”

Mi guarda dritto negli occhi mentre lo dice ma non vedo neanche un filo di commozione nella sua espressione. Mi fa sempre più paura quest’ uomo. “Adesso contenta?” “Li ha uccisi mio padre?” Sembra preso di contropiede, ha inarcato le sopracciglia, ha una faccia strana, che tradisce un sentimento d’imbarazzo. “Lui c’entra.” “Ha mandato dei sicari?” “Ho detto che lui c’entra.” “In che modo c’entra?” Lo incalzo, chissà se lo smuovo un po’. “Ora mangia. Questa è la colazione.” “In che modo c’entra mio padre con la morte di sua moglie e dei suoi figli? Me lo dica, lo sa che io odio mio padre.” “Mangia, maledizione.” “No, finché non mi dice di più.” Oddio, adesso mi ammazza. Mi tiene per il collo, sento il suo alito. “Vuoi finire in pasto ai pesci?” “No… No, la prego, non mi faccia del male…” “Ora mangia, se no si fredda. E sta attenta, la mia pazienza ha un limite.” “D’accordo.” Se ne va, sbatte la porta. Sono di nuovo sola. Vorrei morire.

Giovedì 2 luglio 2009

“Ciao Pina.” “Giovanni Franti dal cuore infranto.” Mi prende per i fondelli, la Vedova Nera. “Quando finisci di giocare con il computer? Non sei grandicello per certe cose?” “Non sto giocando.” “Non avevo alcun dubbio su questo. La mia è solo una battuta. Ci mancherebbe altro. Giovanni Franti giocare?” Non la sopporto quando fa così. “Ho finito. Adesso me ne devo andare.” “Non mi fai vedere cosa stavi facendo?” “No.” “Sei proprio un orso. Cuoci nel tuo brodo.” Esce e mi lascia solo. Accidenti a te, Pina. Accidenti a te.

Venerdì 11 luglio 2008

La luce del mattino ormai inonda la stanza. Mi giro dalla parte opposta rispetto alla finestra, accidenti al sole, mi dico, non potrebbe sorgere più tardi? Si suda già, devo levare il lenzuolo dal caldo che fa. Il polso destro mi duole un po’, fa sempre così la mattina. Dove diavolo sono? In un albergo probabilmente, sono sempre in giro per lavoro, ma qual è la missione stavolta? Non mi ricordo l’incarico per cui mi trovo a dormire fuori casa. Bisogna lavorare, non posso dormire fino a tardi, a maggior ragione adesso, che nemmeno so in quale posto del mondo sono. Cerco gli occhiali sul comodino sinistro, a tastoni riesco a raggiungerli. Li afferro e li indosso. Resto così ancora per dieci minuti, la testa sul cuscino, intontito dal troppo dormire. Fisso il soffitto e ascolto. Sì, perché fuori di qui c’è movimento. Lentamente tutto riaffiora alla memoria: il giorno ato, il mio trasferimento al Residence La Quiete. Altro che missione, Gianni. Il ritorno brusco alla realtà ha l’effetto di una sberla. Mi siedo sul letto e osservo lo schermo piatto davanti a me. È nero, riflette perfettamente il mio stato d’animo. E adesso che si fa? Il bisogno di urinare mi riscuote: infilo le pantofole e mi dirigo verso il bagno; quando esco sono del tutto lucido. In questo ospizio vige un ferreo regolamento che disciplina ogni momento della giornata. Non devo fare altro che rispettare le norme del residence e starmene tranquillo. Tranquillo? Una rabbia mi assale, per un attimo infinito stringo i pugni, due nell’immaginazione. Che ci faccio io qui? No, non se ne fa niente, io non resto un minuto di più.

Di scatto apro la porta. “Buongiorno Giovanni Franti. Dormito bene?” Pina? Ancora lei. Ma che, mi aspetta al varco? Siamo a questo punto? “Buongiorno.” “Sei in ritardo, su, preparati, si va a fare la colazione.” “Devo farmi la barba.” “Forza allora. Pelandrone, questo qui crede di essere in vacanza e di dormire fino a mezzogiorno.” “Vado a farmi la barba.” “Ti tengo il posto.” Chiudo la porta pentito del mio gesto impulsivo. Mi accorgo però che la rabbia di un secondo prima è sbollita del tutto, spazzata via dalla verve della signora Pina. È bastato un breve scambio di battute con lei a interrompere ogni mio pensiero. Sono di nuovo da solo nella mia stanza ma ho uno spirito nuovo: noto che la tapparella è in parte abbassata e provvedo a tirarla su. La vista da qui è magnifica. Contemplo lungamente il paesaggio, poi mi o la mano sul viso e decido di radermi. “Signor Franti, è ora della colazione. Faccia alla svelta.” L’infermiera di ieri, quella simpatica come la sabbia nelle mutande, è dietro di me. Nemmeno mi giro, aspetto che se ne sia andata per farlo. La porta ora è spalancata e qualcuno sbircia dentro offendendo la mia intimità. Stronza d’una zitella, che maniera è? Mi faccio la barba e mi vesto per andare a fare colazione. Spero che Pina mi tenga il posto.

Lunedì 11 luglio 1997

“Buonasera.” “Parla la mia lingua, allora.” “Abbastanza. Fatto buon viaggio?” Come diavolo fa a sapere che ho viaggiato? “Ehm, sì, grazie.” “Vogliamo sederci?” Il ristorante è decisamente di lusso. Naturalmente pago io tutto quanto, spero solo di starci dentro. Linda è avvolta da un abito da sera lungo, nero. Ha le spalle completamente nude. Pelle candida, un grazioso collo con sopra un grazioso viso. I capelli biondi li tiene raccolti, chissà quale architetto le ha studiato l’acconciatura. E questa qui è una prostituta? A stento riesco a crederlo: ha un’eleganza innata, nei modi, nel portamento. Ha classe Linda Mantivano, mi sembra impossibile che possa aver a che fare con un delinquente della peggior specie. “Dunque ti chiami Marcello Mugo? Cosa fai di bello nella vita?” Sì, che faccio nella vita? Non mi sono preparato per l’interrogazione, accidenti. Devo inventarmi tutto di sana pianta, a parte il nome. Decisamente orrendo, me l’ha dato Luigi. “Faccio… Il rappresentante.” “E di cosa, mio bel Marcellino?” “Di vernici, sì, di vernici.” “Ah, interessante.”

“Tu dici?” “Sì, davvero.” Dubito della sua sincerità, è chiaro che mente, che fa il suo lavoro. Sta recitando e lo fa molto bene. Io sto al gioco: il mio obiettivo è un altro. “Ancora un bicchiere, Linda?” “Ma sì.” Mentre le verso il vino lei mi guarda intensamente da dietro il cristallo. “E dimmi, dolce Marcello, hai famiglia?” “Sì.” “Birichino, scappatella, eh?” Sento il suo piede che si allunga sotto il tavolo e si struscia sulla mia caviglia. D’istinto ritraggo la gamba. “Timido che non sei. Rilassati un po’, sei qui per divertirti, no?” “Certo. Vorrei arrivarci gradualmente se non ti dispiace.” Devo proprio star facendo la figura dell’imbranato. Mentre le parlo mi ritrovo senza saperlo a fissare il suo seno. “Dal tuo sguardo non sembri desiderare tutta questa gradualità.” Linda Mantivano si mette a ridere di gusto, una risata sincera, questa sì uscita spontaneamente, non prevista dal copione che sta seguendo. “Su, caro. Continua a raccontarmi di te. Ah, ecco il cameriere. Ordiniamo, ho una fame…” Non ho nemmeno dato un’occhiata al menu, sono proprio un incapace. Era meglio che ci venisse Luigi, sicuramente sarebbe molto più sciolto di me, ora. Noto che il mio moncherino non ha ancora destato la sua attenzione.

“Prendo quello che prendi tu, Linda. Mi fido del tuo gusto.” Ma che fai, scemo, è l’uomo che ordina, no? Non lo so veramente, mi è venuta così e ormai l’ho detto. “Oh, va bene.” Linda si mette a confabulare col cameriere, gli indica questo e quello e quello ancora sul menu aperto. Faccio fatica a seguire e alla fine non ho capito un bel niente. Mi strizza l’occhio e sorride. “Sarai soddisfatto, vedrai. Questo ristorante lo conosco bene, te l’assicuro, si mangia da dio.” “Come mai non mi hai chiesto niente sulla mia mano destra?” “Ma… Non volevo metterti in imbarazzo.” “Non c’è problema, ormai ho superato da tempo questa fase.” “Volevo aspettare a chiedertelo ma visto che l’argomento l’hai tirato fuori, raccontami. Cosa è successo?” Non posso dirle la verità, non posso svelare che sono un agente segreto e che la mano mi è stata amputata da un collega mentre ero in missione. Cosa le dico? “Quando ero giovane ho lavorato in una falegnameria.” “Una falegnameria? Devi aver fatto proprio di tutto nella vita.” “Già. Una sega circolare impazzita.” La donna fa un’espressione schifata. “Deve aver fatto male, povero Marcellino.” “Un dolore indescrivibile. Non te la consiglio questa esperienza.” Linda allunga la mano e mi accarezza.

“Sei comunque sempre un bell’uomo, non conta niente se ti manca una mano.” Le sue parole mi arrivano come un balsamo e, per un attimo, dimentico che sta interpretando la parte. Mi lascio prendere dall’entusiasmo e inizio a giocare coi suoi capelli. Porca miseria, sto perdendo il controllo. L’atmosfera romantica, la bellezza della donna che ho davanti, la sua disponibilità totale: tutto concorre a farmi dimenticare del tutto il motivo per cui sono qui. Faccio uno sforzo sovrumano per restare lucido. “Vuoi sapere altro?” “Certo mio amore, parlami di te, voglio sentire tutta la tua storia.” La mia storia. Dannazione, non credevo fosse così faticoso inventarsi una vita. E poi a me non piace mentire. In fondo anche Linda mente sui suoi reali sentimenti. Non farti scrupoli, Gianni, mi dice Luigi telepaticamente dall’altra parte dell’oceano.

Sabato 28 luglio 1984

Sono sulla strada di casa. Chissà se Marta mi vuole ancora.

Quarant’anni prima

Sta arrivando la primavera. Massimo è fuori in giardino a giocare con sua madre. Dopo una lunga missione sono di nuovo a casa. Sarò stato via un mese, questa volta. Massimo è cambiato tantissimo, ai miei occhi è cresciuto a dismisura. Marta è arrabbiata, non lo dice ma la conosco. Questa volta sono stato via troppo, me ne rendo conto. Ma non posso cambiare lavoro, non voglio, forse è meglio dire. È la mia vita, non saprei che altro fare. Il giardino è ben curato, Marta ci ha sempre tenuto. In mezzo l’altalena che abbiamo comprato un anno fa. Massimo dà calci alla palla e ride come un matto; sua madre non partecipa al gioco: si limita a sorvegliarlo seduta sull’erba, le gambe incrociate a mo’ di fachiro. Ha in mano una margherita e la osserva pensierosa. Poi, d’improvviso, si volta verso di me che spio dalla finestra della cucina: allora sapeva che ero qui a guardarla. Mi rivolge due occhi pieni di amore e di tristezza al tempo stesso. Le sorrido e apro la finestra. “Si sta bene oggi.” “Sì.” Resto imbambolato per un po’, indeciso se scavalcare il davanzale e correre da lei per baciarla o chiudere la finestra. No, non è da me, non ho un carattere così espansivo da fare un gesto simile. Chiudo la finestra. Improvvisamente sento come se avessi perso l’attimo, come se avessi sprecato un’occasione che non si ripeterà più.

Sabato 11 luglio 2009

Massimo e io aspettiamo che Luigi ci spieghi il suo piano: fa sempre così, tiene sulle spine, è più forte di lui. “Allora, si può sapere che hai in mente? Non è proprio il caso di perdere tempo.” “Ecco, a grandi linee è questo. Certo, dovete avere sangue freddo, si tratta di rischiare alla grande.” Luigi ci descrive per filo e per segno cosa bisogna fare. Vedo che mentre parla Massimo diventa cadaverico. Credo che non ci sia alternativa, bisogna fare così. “Allora tutto chiaro? Ci state? Che ne dici, Gianni?” “Ci devo riflettere un po’.” “Non c’è tempo per riflettere, dannazione.” “E va bene.” La decisione è presa. Si fa come dice Luigi.

Giovedì 9 luglio 2009

Non riesco a dormire. Pare che il mare sia molto mosso, la cabina si muove su e giù. Sarà ata un’ora dall’ultima visita e non si è fatto vivo nessuno: forse sono troppo presi dalle onde in questo momento. Ora un colpo secco: lo scafo è uscito dall’acqua e ci è piombato dentro violentemente. Inizio a dubitare dell’abilità di chi governa la nave, inizio a dubitare di uscire viva da tutto questo. Riesco ancora a mantenere la calma ma non so per quanto.

Giovedì 2 luglio 2009

Eppure un senso ce l’ha. Può avere un sistema di oscuramento radar. Perché no, perché non può essere plausibile?

Venerdì 11 luglio 2008

Sono di nuovo nella sala da pranzo: sembra sia ata solo un’ora dall’ultima volta che sono stato qui. I tre chiacchieroni sono sempre allo stesso tavolo ma non ho voglia di stare con loro. Vado a sedermi vicino alla finestra, c’è un tavolo con una sola sedia, l’angolo del castigo, mi viene da pensare. Una volta accomodato, un inserviente provvede a portarmi il vassoio della colazione: caffellatte, miele, fette biscottate, confettura di albicocche. La sera prima un suo collega mi aveva chiesto cosa avrei voluto mangiare per colazione, aveva in mano un palmare, mentre io richiedevo lui toccava lo schermo e memorizzava le mie preferenze. Et voilà, eccomi accontentato. Dall’altra parte della sala vedo la combriccola del Club delle Vedove Nere, hanno occupato tre tavoli vicini tra di loro. Pina alza un braccio per attirare la mia attenzione, per dirmi che il posto l’ha tenuto. Ricambio il saluto ma resto dove sono, d’altra parte sarebbe un po’ complicato alzarmi e trasportare il vassoio fin là con a disposizione una sola mano. Alla fine, dopo un momento di titubanza, decido che gli inservienti ora sono troppo affaccendati perché uno di loro abbia il tempo di aiutarmi nell’operazione di trasferimento. Così non mi muovo. Pina smette di sbracciarsi; vedo il suo volto oscurarsi. Una vocina mi dice “sei qui dentro da neanche un giorno e ti stai già rendendo antipatico”. Accidenti a te e al tuo carattere, non cambi mai. Mi accorgo che queste ultime sono le parole di Marta: chissà quante volte me l’ha ripetuto. Basta. Adesso mangio. Se mai vado dopo a salutare Pina. Magari dopo arriva lei e torniamo amici come prima. Faccio fuori tutto: in pochi minuti il mio pasto è terminato. Tiro l’occhio verso il tavolo delle vedove: Pina si sta alzando. Bene, così adesso le spiego perché non sono andato da loro. Ma non si dirige verso di me, m’ignora completamente ed esce dalla sala, seguita da un’amica. Cosa dovevo aspettarmi, che venisse a farmi festa? Mi sento un vero stupido. In

fondo me la sono cercata. “Signor Franti, ha terminato la colazione?” Ecco la sabbia nelle mutande versione infermiera. “Torni pure nel suo alloggio. Tra un’ora c’è la seduta di fisioterapia.” “Fisioterapia?” “Non mi dica che non ne sa niente. Non le ha detto niente la Tosi? L’ho sempre detto che è incompetente.” Ecco come fa di cognome Beatrice: non può che riferirsi a lei in questo modo. “Lei deve mantenere in forma ogni sua articolazione, lo dovrebbe sapere che alla sua età è necessario un quotidiano esercizio, no?” Io questa qua la ammazzo, odiosa vacca in camice bianco. “Alle nove arriva la fisioterapista e la porta nella palestra.” “E se avessi altro da fare?” “Perché, ha altro da fare?” La sua domanda retorica è accompagnata da una risatina nervosa. Come si permette, vorrei dirle, ma il mio proposito rimane incastrato nella gola.

Lunedì 11 luglio 1997

“Adesso raccontami tu. È arrivato il tuo turno, Linda.” Non credevo che fossi così abile a mentire. Ho inventato tutto, dall’inizio alla fine. Ho scoperto di avere un talento innato, davvero. E l'aspetto più curioso della faccenda è che non mi sento per niente in colpa. Ora è il momento. È ora che parli, che mi dica di Solana. “E dimmi, Linda. I tuoi clienti come sono? Tutti come me?” “Ma quanto ti piace parlare, Marcellino. Perché invece non andiamo in albergo? Non hai voglia?” “Sì, certo. Vorrei però prima prendere il dolce e il caffè.” “Goloso d’un uomo. Vediamo, che vuoi sapere? Se sono più belli di te?” “Beh, non proprio. Che cosa fanno nella vita, se vengono da qualche strano paese…” “Perché, ti può interessare cosa fanno e da dove vengono, Marcello?” Linda mi guarda un po’ sospettosa, poi si scioglie in un sorriso. “Sei un tipo strano, sai?” “Se lo dici tu.” Forse è meglio procedere con cautela: per un momento ho pensato che potesse fiutare l'inganno. Se capisce che sto cercando un uomo posso dire addio a tutto il piano. “Ne ho fatti are tanti, non tutti si sono aperti come te e non credo che nelle poche cose che mi hanno detto di loro siano stati completamente sinceri. Sai com’è, paura di essere sputtanati.”

Il termine che usa non è adatto a una signora di classe come è lei. Vorrei dirglielo ma Luigi, sempre per via telepatica, m’impone di stare zitto. “Ce n’è stato uno, poi. Non ho mai capito la sua nazione di provenienza, aveva un accento strano. Siamo usciti insieme per un po’ di tempo, era un uomo molto generoso.” Forse ci siamo. Non credevo di essere così fortunato, che si mettesse subito a parlare di lui. “Non era un chiacchierone, restava sulle sue, ero io che dovevo sempre tener su la conversazione, non come con te.” Mentre dice questo, mi accarezza la mano sinistra. Quando diavolo arriva il cameriere per ordinare il dolce? D’un tratto mi è venuta fretta di finire la cena e di andare in camera. Forse una volta in albergo Linda mi racconterà in modo più completo, si è più rilassati nell’intimità. No, Gianni. No. “Perché dici no?” Ho parlato ad alta voce e non me ne sono accorto. Arriva il cameriere. Chiedo direttamente il conto. “Come mai? Niente più dolce, eh Marcellino? Ah, ho capito, adesso ti va un altro tipo di dolce…” Non mi controllo più.

Lunedì 30 luglio 1984

Sono davanti al vialetto di casa. Sono paralizzato. Ho il terrore di entrare. Per un attimo mi viene l’impulso di scappare via, di non tornare più. Solo entrando da quella porta però potrò sapere se la mia vita ha ancora un senso oppure no. Forse è troppo tardi, forse è proprio meglio che me ne vada e scompaia. E i miei figli? Chi li manterrà? Non posso far finta che non esistano. Non credo di avere abbastanza coraggio. Come un automa percorro i pochi metri che mi separano dall’ingresso. Faccio uno sforzo sovrumano per inserire la chiave nella toppa. Ho paura. Apro. Non c’è nessuno. Dov’è Marta? Dove sono i ragazzi? Se ne sono già andati? Vado a sedermi sulla mia poltrona e ci resto per non so quanto tempo, con gli occhi fissi verso il vuoto. Poi il rumore di una macchina mi fa sobbalzare. Sento i i nel vialetto, sento la voce di Marta, quella di Lella e di Massimo. È il momento più bello e, al tempo stesso, il più brutto della mia vita. Mi alzo impacciato e mi sistemo la camicia. La menomazione non posso nasconderla. Come la prenderanno? Marta mi darà uno schiaffo? M’ignorerà? Mi inviterà ad andarmene? Ormai sono qui, di certo non posso diventare trasparente nei prossimi secondi. Di certo non posso evitare di incontrarli. “Papà!” La mia bambina mi corre incontro e mi getta le braccia al collo. “Lella. Mi sei mancata tanto.” “Mamma! È arrivato papà!” Alzo gli occhi. Marta è accanto a Massimo che la sta aiutando a portare dentro la spesa.

Massimo sorride, è contento di vedermi. Lei invece rimane impietrita. Rivolge subito l’attenzione alla fasciatura. Non dice nulla. Scappa al piano di sopra e si chiude in camera sbattendo la porta. Sento impotente il suo pianto.

Trent’anni prima

“Voglio la Vespa.” Cosa gli posso dire? È bravo a scuola, potrei anche accontentarlo. Ma non mi fido. “Tra qualche anno hai la patente, a che ti serve la Vespa?” “Mi serve per uscire con gli amici.” “Puoi farlo benissimo lo stesso, non credi?” “Senza un motorino? Sono tutti col motorino. Se voglio uscire con loro devo farmi portare e per legge non si può andare in due su un cinquanta.” Mi sta mettendo alle corde, devo reagire. “E poi me la pago io.” “Scusa, con quali soldi?” “La paghetta. Sto risparmiando da un sacco di tempo.” Rimango di stucco. La settimana dopo Massimo e io siamo all’officina di Dario. C’è un’occasione, ha solo un anno ed è tenuta davvero bene. È una Special 50, color giallo ocra. Ha la sella lunga, un piccolo bauletto montato sotto il manubrio. È veramente bella. Andiamo a fare il aggio di proprietà tutti insieme, poi è il momento di pagare. “Ecco i soldi.” Massimo allunga il denaro al meccanico, Dario gli dà le chiavi. Gli occhi gli

brillano, è da tanto tempo che sta dietro al suo sogno. “Adesso metti i documenti nel bauletto, prima che vadano persi.” Massimo infila nella minuscola serratura quella tra le due che, presumibilmente, viste le dimensioni e la forma, è la chiave per aprirlo. Non si apre. Riprova con l’altra: niente da fare. “Dario, sicuro che sia la sua?” “Certo che lo è. Prova ancora. Fai fare a me.” Neanche il meccanico riesce nell’intento. Senza pensare tiro fuori il portafoglio. Nello scompartimento delle monete tengo una chiavetta; l’avevo anche nel portafoglio precedente: prima di buttarlo, qualche anno fa, l’ho trasferita in quello attuale; non so perché non me ne sia sbarazzato. È una chiave che mi porto dietro non so da quanto tempo, la considero una specie di amuleto. È un bizzarro regalo fattomi da un uomo misterioso alla vigilia di un lontano Natale. Sto diventando pazzo, non è possibile. La infilo nella serratura e il bauletto si apre.

Sabato 11 luglio 2009

Si tratta di ignorare del tutto ogni richiesta del rapitore. Mostrare assoluta indifferenza di fronte alle sue minacce. Tecnica kamikaze, come Luigi prontamente la definisce. È una forma di negoziazione estrema, attraverso la quale si ottiene di spiazzare il rapitore e, paradossalmente, in questo modo si riesce a guadagnare tempo. La totale assenza di dialogo infatti contribuisce a creare una situazione di stallo nelle trattative che ingenera insicurezza nel sequestratore. Il rapimento di un agente è un fatto non infrequente: l’agenzia da circa un decennio conta nel proprio organico un’equipe di psicologi che si occupa esclusivamente di questo. Periodicamente viene anche organizzato uno stage sull’argomento dalla frequenza obbligatoria, racconta Luigi. La conclusione di questo gruppo di studio è la seguente: in una negoziazione bisogna condurre il gioco, costi quel che costi. È un gioco rischioso, però. Nel frattempo ci si concentra sull’individuazione del rapito, soprattutto attraverso il rintracciamento della chiamata telefonica: con l’apparecchiatura dell’agenzia è un attimo. C’è solo un problema: il sangue freddo necessario per assumere e mantenere una posizione del genere. “Gianni, che la fai una partita?” Lo scocciatore, era ovvio che comparisse in un momento del genere. “Ascolta, non è il momento.” “Invece credo proprio che lo sia.”

Giovedì 9 luglio 2009

Solana è nella sala di comando insieme al comandante e al timoniere. Fuori il mare è in burrasca, la coperta viene in continuazione inondata dall’acqua.

“Allora, com’è che ci troviamo nella merda?” “Signor Solana, il bollettino meteo non prevedeva una tempesta così forte.” “Non prevedeva? Che vi pago a fare, maledetti, eh?”

Colpisce col pugno chiuso la plancia e tira una bestemmia nella sua lingua. Intanto fuori la pioggia si fa insistente, cielo e mare sono ormai un unico elemento, il vento fischia minaccioso, le onde si gonfiano man mano che raggiungono la prua e si rompono formando schiuma bianca.

“Entro tre giorni dobbiamo arrivare a destinazione, chiaro?” “Sì, signor Solana.”

Il capitano della nave è sconfortato. Sa bene che è impossibile in quelle condizioni rispettare la tabella di marcia; d’altra parte è consapevole di avere a che fare con uno spietato schizofrenico che comanda un esercito di uomini armati fino ai denti e fedelissimi a lui. Non gli resta che mettere le macchine avanti tutta e sperare per il meglio. Il Danzica non può affondare, si ripete. Non può.

Giovedì 2 luglio 2009

È odioso questo qua. Un caso irrecuperabile. E poi che vado a pensare? A questa età non è più il caso. Guarda come ti tratta. No, Pina, lascialo perdere, lui non ti vuole, non l’hai capito? So che in fondo è un uomo buono, se buco la crosta esce il dolce. È che non ho più pazienza. È un anno ormai e non cambia niente. Mi sono innamorata di te, Giovanni Franti, possibile tu non lo capisca, brutto caprone?

Venerdì 11 luglio 2008

È l’ora della fisioterapia. Qualcuno bussa leggermente alla mia porta. Nocche femminili, il tocco è delicato. “Buongiorno, signor Franti. Si trova bene qui? Sono Maddalena, la fisioterapista.” Maddalena è un donnone alto un metro e ottanta e dai capelli corti. Ha un paio di occhiali con una vistosa montatura in acetato di colore bianco. È difficile capire la sua età: può avere dai venticinque ai quarant’anni. “È pronto? La porto in palestra.” Probabilmente è lesbica, per forza lo è. Basta guardarla. “Magari cominciamo con un po’ di cyclette, che ne dice, Franti?” Non le rispondo. D’altro canto sembra che lei parli senza aspettarsi alcuna risposta. Forse è abituata ad avere a che fare con anziani taciturni e apatici, come me, come i miei tre compagni di cena. Indifferenza genera indifferenza, mi viene da pensare. “Ecco la palestra. Un momento che arriva il dottore, le fa un controllino. Poi possiamo cominciare.” La osservo meglio. È alta, robusta sì, ma non la definirei grassa. I lineamenti del viso sono un po’ grossolani: un naso pronunciato, guance rosee, mento sfuggente. Gli occhi sono splendidi: di un azzurro intenso con riflessi grigi; la cornice bianca della montatura ne accentua la bellezza. Dopo un minuto, ecco il dottore. “Lei è quello nuovo. Giovanni Franti, giusto? Piacere. Io sono il dottor Luca Guastaldi. Le faccio una breve visita, poi può divertirsi con Maddalena.” Guastaldi mi invita a sedermi sul lettino dell’ambulatorio attiguo alla palestra.

Mi controlla la pressione, mi chiede dei farmaci che assumo, mi effettua un elettrocardiogramma. “Tutto bene, signor Franti. Vedo che continua ad avere cura del suo corpo.” E la mano? La mano, fesso, non ti sei accorto che l’ho persa per strada? Ti sembra che abbia avuto cura del mio corpo? “Allora io vado. Maddalena, è tutto tuo.” Neanche Guastaldi si aspetta che gli si risponda. A differenza della fisioterapista però ha un’aria più gioviale: è rassegnato sì, a non ricevere risposta, ma non del tutto. “Mi lascia nelle mani della torturatrice, dottore?” Guastaldi e Maddalena si guardano stupiti. Non si aspettano una battuta di spirito da un loro paziente, tantomeno da un burbero come me. Io sorrido loro, altrettanto sbalordito. “Bene… Allora mi raccomando, Maddalena. Sotto con la frusta.” Il dottore esce ridacchiando. Avrà su per giù quarantacinque anni, come Massimo; solo la calvizie lo fa sembrare più vecchio, per il resto si dimostra molto giovanile. È pieno di vita, anche mio figlio era così, una volta. Su invito di Maddalena salgo sulla cyclette e inizio a pedalare.

Martedì 12 luglio 1997

Credo sia ata da un pezzo l’una di notte. Linda è sdraiata accanto a me, è completamente nuda. Ha preso sonno da poco, io invece non riesco a dormire. Alla fine ci sono cascato, non serviva un genio per capire che l’avrei portata a letto. Ciò che più mi preoccupa è che, nell’ora trascorsa, ho dimenticato completamente il motivo per cui sono qui. Adesso come faccio? Dannazione, che pasticcio. Devo svegliarla e interrogarla? Dirle senza tanti giri che sto cercando un delinquente di nome Solana? Che sono un agente segreto in missione? “Non dormi, amore?” Linda si volta verso di me e svogliatamente mi accarezza. Poi torna nel mondo dei sogni. Dannazione. Però è davvero brava questa Mantivano, non ho alzato un dito di quelli rimastimi, ha fatto tutto lei. Che bello, qui. La stanza dell’albergo dispone anche di un piccolo salottino. Con delicatezza mi divincolo dal braccio che Linda mi ha appoggiato sul petto, accendo la lampada sul comodino e mi vado a sedere su una delle due poltrone. Mi sento sollevato. Sarà forse per il cambiamento d’aria, sarà la magnifica donna che sta qui insieme a me. Sta di fatto che quella cappa di oppressione che sento ogni volta che rincaso è, come per magia, svanita. Dentro di me sono grato a Luigi; magari l’ha fatto apposta a mandare me, convinto che mi avrebbe fatto bene. Adesso probabilmente se la ride sotto i baffi, mascalzone che non è altro. Nella penombra contemplo per qualche minuto Linda che dorme, poi torno a letto accanto a lei. Resta il problema di ricavare qualche informazione utile. Prendo una decisione drastica. “Linda. Linda, stai dormendo?” “Accidenti, Marcellino, sei insaziabile.”

La sua voce è roca, non so se per via del sonno o perché vuole comunicarmi la sua eccitazione. “Ti devo parlare, Linda.” I suoi occhi si aprono del tutto. Con un sospiro si mette seduta sul letto e si abbraccia le ginocchia. Mi fa uno sguardo dolce. “Sei un brav’uomo, Marcello. Che ci fai con una come me?” “Una come te?” “Hai capito. Con una puttana.” “Ma tu non lo sei. O meglio, sei una escort.” Linda sorride di fronte alla mia ingenuità. “Cosa nascondi, misterioso straniero? Non sarai un serial killer, un maniaco dalla doppia personalità?” “Di certo non sono quello che tu credi io sia.” Stupido. “E chi sei veramente?” Divertita, mi prende il mento tra indice e pollice e me lo stringe. Si avvicina col viso e appoggia le sue labbra alle mie. Sono grandi e carnose ma hanno la leggerezza di due petali. Per un istante infinito resta ferma nella sua posizione, gli occhi chiusi come farebbe una ragazza innamorata. Sento che respira, poi, con uno schiocco, si separa da me. “Sto parlando sul serio. Ho bisogno di te, di quello che sai.” “Di quello che so?” Ora la Mantivano è veramente stupita. Si alza dal letto volgendomi le spalle. Raggiunge la borsetta, tira fuori un pacchetto di sigarette. Se ne accende una, poi si gira verso di me. Sembra proprio contrariata, tiene una mano chiusa a pugno sul fianco. Tira una boccata e manda fuori il fumo dal naso.

“Cosa dovrei sapere? Incomincia a sganciare la grana, poi parliamo di tutto quello che vuoi.” “Certo. Scusa, non arrabbiarti. I soldi sono nella mia valigia, adesso li prendo.” Le consegno la cifra pattuita. Linda, senza troppi complimenti, ficca il denaro nella borsetta.

Lunedì 30 luglio 1984

“Cos’ha la mamma, papà?” “Niente, piccola, niente.” Non so cosa dire, resto impalato, cosa devo fare? “Che è successo? La mano?” Massimo è sconvolto, lo si vede dalla faccia. “Un incidente. Ma ora sto bene.” “Come è successo?” “Un incidente, Massimo.” Dannazione, non farmi dire altro. Massimo però sembra capire, forse comprende che per il tipo di attività che svolgo molte cose non possono essere dette. “Va bene, papà.” “Sta’ qui con Lella. Io vado su dalla mamma.” Salgo le scale, un gradino dopo l’altro. Marta continua a piangere, ora è solo un lamento sommesso. “Marta, per l’amor di dio, apri.” Dall’altra parte del muro non arriva alcuna risposta. “Senza di te sono perso, Marta. Non abbandonarmi.” Mi accorgo di avere la voce rotta. “Non puoi, non puoi farmi are tutto questo. Io non ce la faccio più.”

La sua voce è debole ma sento perfettamente ogni sua parola. “D’ora in poi è diverso, amore. Adesso ho un lavoro d’ufficio, resto qui con te, con i ragazzi tutte le sere, tutti i fine settimana. Marta, per piacere, apri questa porta.” “Ti prego, lasciami sola. Ho bisogno di stare sola. Vai via.” “Non so che fare senza di te. Senza di te non so chi sono.” Lentamente torno giù con la morte nel cuore. Nel soggiorno trovo i miei figli, li vedo che sono sospesi, che attendono speranzosi che i loro genitori facciano la pace. “Papà, non sta ancora bene la mamma?” Abbraccio Lella e le faccio una carezza sui capelli. “No, non ancora. Io adesso devo andare via. Appena la mamma sta bene ritorno.” Dietro Lella, Massimo sta in piedi con gli occhi abbassati. “Cosa succede, papà?” “Niente figliolo, tua madre è solo un po’ stanca. Bada a lei finché non torno.” “E dove vai?” “Non lo so ancora, ma non preoccupatevi di me. Guardate la mamma, statele vicino.” “Papà, non andare via.” Lella mi trattiene per la manica della camicia. Per fortuna interviene Massimo che le stacca la mano dalla stoffa e la tiene ferma. Lei si mette a piangere a dirotto. “Papà, papà, non andare via! Sei appena tornato, non andare via!” Me ne vado. Vorrei perdere anche l’altra mano piuttosto che vivere tutto questo.

Sto per chiudere la porta d’ingresso dietro di me, quando sento la voce di Massimo. “Vedrai che la mamma starà meglio.” Mi volto e incontro il suo sguardo. Ha un’espressione decisa, è sicuro di quello che dice. Resto impressionato dal suo atteggiamento. Dio mio, è un uomo. In questo momento è più uomo di me. “Sì, starà meglio. E io tornerò presto. Ciao Massimo.” “Ciao papà. E cura la ferita.” Non gli rispondo, chiudo la porta. A stento trattengo il pianto, nel mezzo di tutto questo dramma so che posso contare su un figlio straordinario. Lo diceva Marta che Massimo è un nome adatto a chi è destinato a grandi cose. Ora ne sono assolutamente certo.

Trent’anni prima

“Papà, come fai ad avere la chiave del bauletto?” “Non lo so, Massimo.” D’istinto mi metto a frugare dentro con la mano destra. Non c’è niente, assolutamente niente che possa farmi proseguire in questa assurda caccia al tesoro. Un momento. C’è un oggetto. E' piccolo. Sento tra le dita che ha una forma cilindrica, è freddo e termina con una punta. Si è cacciato nel fondo del bauletto ma non è riuscito a sfuggirmi. Un proiettile, non c’è dubbio. Lo stringo nel pugno, indeciso sul da farsi. Questa è una follia, se ne parlo mi ricoverano all’istante. Non deve saperlo nessuno per ora, prima devo capire, accidenti. Ritiro fuori la mano facendo in modo che Massimo e Dario non si accorgano del suo contenuto. “Allora papà? Si può sapere cosa c’è lì dentro?” “Niente, proprio niente.” “Mi vuoi spiegare perché hai la chiave?” “L’ho trovata per terra qui fuori prima, quando sono tornato indietro per prendere i documenti che avevo dimenticato in macchina. Magari è caduta a Dario, ho pensato, e l’ho messa nel portafoglio per non perderla. Poi me ne sono dimenticato.” Dario si gratta la testa pelata. “Può essere… Può essermi caduta quando ho fatto un giro di prova stamattina. Ma sì, l’anello che tiene le chiavi è sottile, una chiave così piccola esce come niente.”

“Ah, beh. Adesso è chiaro.” Massimo ha di nuovo gli occhi che gli brillano. Senza pensarci su due volte inforca la sua nuova Vespa e affonda la gamba sul pedale d’avviamento. Lo scooter fa un improvviso sussulto in avanti, poi si spegne. “Devi metterla in folle quando l’accendi.” Dario gli mostra come fare e intanto se la ride. Massimo impara alla svelta: poco dopo guida già con disinvoltura, percorre il perimetro del piazzale dell’officina, ingrana una marcia, scala, ingrana di nuovo. “Posso tornare a casa da solo?” “Sì. Vai piano però. Io ti seguo con la macchina. Grazie, Dario.” “Grazie a voi. Arrivederci Gianni. Ciao Max.” Non senza un filo di apprensione seguo mio figlio sulla via di casa. A quest’ora non c’è molto traffico, per fortuna. A casa ci aspetta la mamma, tiene Lella per mano. Una chiave, poi un proiettile. Magari il prossimo ritrovamento sarà un’arma. C’è qualcuno che da tempo osserva a distanza la mia vita privata, questo è chiaro. Forse è proprio l’uomo che mi ha dato la chiave. Ho paura per la mia famiglia: un proiettile solitamente è associato a una minaccia di morte. Un brivido mi percorre la schiena. Cosa devo fare? Nel profondo sento però che non devo temere, è una voce che viene da dentro che me lo dice. L’istinto. Marta fa un giro intorno alla Vespa che Massimo ha messo sul cavalletto, il motore borbotta al minimo. A tradimento sale e parte. Suo figlio la insegue a piedi e protesta vivamente. Come una bambina urla di gioia.

Sabato 11 luglio 2009

Giancarlo mi osserva in silenzio. Il suo sguardo è intenso, sembra quasi corrucciato. “Con chi stavi parlando, Gianni?” Dio mio, non c’è nessuno nella stanza a parte lui e me. Eppure sono sicuro che Massimo c’era, che anche Luigi stava qui con me. Luigi entra di nuovo. Di nuovo? “Gianni, Massimo se ne è andato, non ho potuto farci niente, ora non ragiona. E questo chi è?” “Un amico. Mi presento, Giancarlo Pellizzeri.” Allunga la mano a Luigi che gliela stringe in modo affrettato. Poi torna a rivolgersi a me. “Forse è meglio che ti riposi un po’, Gianni.” Dannazione. Il mio cervello torna a fare cortocircuito. Tutto quello che è successo cinque minuti fa è stato solo un’invenzione della mia testa bacata. Non riesco più a distinguere la realtà dalla fantasia e più vado avanti peggio è. “Luigi, non so cosa mi succede. Credevo che tu fossi già qui.” Giancarlo interviene. “Ogni tanto gli succede. Anche l’altra notte.” “Cosa gli succede?” “Va via con la testa, s’immagina persone che non ci sono.” “Gianni, sono qui, sono il tuo amico e sono vero.”

“Lo so. Magari è solo stanchezza.” Un momento. Che ci fa qui Luigi? Perché dice che mio figlio ora non ragiona? Cosa vuol dire? “Luigi, non mi ricordo il motivo della tua visita.” “Come non ti ricordi? Dannazione, Lella!” “Lella? Che è successo a Lella?” Luigi smette di parlare, ha un’espressione preoccupata, la bocca semiaperta, gli occhi sbarrati. “Dimmi, amico mio. Cosa è successo a mia figlia?”

Venerdì 10 luglio 2009

Il mare ora è calmo, il peggio è ato. La nave ora va molto piano, almeno questa è la mia impressione. La stanza gira su se stessa lentamente: è in corso una manovra di attracco. Entra il mio rapitore, ha un’aria soddisfatta. Forse perché è contento per non averci lasciato la pelle nel mezzo della tempesta. “Siamo arrivati, cara.” “Dove siamo arrivati?” “Da tuo papà, non sei contenta?” “Perché mi porta da lui?” “Così, per riunire la famiglia, una buona azione.” “Io non voglio vederlo.” “Mi spiace mia cara, non vedo altra strada.” “Altra strada? Che vuole dire?” Si mette a ridacchiare. Smette di parlarmi ed esce. Cosa vuole fare a mio padre?

Domani io chiamo. Primo contatto. Hai le ore contate, capitano.

Giovedì 2 luglio 2009

Si avvicina l’ora di cena, tanto per cambiare. Pina l’ho trattata male, tanto per cambiare. E più la tratto male più lei insiste a stuzzicarmi. Ma cosa vuole da me, non ha capito che voglio essere lasciato in pace? Vorrei fare un colpo di telefono al mio socio per esporgli la mia teoria. Ho già in mano il cellulare ma le dita non rispondono ai comandi. Inizio a fare il numero, poi mi fermo e resto lì, col display illuminato davanti a me. Ritento di nuovo: stavolta ho il coraggio di aggiungere un numero in più. Ma ne manca ancora uno per completare la sequenza. Niente. Mi areno di nuovo. È che ho paura che mi rida in faccia, che scopra che ormai sono ridotto a un rincoglionito e che non mi chieda più nulla riguardo il lavoro dell’agenzia. Resterei tagliato fuori, non mi rimarrebbe che marcire in questo posto di merda, senza più uno stimolo, senza più nulla che mi dia un motivo per vivere. Mi sento vuoto, guardo dentro di me e c’è una voragine. Sono inutile, non servo più. Un vecchio invalido che gioca a fare l’investigatore ma che, in realtà, è preda della propria ingenuità. Sciocco, sciocco, sciocco. Vai a cena e dimentica tutto. Sciocco. Cosa? Suona il cellulare. Proprio Luigi. “Allora ci hai dato un’occhiata?” “Un’occhiata?” “Pronto? C’è qualcuno di là? Sì, un’occhiata. Non ricordi? Stamattina, io che ti vengo a trovare, la chiavetta…” “Ah, sì. Non ho avuto tanto tempo.” “Non ho avuto tanto tempo? Vecchio mio, se non hai tempo lì dentro…” “Ma quanta fretta che hai. Non dovevi riare tra un po’ di giorni?”

“È vero. Ho fretta. Va bene, facciamo così: ti do quarantotto ore. Guarda che ti pago bene.” “Non serve.” “Meglio così. Adesso vado. Scherzo, prenditi tutto il tempo che vuoi. Ciao, socio.” La nave, Giovanni, dovevi dirgli della nave, dannazione a te!

Venerdì 11 luglio 2008

Che fatica, pedalo ancora. Maddalena mi controlla perché non batta la fiacca e non mi venga un infarto. Ho le gambe che sembrano due legni quando mi dice di smettere. “Bravo signor Franti. Ha ancora il fisico di un ragazzino.” Ma che, mi prende per i fondelli? “Adesso si cambia esercizio. Prenda quei pesi.” “Uno di quei pesi.” Glielo dico un po’ seccato. Non ha visto che sono monco? Subito mi pento, sono stato sgarbato. Maddalena diventa ancora più rossa e abbassa i suoi bellissimi occhi. “Mi scusi…” “Non sei l’unica. Forse è perché porto con tale disinvoltura il mio moncherino che do l’impressione che la mano ce l’abbia ancora.” Un déjà vu. Questa stessa battuta l’ho fatta a qualcun altro, non mi ricordo chi, però. “Va bene. Allora adesso sto più attenta.” È una buona ragazza e io sono un vecchio antipatico che ce l’ha col mondo. Ma non è stato sempre così. Fa il bravo, Giovanni Franti. Falle fare il suo lavoro senza problemi. Segue una serie di esercizi per tonificare i muscoli delle braccia. Del braccio. “Ciao Bea.” “Ciao Madda.”

“Obbedisce il nostro nuovo ospite?” “Per ora sì.” “Il nostro Gianni…” “Stasera andiamo a ballare?” “Ma sì. o io? Tocca a me.” “D’accordo. Ciao.” “A più tardi. Ciao, Gianni.” Farfuglio tra i denti quello che vorrebbe essere un saluto. Quando c’è lei perdo ogni ritegno. La fisioterapia, compreso il preliminare della cyclette, dura un’ora. Maddalena è abile nel manipolare le mie articolazioni: ha un tocco delicato ed energico al tempo stesso. Riesce addirittura a farmi are per un po’ il formicolio al polso destro. Quando torno alla mia stanza non penso a niente. Che Beatrice sia lesbica?

Martedì 12 luglio 1997

“Solana.” Ormai è saltato tutto, tanto vale a questo punto chiederglielo e basta. “Solana? Chi è?” Linda aspira nervosa la sua sigaretta ed emette nuvole di fumo che si frappongono fra me e lei. “Un delinquente a cui sto dando la caccia. Pare sia stato un tuo cliente.” “Un momento. E tu chi sei, allora?” “Servizi segreti. Non ti posso dire altro.” “Allora è tutta una menzogna quello che mi hai raccontato.” “Mi dispiace ma ho dovuto farlo. Non era mia intenzione offenderti.” “E perché mai mi dovrei offendere? Abbiamo scopato, mi hai pagato, chi tu sia è relativo.” La donna accenna a una risata. Poi va a sedersi sulla poltrona su cui stavo io pochi minuti prima. Mette una gamba su un bracciolo, incurante della sua nudità. “Bene, Marcello o chiunque tu sia.” Sto per dirle il mio vero nome ma mi zittisce premendo l’indice sulle proprie labbra. “Non voglio saperlo. Allora, cosa vuoi che ti dica di Solana?” “Quindi lo conosci.”

“Ma certo, scemo. Se sei qui è perché io sono stata con lui, no?” Ha perso tutta l’eleganza che aveva al ristorante. Ora ha la dolcezza di uno scaricatore di porto, con quella sigaretta in mano e la sua posizione oscena. “Quando l’hai visto l’ultima volta, di cosa avete parlato?” “Ah, un interrogatorio in piena regola.” “Beh, non proprio…” “A me sembra proprio di sì.” Mi guarda dritto negli occhi e, per un momento, li abbasso. “Ti vergogni, piccolo uomo?” “Perché dovrei?” “Appunto. Perché dovresti? Non mi ricordo di cosa cazzo abbiamo parlato. È ato un po’ di tempo da allora e lui non era molto loquace. Preferiva consumare il prodotto, capisci che intendo, piccolo uomo?” Il suo atteggiamento incomincia a infastidirmi. Mi ha lanciato la sfida, non me la fa are liscia. Ho toccato il suo orgoglio e ora vuole il mio sangue. “Non ti ricordi se ti ha detto dove era diretto, se ti ha parlato della sua famiglia, qualsiasi informazione mi è utile.” “Mah, dovrei sforzarmi un po’, mi sa che servirà un extra, sai, piccolo uomo?” “Smettila di chiamarmi così.” “Se no che mi fai?” Mantieni la calma, piccolo uomo. “Beh, quanto vuoi?” “Diciamo il triplo di quello che mi hai dato?”

“Impossibile.” “Allora scordati che ti aiuti a trovare questo… come si chiama?” “Solana.” “Ah, sì. Solana. Che nome virile.” Linda ora sembra divertirsi. Si prende gioco di me. Mi sa che qua ho fatto un buco nell’acqua. Accidenti a te, Luigi, hai visto? Dovevi esserci tu qui, io ho rovinato tutto. “Non ho tutto quel denaro. Mi dispiace, non volevo ingannarti.” “Ma l’hai fatto. Sei un piccolo insignificante uomo, tua moglie si accontenta di poco.” “Non una parola di più.” “Perché mai? Ti ha lasciato? Non mi stupirei, chi vorrebbe stare con un omino come te?” “Mia moglie è morta.” La guardo dritta negli occhi. Ora è lei ad abbassarli.

Lunedì 6 agosto 1984

Sono ospite di Luigi, non sapevo dove andare e ho pensato a lui. Gli ho raccontato quello che è successo, la reazione di Marta. “Cosa ti aspettavi? Che ti accogliesse a braccia aperte? Lo sai anche tu che fare questo lavoro comporta la difficoltà di portare avanti una famiglia. Sono sempre a litigare io, cosa credi?” “È che non mi aspettavo che mi buttasse fuori di casa.” “Le a, dà retta a me.” “È già una settimana che sono qui. È meglio che me ne vada.” “Non ti azzardare a farlo, vecchio mio. Tu resti e non si discute.” Da poco convive con una ragazza, Barbara. Lei è un tipo molto ospitale e premuroso, Luigi può dirsi fortunato. Osservo il suo appartamento. Il colore delle pareti è un rosso fuoco, il divano su cui sono seduto è di quelli economici, in parte di pelle scura, in parte in tessuto bordeaux. Tutto intorno un mobilio in stile etnico rende l’ambiente un tantino sovraccarico ma, nel complesso, accogliente. Luigi mi parla seduto su una sedia, tiene le mani dietro la nuca, le gambe aperte, come se stesse cavalcando un animale. “Come va?” Allude alla mano. “Sempre meglio. Devi superare questo tuo senso di colpa, te l’ho detto io di farlo. Mi hai salvato la vita e io ti sono riconoscente.” “Già. Sai, a volte mi chiedo se avrei il coraggio di farmi tagliare la mia, da te, magari.”

“Ma non c’è il bisogno che te la tagli anch’io. E poi mi servi con tutte e due.” Luigi sospira. “Me lo sogno ogni notte. Faccio un incubo dopo l’altro. Non serve a un bel niente quello psicologo.” “Sei solo all’inizio della terapia. Dagli tempo.” “E tu? Non ci vai da lui?” “Sì, ci vado.” “E ti aiuta?” “Sì, certo. Sto meglio anche grazie a lui.” In realtà mento. Ho fatto una sola seduta, poi mi sono dato alla macchia. “Allora che si fa oggi? Che ne dici di andare in piscina? Fa un caldo…” Squilla il telefono nell’altra stanza. Barbara risponde, poi sento i suoi i: sicuramente la chiamata è per uno di noi due. “È tua moglie, Gianni.” Non credo a quello che sento. Automaticamente mi alzo dal divano e attraverso il salottino per raggiungere il ricevitore. Mentre Barbara mi a la cornetta, incontro il suo sguardo. Sembra che mi dica “non si fa così, l’hai fatta soffrire, povera donna, adesso ti dà una possibilità, non sprecarla”. Va da Luigi e chiude la porta dietro di sé. “Pronto.” “Sono io.” “Stai bene?” “Sì.” “Massimo e Lella?”

“Sì, stanno bene.” “Chi ti ha detto che ero qui?” “Mi ha chiamato Luigi.” “Ah.” “Cosa ho fatto per meritarmi tutto questo? Maledetto il giorno in cui ti ho conosciuto. I tuoi figli hanno bisogno del loro padre, è solo per loro che sto parlando con te.” “Non me ne vado più, sto con voi. Resto in ufficio, adesso.” “Fai quello che vuoi. Io non credo più a niente di quello che mi dici. Stasera vieni a cena, poi si vede.” “D’accordo.” “Ma si può? Senza una mano mi si presenta!” “Io ho bisogno di te, Marta.” “Piantala, ipocrita. Dimostralo. Alle otto. Poi si vede.” Marta interrompe la comunicazione. Mi dà una possibilità allora, non ci speravo più. Da una parte sono sollevato, dall’altra preoccupato. Sarà come prima? Difficile, stavolta ho tirato troppo la corda, ho ato il segno, come si suole dire. Torno in salotto. Luigi sorride, Barbara sta seduta sul bracciolo del divano e sistema un cuscino con aria distratta. “Allora, socio?” “Torno a casa. Stasera sono a cena dalla mia famiglia.” “Bene. Adesso dobbiamo fare i bravi e starcene buoni, se no non ci vogliono più.” Mi strizza l’occhio. Ha ancora il volto pieno di lividi.

“Ti do uno strappo io stasera, non preoccuparti.” “Grazie a voi. Mi tolgo di mezzo al più presto. Grazie Barbara.” “Di cosa. Adesso vado a fare la lavatrice.” Si alza dal bracciolo ed esce dalla stanza. È seccata, anche se non vuole darlo a vedere.

Trent’anni prima

Giro la pallottola tra le dita, incerto se tenerla o gettarla nella spazzatura. È un calibro che non ho mai visto, forse è di un’arma molto vecchia. La metto in un posto sicuro finché non scopro da dove provenga. Nella cassaforte… No. Marta la vedrebbe. Alla fine finisce nello scompartimento delle monete, come la chiave, solo che ci sta dentro a fatica. Per ora sta lì, poi ci penso. Accidenti, ci voleva anche questa. La porto all’agenzia, là posso far fare una ricerca a Guidotti. Guidotti è bravo. Una banca dati umana.

Sabato 11 luglio 2009

“Non stai dicendo sul serio. Tu lo sai.” “Cosa so, Luigi. Cosa c’è che non va con Lella?” “Non ti ricordi di cosa si parlava un minuto fa, dannazione?” Ma sì, adesso ricordo. Ho avuto un black-out della memoria, non mi è mai accaduto che avessi un'amnesia di questo tipo. “Devo stendermi, Luigi.” “Non è il momento di farsi un sonnellino, Gianni. Accidenti a te!” “Ha sentito il suo amico? Ha detto che deve stendersi.” “E lei cosa vuole? Lei chi è per parlarmi così?” “Luigi, ti prego. Ho bisogno di riposare.” Il mio collega non riesce a comprendere il mio bizzarro comportamento, Giancarlo sì. Luigi era quello che mi conosceva meglio durante il periodo in cui ero un agente in attività; questo Giancarlo invece capisce il Giovanni Franti di adesso, un anziano sull’orlo della demenza senile, che lotta invano per rimanere lucido ed è sempre meno in grado di controllare la propria mente. Giancarlo ora ha capito questo: il mio cervello ha bisogno di riposare per poter disporre al massimo della sua sempre più ridotta capacità di ragionamento. “Amico mio, fidati di me. Fammi chiudere gli occhi per un po’.” Luigi pare sconvolto. Lo sarei anch’io al suo posto. “E va bene. Ma non credere che rimanga con le mani in mano, intanto.” “Cosa è successo, Gianni? Riguarda tua figlia?” “Di che t’impicci tu? Non sono affari tuoi.”

“Luigi, non fare così. Questo è un amico. Mia figlia è stata rapita.” “Oh, santo cielo. Bisogna chiamare la polizia.” “Non lo fare, Giancarlo, non lo fare.” “Ma…” “Non lo fare.” Queste ultime tre parole riesco solo a bisbigliarle. Improvvisamente mi sento debole. Sono già sdraiato, non mi sono accorto di aver cambiato posizione, nel frattempo. Vedo il soffitto sciogliersi sopra di me, le mie palpebre fanno sempre più fatica a tenersi aperte. Lentamente sto cadendo in uno stato di incoscienza.

Venerdì 10 luglio 2009

“Adesso si continua su terra.” “Suppongo che verrò legata ancora.” “Supponi bene mia cara.”

Entra un uomo che sembra un armadio. Le afferra i polsi con energia e li lega insieme con un laccio. Lella non oppone resistenza, non avrebbe alcun senso ora resistere.

“Di’ al tuo scagnozzo di fare piano, mi fa male.” “Sentito, Dimitri? La principessa vuole che tu faccia piano.” “Non voglio stare nel bagagliaio.” “Necessario, mia cara, necessario.” “Brutto figlio di puttana! No! No! Levami quelle mani di dosso! Mhhh!”

Giovedì 2 luglio 2009

Ceno al mio tavolo solitario. Stasera un bel minestrone di verdure. Col caldo che fa è proprio quello che ci voleva. D’altro canto non ho scelta: l’alternativa è una zuppa di piselli. La odio, la zuppa di piselli. Poi formaggio morbido, patate, prosciutto affumicato. Meno male che Luigi mi ha detto che si sarebbe fatto vivo dopo dieci giorni. La sera stessa mi ha chiamato. Si vede che il caso gli preme molto, probabilmente vuole avere un avanzamento e il ritrovamento di Solana può essere un’ottima spinta. A me farebbe piacere per lui e sono disposto a offrire il mio aiuto, sempre che sia valido. È che non riesco più ad avere un’ottica oggettiva rispetto alle mie reali capacità intellettive. Ma come parlo? Ho solo paura. Paura di scoprire che ormai sono inutile per la società. Un dispositivo di oscuramento radar, un porto in una qualche isola dimenticata, un nascondiglio segreto grande abbastanza per poter ospitare uno yacht... Basta. È una stupidata, non sta in cielo né in terra. A proposito di terra: mi accorgo che la cena è ancora lì davanti a me. Accidenti, se non mangio attraggo l’attenzione e qualche stronzo premuroso verrà a chiedermi perché non ho fame. “Perché non hai fame?” Sto per rispondere male quando mi accorgo che è la voce di Beatrice. “Ehm. Stasera non ho molto appetito.” Ha un’espressione seria ma è solo per scherzo. Ormai la conosco. “Adesso mangi tutto, Giovanni Franti, se no ti sculaccio.” “E va bene. Ma non ce la faccio se stai qui a sorvegliarmi.”

Gli angoli della sua bocca iniziano a non farcela più a mantenersi in basso. Le fiorisce un sorriso, tiene la lingua tra i denti, come fanno le ragazzine. “Tutto bene con la collega?” “L’ho schivata tutto il giorno. Se ti dà fastidio dimmelo subito. Le mollo un cartone a quella là…” La sua graziosa mano si chiude a pugno. “Sì, così ti licenziano.” “Meglio. Così me ne vado.” “E mi lasci da solo?” Quest’ultima frase mi è scappata fuori senza che potessi accorciare il guinzaglio al mio cuore. L’ho detta col tono di un uomo che si sente smarrito. Ormai è uscita, non posso far altro che attenderne le conseguenze. Le si inumidiscono gli occhi. Poi mi parla con un filo di voce, quasi non riesco a sentirla. “Come faccio a lasciarti da solo?” Si riscuote e torna a sorridere, stavolta però gli angoli della bocca faticano a rimanere su. “Ora vado. Mangia tutto. Ciao, Gianni.”

Venerdì 11 luglio 2008

Maddalena mi saluta; è pronta a sistemare un altro vecchietto. Poi stanotte si trasformerà, diventerà una peccatrice. A stento riesco a immaginarmela, ci metto tutta la fantasia che ho ma non ce la vedo come donna fatale. Così nella mia immaginazione la vesto da uomo, le faccio crescere anche un po’ di barba e la metto a braccetto con Beatrice, lei sì femmina, su tacchi vertiginosi, vestitino mozzafiato, décolleté da infarto, sedere scolpito, fisico da sballo. Questo posto mi tira brutti scherzi alla mente. Vanno solo a ballare. Ma non posso resistere, in questo momento è più forte di me fantasticare. Giovanni Franti, sei in astinenza da troppo tempo. Un’infermiera mi riporta in stanza: hanno paura che mi perda da solo. È piccola di statura, taciturna. Per fortuna non è venuta a prendermi la simpaticona. Vado in bagno e mi rinfresco un po’. Ho voglia di provare la vasca, già, c’è persino una vasca. Non ha l’idromassaggio ma, ai miei occhi, costituisce comunque un lusso. Apro l’acqua e ne regolo la temperatura. Poi, quando è bella piena, mi ci ficco dentro. Ah, che goduria. Questa sì che è vita.

Martedì 12 luglio 1997

Ora Linda Mantivano non parla più. Finisce la sua sigaretta e viene a sedersi accanto a me. “Come è successo?” “Una malattia diagnosticata tardi.” “Quanti anni aveva?” “Cinquantuno.” “Mi dispiace.” “Già.” “Non so molto di quest’uomo. Non credo ti possa essere molto d’aiuto.” “Dimmi solo quello che sai.” “E se mi viene a cercare? Se scopre che vi ho dato una mano e decide di farmi fuori?” “Possiamo proteggerti.” “Fino a quando? Io lo so come ragiona un bastardo assassino come lui. Attende paziente, anche anni. Poi colpisce.” Non bisogna insegnare niente a questa donna. Ha maledettamente ragione. “A questo punto se non te la senti non se ne fa nulla.” “Ti posso dire dove è andato dopo che è stato da me. So già che me ne pentirò.” La Mantivano si accende un’altra sigaretta. “Me ne pentirò. Accidenti a te.”

Lunedì 6 agosto 1984

“Ciao, Massimo.” “Ciao, papà.” Mi è venuto ad aprire mio figlio. Probabilmente gliel’ha detto Marta, non se la sente ancora di essere la prima a incontrarmi. “Dov’è la mamma?” “In cucina. Sta tagliando la torta salata.” La torta salata. Marta la fa raramente, quando vuole cucinare un piatto diverso, quando c’è un’occasione speciale. La torta salata m’infonde coraggio. “Lella sta preparando il tavolo.” “Come va la Vespa?” “Ah, è da una vita che è in garage. Uso sempre la macchina.” Sono rimasto un po’ indietro. Che padre attento che sono. “Potresti tirarla fuori ogni tanto. Adesso che è estate poi…” “Non l’ho assicurata. Non ti ricordi?” “Ma certo che mi ricordo. È solo che è un peccato.” Forse la Vespa non è l’argomento di conversazione ideale. Massimo poi non ci tiene più di tanto ad allungare il discorso. Lo sento freddo, distaccato. “Ciao.” “Ciao, Marta.” Mi è venuta incontro. Ovviamente non se ne parla di baci e abbracci.

“Vieni, è pronto.” “D’accordo. Mi lavo le mani.” La mano. Marta nemmeno si accorge della mia gaffe. Ha un’aria stravolta, sarà tutto quello che le ho fatto are. Vado nel bagno al piano terra. Non è cambiato nulla, tutto al suo posto, esattamente come l’ho lasciato un po’ di mesi fa. Non sono ancora molto esperto a usare solo la sinistra, pasticcio un po’ con il sapone. Mi cade per terra. Mi chino per raccoglierlo e mi accorgo che, dalla porta socchiusa, Lella mia spia. Dio mio, non sono nemmeno andato a salutarla. “Ciao, papà.” “Ciao, Lella.” Sembra impaurita. Forse crede che io non sia suo padre, un padre andrebbe dritto ad abbracciarla e a darle un bacione. “Sono tornato. Resto qui per cena. Sei contenta?” “Sì. Vuoi che ti aiuti?” Senza aspettare una mia risposta prende il sapone per terra e lo ripone sul lavandino. Poi ritorna dietro la porta. Il suo visino è serio, non l’ho mai vista Lella con quell’espressione. Dio mio, che le è successo? “Vai ad aiutare la mamma. Arrivo.” “Adesso non parti più?” “No, non parto più. Resto in città.” “Qui a casa?” “Vai dalla mamma.” “Non dormi qui?”

“Forse.” E che le dico? Che deve decidere la mamma se posso are la notte qui? Lella non capisce, mi guarda con aria interrogativa. “Forse, dipende da che ora si fa.” Che sciocchezza. “Vado di là.” “Sì, amore.” Mi asciugo e mi preparo ad affrontare la mia famiglia riunita per cena. Ho paura. È come se avessi sbagliato casa. Sono messo alla prova, è chiaro. È per questo che indugio, che rimango ancora un po’ qui dentro. Non fare lo stupido. Sii uomo. Esco e mi dirigo verso la cucina, guidato dal profumo della torta.

Trent’anni prima

“Interessante… Davvero interessante…” Forza Guido. Parlami. “È un proiettile che risale alla prima guerra mondiale.” Guidotti Guido, ebbene sì, ne sa più del diavolo in fatto di armi. È il motivo per cui respira, si può dire. “Prima guerra mondiale? Ne sei sicuro?” “Più che sicuro. Ne ho uno a casa, uguale identico.” “Ah, sì?” “Raccontami un po’. Dove diavolo lo hai trovato?” Gianni, urge subito una balla. “Stavo scavando nel giardino e…” Potevi fare di meglio, Gianni. Guido pare divertito, emette un risolino, poi torna a contemplare il reperto. “Che razza di fortuna che hai.” Non fiuta nemmeno che mento spudoratamente: è troppo assorbito da ciò che tiene tra le dita. Ci manca solo che lo assaggi, adesso. Dio mio, lo assaggia sul serio! Con la punta della lingua tocca la minuscola ogiva. “Guido, l’ho solo sciacquato, è sporco.” “Riconosco subito un proiettile di valore.” “Dal sapore?”

“Anche.” “E come?” “Sento il salato del metallo e ne identifico la qualità.” Ma fammi il piacere. “Perché quella faccia? Non ci credi?” “Sì… È solo che è un poco stravagante.” In effetti lo è anche Guidotti. Basta vedere come è vestito: salopette di jeans, farfallino, un paio di occhiali massicci che gli cadono in continuazione sul naso. “Allora, quando mi fai vedere il fucile?” “Il fucile?” “Sì, perché questo bambino è uscito fuori dal caricatore di un fucile. Non crederai che mi sia bevuto il ritrovamento nel giardino.” “Io non ho nessun fucile, dannazione.” “Non scaldarti, Gianni. Comunque è illegale tenere in casa questo tipo di munizioni.” “Vorrà dire che lo nasconderò bene. E tu, allora?” “Già. Non dirlo troppo in giro.” “Dipende da te. Grazie.” Seccato mi riprendo il proiettile, lo rimetto nel portafoglio, nello scomparto della moneta. “Viene da un Moschetto '91, Gianni. Sei proprio sicuro di non averne dimenticato uno in un armadio?”

Sabato 11 luglio 2009

Che fai, non ti muovi? C’è tua figlia da salvare, devi svegliarti, devi muoverti. Dove sono? Non lo so più. Resto sospeso a mezz’aria, le mie membra rilassate. Fluttuo in chissà quale sostanza. Si sta bene in questo posto, senza gravità, senza pensieri. C’è solo un’angoscia, sottile, leggera. La caccio via rigirandomi dentro il fluido in cui sono immerso. Si sta bene qui. Muovo persino le dita della destra. Non la vedo ma so che c’è. Pizzica un po’ all’altezza del polso, come se, intorno a esso, ci fosse un metallo caldo e acuminato. Il fastidio va e viene. Ora quasi non si sente, ora mi brucia un po’. Per il resto si sta da dio in questo strano luogo. Sono sdraiato? A testa in giù. Mi vengono in mente gli astronauti. Sono un astronauta? Ecco, ora si spiega tutto. Ma non si vede niente, è buio completo. Se fossi in una stazione orbitale sarebbe tutto illuminato, se no come si fa a essere ripresi, come è possibile essere riconosciuti al telegiornale, come si può diventare famosi? Marta sarebbe orgogliosa di vedermi al telegiornale. Lo saresti? Marta. Perché non rispondi, amore? Sì, sono qui, Gianni. Non sono mai partita, sono sempre qui insieme a te. E allora perché non ti vedo? Io ci sono, dentro la tua mente, dentro il tuo cuore. Sento di nuovo l’angoscia strisciante che si fa strada dentro di me. Mi rigiro di nuovo su me stesso, compio una rotazione completa, ma stavolta non riesco a cacciarla. Tu sei morta, ti sei ammalata e sei morta, tanti anni fa.

È vero, Gianni. Ma sono sempre con te. Non ti lascio, non ti lascerò mai. Marta, non ci sei più, devi capirlo, sei solo una scarica elettrica nel mio cervello. Non hai più pelle, ossa, carne. Allora non mi vuoi più? Io ti vorrò sempre, amore. Un giorno ti raggiungerò, dovunque tu sia. Ma ora è presto, adesso ho bisogno di fluttuare, senza peso, senza gravità, da solo. Non mi vuoi più bene. È vero. Non te ne voglio. Perché tu non sei Marta, sei solo la mia fantasia che ha preso il corpo della donna che amo. Che ho amato. Allora addio Gianni. Mi spezzi il cuore. Tu non sei Marta. Marta è morta. Tu sei un fantasma, non ti posso toccare, stringere, baciare. Tu hai preso il posto di Marta, ti ho creato io, per riempire un vuoto che era insopportabile. Lasciami fluttuare in pace, torna da dove sei venuta. Per piacere, amore, guardami. Io non vedo niente. Ho gli occhi chiusi. Sto dormendo. Guardami, amore. Amore.

Venerdì 10 luglio 2009

Il Danzica effettua l’ormeggio. Il comandante muove un piccolo joystick e il panfilo risponde immediatamente traslando in direzione della banchina. A terra un paio di uomini raccoglie le cime e ne infila la gassa in grosse bitte. Intorno nessuno. La manovra avviene in silenzio. Si sente solo il rumore dell’acqua sconvolta dalle eliche. Ha una bella mano il comandante. In gergo marinaresco vuol dire che è abile, ci sa fare. Si sente sprecato qui, al servizio di questo delinquente. Ma viene pagato profumatamente e gli si mette a disposizione un’imbarcazione di prim’ordine. Ormai si è affezionato al Danzica, con la sua nave ne ha ate tante. L’altra notte, poi, non si scherzava. Per fortuna a un certo punto il mare si è acquietato: con quelle onde si è rischiato davvero grosso. Che ci fa quella ragazza a bordo? Non gli è dato di saper niente degli affari del suo capo. È legata come un salame, sicuramente un rapimento. Ecco, la caricano in macchina. “Caricano” è la parola giusta, perché la mettono nel bagagliaio senza tanti complimenti. Dalla plancia si vede tutto. Ha fretta Solana, non attende un attimo, il Danzica ha ancora i motori accesi, il gherlino di poppa non è stato ancora assicurato. L’ordine è di salpare entro mezz’ora, non appena ultimato il rifornimento di carburante. Poi tornare il giorno prestabilito. Nel suo cuore il comandante spera che alla ragazza non venga fatto del male.

Giovedì 2 luglio 2009

Ho obbedito solo in parte a Beatrice: ho assaggiato un po’, poi ho lasciato lì. Il mio cervello, o meglio, i miei neuroni rimasti vanno a mille. Senza che io lo voglia i miei ingranaggi seguitano a girare, faccio ipotesi, varianti, teorizzo, immagino. Devo assolutamente rivedere il dossier. Maledetto Solana, mi ricordo di te. Eppure non sono ati tanti anni, come diavolo potevo dimenticarlo? Ma è tardi per accedere alla sala multimediale. Se solo avessi un portatile da tenere in stanza, potevo farmelo dare da Luigi, non ci ho pensato. Odio non prevedere quello che mi serve, mi sento un pivello. Questa pen drive dei miei stivali, se non posso infilarla in una porta USB mi è praticamente inutile. Intanto me ne vado nel mio appartamentino e recupero la chiavetta, poi si vede. Frugo nel cassetto del comodino, vado fino in fondo e la trovo. Ritrovo anche il mio portafoglio: qui dentro non ho più avuto occasione di usarlo. Lo apro. Dentro trovo qualche banconota, un appunto su un pezzo di carta piegato in quattro, la tessera di un supermercato. Incuriosito frugo ancora: raggiungo anche il portamonete. Contiene un piccolo oggetto cilindrico di metallo. Ah, ecco cosa c’è dentro. Il mio proiettile portafortuna. Appartiene a un’arma usata nella prima guerra mondiale, il Moschetto '91. I numeri stanno per la data di costruzione del fucile: 1891. L’ho trovato per caso un giorno. Non sapevo da dove venisse, così ho consultato un collega di allora e mi ha detto che, appunto, è molto vecchio. È tutto arrugginito ma mi piace proprio per questo. Lo osservo. Diavolo, non mi ricordo più come l’abbia avuto. Istintivamente lo infilo nella tasca delle mie braghe di cotone, regalo di Lella, poi rifletto sul da farsi. Che ci vuoi fare, per stasera senza il fascicolo non posso concludere un bel

niente. Sconsolato accendo la televisione. Faccio zapping per un po’, poi mi stufo. Su un canale satellitare in chiaro danno un film che ho il sospetto di aver già visto. Tanto vale fermarmi qui: al limite me lo rio. Repetita iuvant, come dicono i Latini. Il mio cervello smette di elaborare e si spegne. Intontito dal sonno a stento riesco a seguire la vicenda. A un certo punto il protagonista sale su un’imbarcazione d’alto mare, uno yacht dalle mille e una notte. Deve liberare un ostaggio tenuto a bordo. L’ho già visto davvero questo film. Ma come finisce?

Venerdì 11 luglio 2008

Sono ancora nella vasca quando una voce da fuori mi dice di prepararmi che è ora di pranzo. Sinceramente non ho voglia di affrontare di nuovo il pubblico. Beh, perlomeno adesso ho un posto isolato, posso evitare la compagnia, basta che arrivi a quella sedia prima di qualcun altro ed è fatta. Chi mi chiama per il pranzo è la zitella acida di mezza età con la divisa da infermiera: riconosco la sua voce stridula. Naturalmente non le rispondo. Aspetto qualche istante, come stamattina, poi mi decido a uscire dalla vasca. Potevo andare in piscina, era aperta. Un bel tuffo mi avrebbe sciolto i muscoli e rinfrescato per bene dopo la seduta di fisioterapia. Ormai è andata così. Devo sbrigarmi, se no mi fregano il tavolo. Non senza fatica esco dalla vasca e mi avvolgo in un asciugamano enorme che reca, in un angolo, il logo ricamato della casa di riposo. Orrendo. Un profilo di vecchio accanto a un profilo di bambino. Oltre che brutto mi appare anche un tantino ambiguo, chi l’ha disegnato dovrebbe cambiare mestiere, concludo, mentre mi asciugo energicamente lo scroto al fine di infilare al più presto le mutande. Dannazione. Sono arrivato troppo tardi. Il mio tavolo è occupato da un omone di cento chili. Potrei andare a protestare, ma cosa gli direi? Ehi, pallone gonfiato, smamma. Questo è il mio posto. E poi non sarebbe il caso di metterti a dieta alla tua età? Bisogna farti la bara su misura, sarebbe meglio chiamare fin da ora il falegname perché, dalla cera che hai, non ti resta molto. Calmati, Gianni, non lasciarti prendere dalla rabbia. Cerca un altro tavolo isolato. Il posto insieme ai tre chiacchieroni dell’altra sera è ancora disponibile. È una situazione di emergenza, mi dico. Non ci vorrà molto. Mangio e me ne vado, tanto non dicono niente.

Mi siedo. Quello davanti a me fa un gesto di stizza: evidentemente gli occludo la visuale. Mi giro e mi accorgo che c’è un televisore appeso alla parete. Ieri non l’ho notato, semplicemente perché era spento. Danno il telegiornale di mezzogiorno, l’audio è basso ma, a quanto pare, al mio compagno di pranzo basta vedere. È quello magrino. Mi guarda come se gli avessi accoltellato la madre. “Non ci vedo.” Non rispondo. “Ehi, ho detto che non ci vedo.” Maledetto vecchio rimbambito, mi viene voglia di riempirti di botte. Ma non faccio nulla. Onde evitare una discussione mi alzo. Vedo Pina con i suoi amici. Vado verso di loro. “Ah, ecco il nostro Gianni.” “Buongiorno.” “Buongiorno? Ma come sei formale, Franti.” “C’è posto?” “Dimmi, Rosa, c’è posto per lui?” “Ma certo, mio caro. Ecco, qui, accanto a me.” Mi siedo. Solo per questa volta, domani parto più presto e conquisto il mio tavolo singolo. “Come hai ato la mattina?” È Giancarlo a rivolgermi la domanda, iniziamo bene. “Fisioterapia.”

“Quella Maddalena è davvero brava, vero?” “Sì.” “Ho una fame, ragazzi… Mangerei una vacca intera.” Pina non si smentisce: non risparmia il suo linguaggio colorito neanche a pranzo. Si mangia e la compagnia scherza e chiacchera. Io non sono molto partecipe, mi limito ad ascoltare. Di punto in bianco Pina mi guarda seccata e sbotta: “E tu non dici niente? Hai la lingua o no?” “Io…” “Io cosa? Avrai pure un commento da fare anche tu.” Sto masticando un boccone nel momento in cui sferra il suo attacco: la mandibola mi si blocca e non si muove più. Poi la donna si scioglie, le torna il sorriso. “Ah, uomo misterioso. Certo, potresti partecipare un po’ di più alla conversazione. Io sono un tipo brusco, non mi piace girarci intorno, dico in faccia tutto quello che mi a per la mente.” “L’ho notato.” “Non sarai arrabbiato adesso, vero, Giovanni Franti?” “No di certo.” In realtà la odio questa vecchia, è solo un giorno che sono qui e fa di tutto per mettermi a disagio. Potrei chiederglielo. Ehi, perché ce l’hai con me? Ma sto zitto, come sempre lascio sbollire la mia rabbia senza darlo a vedere. Arriva il secondo: cotoletta con patate. La cotoletta ha del formaggio sciolto sopra la panatura. Per fortuna le dentiere ricominciano a lavorare e torna il silenzio.

Stasera arrivo minimo mezz’ora prima.

Mercoledì 13 luglio 1997

“Pronto, Luigi?” “Allora? Come è andata?” “È andata.” “Cioè? Bene? E quando torni? Non posso coprirti oltre.” “Prendo il primo aereo, adesso ti dico qual è il volo, così mi cancelli.” “Sì, va bene. Ma cosa ti ha detto?” “Dove possiamo trovarlo.” “Bingo!” “Già.” “Ti sei divertito allora?” “Piantala.” “Ti sei divertito. Ah, se non ci fosse Luigi…” “Piantala, ho detto. Appena ritorno si prepara il piano d’azione.” “D’accordo, capo.” “Dobbiamo prenderlo, quel bastardo.” “Lo prenderemo.” “E i soldi? Le ho dato tutto.” “Sono falsi.”

“Cosa?” “Quando torni, ti spiego.” “Dannazione, Luigi!” “Ora ti devo lasciare. Ciao, vecchio maialone.” “Luigi!”

Martedì 7 agosto 1984

Stanotte ho dormito male. Sarà per il dolore al polso, sarà per la posizione scomoda. Ma dove sono? Che ci faccio nel salotto di casa mia? È presto. La luce ormai ha invaso la casa ma tutto intorno è ancora silenzioso. Ho dormito sul divano. Raggiungo l’orologio più vicino: sono le sei e mezza di mattina. I ragazzi dormono. Mia moglie tra poco si sveglia per andare al lavoro. Ho fatto un o avanti. Quando ho messo piede in casa non avrei sperato di poterci are la notte. Ero già pronto a tornare da Luigi, ieri sera. Alla fine abbiamo cenato, parlato del più e del meno, guardato insieme un po’ di televisione. Il tutto non senza un filo di imbarazzo, lo devo ammettere. Ma è andata bene. Finito il programma, i ragazzi sono andati a dormire; poco dopo anche mia moglie si è alzata dal divano. Mi ha detto “vado a letto”, semplicemente. Non mi ha cacciato né mi ha invitato a seguirla. Mi sono assopito e ho tirato dritto fino a stamani. Mi sento come uno che ha superato una prova, il primo di tutta una serie di esami per riacquistare la patente di marito e padre. Guardo laddove un tempo avevo una mano. Questo è il meno, mi dico. Nonostante abbia sofferto in modo indicibile non è niente in confronto alla perdita della mia famiglia. Se fossi in Marta chiederei il divorzio, ma lei non l’ha fatto, perlomeno non ancora. Accettandomi ancora in casa si è dimostrata più matura di me, più saggia. La separazione è il peggior danno che si possa fare ai propri figli. Mi ami ancora, Marta? Forse ora la risposta è negativa, forse devo riconquistare il tuo amore da zero. Per adesso solo Lella e Massimo ci tengono insieme, lei sopporta perché sa che c’è il rischio di provocare un trauma ai suoi figli, per i quali vuole il meglio.

Ma fingerebbe di amarmi per Lella e Massimo? Mi terrebbe accanto a sé anche se non prova più nulla per me? Angosciato, mi metto a camminare per il soggiorno. Sul cassettone c’è una foto di Massimo da piccolo e sua madre che gli stringe le guance paffute. Marta ha un’espressione serena, piena d’amore. Dio mio, ho rovinato tutto. La magia che leggo nei suoi occhi mentre guarda Massimo, la stessa che vedevo quando mi contemplava prima di un bacio. Perduta del tutto. Non me lo perdonerò mai. “Sei già sveglio?” “Sì.” “Preparo la colazione.” “D’accordo.” Ha i capelli scompigliati dal sonno. Quanto vorrei accarezzarglieli.

Trent’anni prima

Sto tornando a casa dal lavoro. No, non può essere una minaccia alla mia famiglia. Chi mi vorrebbe male? Beh, forse qualcuno c’è che potrebbe avercela con me, ma non fino a questo punto. Chi mi ha dato la chiave come poteva sapere che un giorno mio figlio avrebbe comprato quella Vespa? Massimo è stato seguito per tutto questo tempo? Avrei dovuto bloccare quell’uomo di quel lontano Natale. Gettarlo a terra e dirgli “ehi, chi sei, brutto bastardo?”. Stringo il pugno dalla rabbia. Perché allora non ho agito? Ma si era dileguato nel nulla. Bastava uscire in strada, sicuramente l’avrei raggiunto. Un proiettile della prima guerra mondiale, un pezzo antico. Come mai? Tra poco devo partire per una missione. Stavolta vado piuttosto lontano; mentre guido mi studio il modo per dirlo a Marta. È sempre meno contenta delle mie prolungate assenze. E chi le darebbe torto. Mi scervello fino al vialetto di casa ma non trovo le parole giuste. Alla fine decido che le dico tutto a letto, quando i ragazzi dormono. Perché mi faccio tanti problemi? In fondo è il mio lavoro e ci mantengo la famiglia. Marta ora fa la segretaria da mio cognato Ettore, commercialista. Il fatto che contribuisca anche lei al sostentamento della famiglia non mi dispiace, anzi. Ma è solo un part-time, non è che porti a casa molto. Abbiamo una governante che bada alla casa e ai ragazzi quando non ci siamo. È una brava donna, fidata. Certo potrei scegliere una mansione d’ufficio: la sera sarei sempre a casa, più o meno. Ma c’è una forza dentro di me che mi spinge a partire, a correre il rischio, a infilarmi nel pericolo. Non va bene per un padre di famiglia, continuo a ripetermi. Devo cambiare, prima che sia troppo tardi, prima che avvenga l’irreparabile. Tutta questa storia è legata all’agenzia, ne sono quasi certo. Questo proiettile è

come se mi dicesse: “Giovanni Franti, stai con gli occhi aperti.”

Sabato 11 luglio 2009

Apro gli occhi. Devo aver dormito molto. La prima persona che vedo è Giancarlo. “Ora mi racconti della mano.” “D’accordo.” Cosa d’accordo? Perché dovrei confidarmi con questo perfetto sconosciuto, raccontargli tutto, magari dirgli cose che non ho mai detto nemmeno alla mia famiglia? “Un incidente in missione.” “In missione?” Sì, bravo, Gianni. Sono informazioni strettamente confidenziali queste, non lo sai? “Lavoravo per il Governo. Servizi segreti.” “Oh, mamma.” Giancarlo fa l’espressione odiosa che conosco bene. Sembra proprio un ebete, ma non glielo dico. Continuo invece a parlare. “È stato il mio collega a tagliarmela, Luigi, lo hai conosciuto. A proposito, dov’è?” “Ha detto che sarebbe tornato, non saprei dirti dove sia andato.” “Sarà andato in agenzia. Sai, lui lavora ancora. Là può trovare aiuto.” Dannazione, boccaccia mia maledetta. Ma cosa mi succede? Perché mi sbottono così tanto con Giancarlo? “Quindi è per quello che sei al computer così spesso. Stai cercando tua figlia.”

“Veramente…” “Potevi dirmelo prima. Ti avrei aiutato ben volentieri.” Ciò che ha appena detto mi traa il corpo come una scarica elettrica. Stai cercando tua figlia. In realtà sto cercando un certo Solana, ma l'istinto mi dice che se trovo lui trovo anche Lella. Questo omuncolo odioso e appiccicoso mi ha indicato senza volerlo la soluzione; mi è venuto d’aiuto di nuovo, come l’altra notte, quando mi ha salvato dalla pazzia. “Grazie Giancarlo, amico mio.” “E di cosa?” “Bisogna rivedere le informazioni ancora una volta. Andiamo nella sala computer.” Giancarlo sgrana gli occhi da dietro le lenti. “Va bene, Gianni. Spero di esserti d’aiuto.” “Lo sei già stato. E lo sarai ancora.”

Venerdì 10 luglio 2009

Qui dentro soffoco. Sono in un bagno di sudore. Non ce la faccio più. Chissà quanto tempo è ato. Perché questo viaggio? Forse la storia di raggiungere mio padre è tutta una balla: mi vuole solo portare in un luogo sicuro, isolato. Così può farmi fuori indisturbato. Ma perché mai non ammazzarmi prima? Nel piano che ha in mente, devi restare viva, per ora, se no ti avrebbe fatto secca già da tempo, non credi? Lella, non riesci a ragionare, non sei lucida in questo momento. Devo assolutamente andare in bagno, me la sto facendo addosso. Ci fermiamo. Forse una sosta. Non sento nulla, ho i tappi. “Pausa viaggio, mia cara.” “Mmmhhh.” “Vuoi parlare? Ah, aspetta.” “Devo farla, brutto stronzo.” “Non trattare così me. Se no niente toilette.” Brutto stronzo. Ma se lo insulto non mi fa pisciare e io muoio se non la faccio. “Ti prego, fammela fare. Ti prego.” “D’accordo. Ma modera il linguaggio.” Lo scagnozzo del mio rapitore mi porta in un boschetto sul ciglio della strada. Mi sento più sollevata dopo essermi scaricata. Mi guardo intorno. Mi ha liberato le gambe e le braccia, mi ha levato la benda e si è allontanato. Come mai questa improvvisa fiducia? Potrei fuggire, se non lo faccio adesso non avrò altra occasione.

Decido: mi lancio nella boscaglia con tutta la velocità che le gambe indolenzite mi possono permettere. “Finito?” “Sì…” “Allora torniamo.” Obbedisco. Ha prevalso la paura. Docilmente mi faccio legare nuovamente, quasi entro da sola nel bagagliaio. Sento la macchina muoversi: vuol dire che sono di nuovo sola. Adesso posso piangere.

Venerdì 3 luglio 2009

Mi sveglio. Sempre alla stessa ora: le sette meno cinque. Ormai sono un orologio. Mi accorgo di aver lasciato aperta la finestra, le tapparelle tirate su. Alle nove apre la sala multimediale. Devo solo attendere un paio d’ore. Più ci penso e più sono convinto della mia teoria della nave fantasma. Ma prima devo andare a fare colazione. Ormai il mio tavolo non lo tocca più nessuno. Ho fatto fatica per prenderne possesso: dopo un anno nessuno più si siede al posto mio. Una conquista di cui sentirsi orgoglioso, mi dico. Ho conquistato la solitudine della colazione, del pranzo e della cena. Nessuno mi parla, mangio in pace, senza dover usare la bocca anche per parlare. Mentre faccio questa riflessione in attesa che mi venga servito il caffellatte, incrocio lo sguardo di Pina. Mi sorride, solo un accenno di sorriso. Non si azzarda ad avvicinarsi, se ne sta a uno dei tre tavoli del Club delle Vedove Nere. Ogni tanto mi capita di eggiare con lei. Succede così: io sto per i fatti miei e Pina mi raggiunge prendendomi di sorpresa. Io resto muto, lei parla e mi riempie il silenzio intorno. “Allora, come stanno i tuoi figli?” “Cosa ne pensi di Rosa?” “Ho visto che ti piace il computer. Lo sai usare bene?” “Hai avuto un incidente sul lavoro, che t’han tagliato la mano?” “Come mai non parli?” “Non hai niente da dire?” Queste le domande con le quali puntualmente mi tartassa mentre camminiamo insieme per il parco. Io, che fino a un istante prima non ho fatto che ascoltarla,

rimango spiazzato. Rispondo a monosillabi o resto zitto del tutto. Secondo l’accordo tacitamente approvato da entrambi in tali eggiate lei parla e io ascolto. Ma a quanto pare Pina non si arrende, vuole che tra di noi s’instauri un dialogo. Impossibile. Ora mi guarda dal suo tavolo, sorridendo leggermente, senza salutarmi. È ato un anno ed è ancora lì, decisa a rompere la mia crosta, a penetrare nella mia corazza. Ma come fa? Dove trova tutta la pazienza per sopportare tutto questo? Con tutti gli uomini che ci sono qui dentro, accidenti. Guarda per esempio Giancarlo: è molto più giovane di me, ha l’interesse per l’informatica, è premuroso e gentile. Che vada con lui, per la miseria. Non vedi Pina che ho la fede al dito? Non si può, è contro la religione. Termino la colazione e mi alzo in anticipo. Manca ancora più di mezz’ora all’apertura della sala multimediale ma voglio essere pronto davanti alla porta per conquistare la mia postazione preferita: naturalmente quella più isolata. Devo dare una forma credibile alla mia teoria prima di esporla a Luigi. Non posso basarmi solo su uno stupido quadretto con dentro un pesce imbalsamato. Mi lavo i denti, recupero la chiavetta e mi lancio fuori dalla mia stanza. Accidenti. Appiccicato al vetro della porta della sala multimediale c’è un avviso.

Oggi la sala rimane chiusa per lavori.

Dannazione. Non potevano avvertire ieri? E adesso? E che cavolo di lavori devono fare? Ieri era tutto a posto! Ho assoluto bisogno di un computer. A chi posso rivolgermi? “Ciao Gianni. Che ci fai qui? Volevi entrare, ma oggi non apre, sai?”

Beatrice. Magari lei può aiutarmi. E che le chiedo? Se ha un computer? “Hai un computer?” “Sì, ho un portatile. Sei fortunato, oggi ce l’ho in macchina.” Dopo cinque minuti ecco che si presenta con un apparecchio che assomiglia più a un astuccio per il trucco che a un computer. Color rosa shocking, con una testa stilizzata di un gatto e la scritta “Hello Kitty”. Basta che abbia la porta USB. “Ti piace? Me l’ha regalato Maddalena.” Allora è veramente lesbica. Che delusione. Ma ora c’è ben altro da fare che preoccuparsi delle preferenze sessuali di Beatrice. “Me lo presti per un’ora?” “Ma certo… A cosa ti serve? Sei capace di accenderlo?” “Sì, lo so usare. Mio figlio mi ha mandato delle foto e vorrei vederle.” “Non poteva stampartele?” “Non ha avuto tempo. Mi ha dato la chiavetta ed è scappato al lavoro.” “Posso vederle anch’io?” Dannazione, è proprio vero che a mentire bisogna essere capaci. Insiste: “Te le stampo io se vuoi.” “No, grazie. Le guardo al volo e basta.” “Va bene. Adesso devo andare, però. Mi raccomando, trattalo bene. Se si rompe la senti, quella.” “Grazie.” “Di che. Per te, Gianni, questo e altro.”

Cosa vuole dire? Che mi farebbe anche altro? Ecco che arriva, puntuale, l’erezione. Almeno so che lì sotto l’idraulica funziona ancora.

Venerdì 11 luglio 2008

Forse ho anticipato un po’ troppo: non c’è ancora nessuno ai tavoli. Non importa, prima di tutto l’obiettivo: occupare-il-tavolo-singolo-isolato. Mi siedo. Provo soddisfazione per l’avvenuta conquista: finalmente ce l’ho fatta, mi sento come credo si sia sentito l’uomo che per primo ha messo piede sulla Luna. Finalmente stasera posso godermi la cena senza che Pina si avvicini. Guardo l’orologio sul muro. Dio mio, manca quasi un’ora. Che ci faccio qui, da solo, per un’ora intera? Non ho pensato di prendere un giornale da leggere, accidenti. Stupido, stupido, stupido. Ma c’è la televisione! Sì, la televisione, quella appesa. Meno male. Faccio per alzarmi per raggiungere il telecomando. No. Non posso abbandonare il mio posto, metti che ci sia in giro uno che la pensa come me e arriva anche lui un’ora prima? Non posso alzare il sedere dalla mia sedia, è rischioso. Il vecchio pancione può comparire d’improvviso all’ingresso e dirigersi verso il tavolo mentre io sono impegnato con il televisore. Sei malato, Giovanni Franti, malato nella testa. Ma potrei fare un tentativo, in fondo il grassone si muove lentamente e io sono allenato. In fondo ci vuole un secondo per l’operazione, forza, andiamo.

No. Il mio culo flaccido non vuole saperne di scollarsi dalla sedia. È un pericolo troppo grosso. Rivedo come in un incubo l’ossuto ospite scontroso, rivedo il sorriso ironico di Pina che mi sprona a dire la mia. Ma che faccio, intanto? Sono in trappola. Per di più magari qualcuno del personale può cacciarmi fuori, e io perderei in un attimo la posizione tanto faticosamente conquistata. Che posso fare, dannazione? I miei occhi non si staccano dalla lancetta dell’orologio. Il tempo pare si sia fermato, i secondi sono minuti, i minuti ore. È la volta buona che divento pazzo. Intanto non si fa vivo nessuno. Il grassone, l’infermiera antipatica, Beatrice, Giancarlo, Pina. Nessuno. Pare che questa stanza sia stata dimenticata dal resto del mondo. Mi sembra di essere in un incubo, tutto appare irreale, come se fossi caduto in una dimensione parallela, dove l’unico essere vivente sono io. Devo riuscire ad accendere quel dannato televisore. Devo rischiare. Se no muoio. Uno. Due. Tre. Ora sono in piedi: non resta che arrivare al telecomando e tornare in tutta fretta. Ci sono riuscito! Sono di nuovo seduto e tengo nella sinistra il telecomando. Non mi sembra vero. Punto lo strumento verso il televisore: non si accende. Maledizione. La spia rossa non è accesa. Devo alzarmi di nuovo per pigiare il tasto posto sotto lo schermo. Chi diavolo l’ha spento! Stavolta però la distanza da percorrere è maggiore: il rischio sale. Non ho alternativa. Uno. Due. Tre. Sono di nuovo in piedi. Cammino con

nervosismo, i piccoli e veloci, come se mi stessi per cagare addosso. Schiaccio il tasto e il led rosso si accende: non mi resta che puntare nuovamente il telecomando. Il led diventa verde; un istante dopo il video s’illumina. Torno a sedermi. Danno un telefilm austriaco vecchio almeno di quindici anni. Una noia mortale. Mi viene da piangere: il telefilm non riesce a interessarmi minimamente. Non mi resta che aspettare che la dannata ora i. Non se ne parla di uscire dalla sala, figuriamoci! Con tutti i rischi che mi sono preso, mi sono alzato ben due volte. Sei proprio un ignorante. Sì, Marta, hai ragione.

Lunedì 18 luglio 1997

“Mantenetevi in posizione. Nessuno si muova se non do il comando.” “Ok, capo.” “D’accordo, Gianni.” “Sì, vecchio mio.” Luigi. Sempre lo stesso. Il signor Solana ha i minuti contati. Grazie alla Mantivano siamo riusciti a raggiungere il suo rifugio. “Pronti a entrare.” Con la sinistra stringo la Beretta, mia fedele compagna. Faccio fatica a tenerla, non so nemmeno se potrei mirare correttamente. È almeno mezz’ora che ci siamo appostati: il rilevatore di calore ci dice che ci sono almeno tre persone. Il pericolo è che siano pesantemente armati. Chi l’avrebbe mai detto di trovare Solana ancora a New York. Non si è mai allontanato dalla metropoli, il bastardo. Semplicemente se ne stava in un bunker fattosi costruire proprio sotto l’abitazione in cui viveva con la propria famiglia. Chissà perché lo ha detto alla Mantivano, forse era ubriaco quella notte, magari sotto l’effetto di una sostanza stupefacente. Viveva nella Grande Mela sotto falsa identità. Ha inscenato una partenza ed è scomparso. In realtà se ne è stato là sotto per tutto il tempo. La Mantivano credeva che scherzasse mentre lui le rivelava il suo segreto. Non lo so, è stato troppo facile. Certo se non avessi agito secondo il piano di Luigi non avremmo mai saputo. Una domanda che mi sorge spontanea è perché Solana si sia aperto fino a questo punto con Linda. Come fa a essere ancora viva, poi? Con quello che sa, qualunque malavitoso la manderebbe all’altro mondo.

Insieme alla mia squadra sono davanti all’ingresso del bunker: nello scantinato, una botola nascosta sotto un tappeto. Solo il nostro respiro rompe il silenzio. È il momento di entrare. Non so cosa ci aspetti là sotto. Mi concentro per dare il comando ma dalla mia bocca non esce una parola. “Gianni. Tutto bene?” “Sì… Sì, un momento.” Dannazione, ho paura. È da tanto tempo che non prendo parte a una missione. A proposito, non avevo promesso a Marta che non avrei più partecipato ad alcuna missione? E i ragazzi? Non ho detto nulla a loro. Lella è in vacanza con un’amica in Egitto, Massimo lavora. “Gianni…” D’improvviso mi sento un traditore: sono venuto meno a una promessa solenne fatta a Marta. Proprio adesso mi devono venire tutti questi pensieri, dannazione? Nel momento cruciale della missione? La sofferenza che ho ato e ho fatto are alla mia famiglia non è servita a nulla, allora? “Per l’amor del cielo, Gianni, che ti succede?” Sono paralizzato. In queste condizioni non posso dare l’ordine di fare irruzione nel rifugio di Solana. Ci sta aspettando armato fino ai denti, dannazione. Proprio adesso doveva capitarmi un conato di coscienza? I miei compagni sono allibiti. Luigi inizia a scuotermi per il braccio, inutilmente. Sono fermo e non riesco a muovere un muscolo.

Martedì 7 agosto 1984

“Allora, come è andata?” “Bene.” “Lo sapevo.” Luigi mi squadra seduto su un gradino dell’ingresso della sua casa. Con l’autobus sono tornato da lui per prendere il resto delle mie cose. “Io invece ieri sera ho litigato con Barbara. Un litigio bello grosso.” Sentivo in effetti un po’ di tensione tra di loro: probabilmente è stata la mia presenza a impedire che sfociasse in uno scontro e, nel contempo, a far sì che si accumulasse nei giorni in cui ero ospite loro. “Mi dispiace.” “Più a me, vecchio mio.” “Non dovevo fermarmi così tanto da voi.” “No, non pensarlo nemmeno. Il bubbone sarebbe scoppiato né più né meno. Ma non preoccuparti per noi. Ce la caveremo.” Mi siedo accanto a lui. Ha lo sguardo perso, stavolta non ce la fa a sorridere. Sorrido io, stavolta. “Luigi, stasera andiamo a ubriacarci. Che ne dici?” “Non ci credo manco morto che intendi veramente farlo, ti conosco da troppo tempo.” Riesco nell’intento: Luigi cambia espressione, torna il bambino terribile di sempre. “Ma sì. Andiamoci. Tanto Barbara torna solo dopodomani. È andata da sua zia

che non sta bene.” Accidenti, mi sono messo da solo in trappola. Proprio ora che sono appena stato riaccettato in casa da Marta, non è proprio il caso di programmare subito un’uscita goliardica. “Allora ti aspetto, vecchio mio. No, un momento, come fai a guidare? Vengo io. Alle nove.” “Alle nove.” Dannazione. E adesso che faccio?

Trent’anni prima

“Sei tornato tardi, stasera.” “Un po’ di straordinari.” “Li fai sempre gli straordinari, non ci sei mai.” “Al diavolo, sempre la stessa storia, lo sai che è lavoro.” “Non alzare la voce, è tardi. I ragazzi stanno già dormendo.” “Ma non capisci che lo faccio per voi?” “Certo che lo capisco, ma la vita non è solo lavoro, e poi ci siamo noi.” “Dannazione, che devo fare?” “Stare di più con me, con Massimo e con Lella, possibile non ti entri nella zucca? Io voglio un marito e un padre presente, non m’importa dei soldi se non possiamo essere una famiglia, lo capisci questo?” “Adesso sei tu ad alzare la voce.” “Sei tu che mi fai andare fuori dai gangheri.” E come faccio a dirglielo che la settimana prossima parto per una missione? “Datti una regolata, Giovanni Franti, che così non va bene.” Marta si gira seccata e tira il lenzuolo su di sé. “Spegni la luce, per piacere.” Glielo dico domani. No, devo dirglielo adesso. “Marta.”

“Cosa c’è…” “La settimana prossima…” “Cosa succede la settimana prossima?” Bel tempismo, ora va su tutte le furie. “Ho una missione.” Marta si gira e si siede sul letto. Mi guarda semplicemente. Mi aspetto una scenata, invece se ne resta lì, con disegnata sul volto un’espressione di rimprovero e di rassegnazione al tempo stesso. “Perché non dici niente?” Non si muove più, è diventata una statua, i suoi occhi mi scavano dentro e mi fanno sentire profondamente in colpa. Dopo un intervallo di tempo che mi è parso interminabile, si corica nuovamente, nuovamente tira su di sé il lenzuolo. “Tu pensi solo a te stesso. Non si può continuare così.” La sua voce è neutra, la voce di chi fa una semplice constatazione. “Spegni la luce, per piacere.” Raggiungo l’interruttore e lo schiaccio. C’è buio, ora.

Sabato 11 luglio 2009

Ho spiattellato tutto a Giancarlo, l’odioso, l’impiccione, perché mai? Adesso siamo io e lui seduti davanti al monitor, io a riguardare per l’ennesima volta il dossier Solana Rodriguez. “Non dovrei farti vedere questo, è top secret.” Vedo disegnarsi un’espressione di soddisfazione sul suo volto. Gli piace giocare a fare l’agente segreto, a quanto pare. Come può farsi scappare un’occasione del genere per fuggire dalla mortale routine di questo posto. “Chi è il tizio?” “Uno a cui ho dato la caccia. Adesso è ancora libero e in grado di fare del male.” “È lui che ha rapito tua figlia?” “Ho paura di sì.” “Come lo sai?” “Lo so e basta, Giancarlo.” “Non scaldarti, Gianni.” In effetti la mia è solo una sensazione, forse è solo la mia mente debole che tende a collegare le due cose. Ma non voglio cedere, non posso, adesso. Magari è tutta una mia fantasticheria ma devo andare fino in fondo per scoprirlo. “Adesso voglio trovare una fotografia…” “Una fotografia? Certo che questo tizio ha una faccia, non vorrei incontrarlo per nessuna ragione al mondo.” “Io l’ho incontrato.” Ecco, finalmente. Davanti a noi si visualizza lo scatto che mi ha fatto accendere

la lampadina. Rivedo Solana, i personaggi intorno a lui, il pesce appeso alla parete. “Cosa cerchi in questa foto?” “Non lo so ancora di preciso…” “Non lo sai? E allora che la guardiamo a fare?” “Senti, sei qui per aiutarmi o per rompere?” Gli mollerei un cazzotto tra i denti, in questo momento. Mi metto a zoomare e a puntare la freccia del mouse su ogni faccia dei presenti, rivedo le informazioni a disposizione su ognuno di essi. Non trovo nulla che mi possa offrire uno spunto o che mi permetta di creare un collegamento. “C’è un’altra persona, Gianni.” “Come un’altra persona?” “Lì, nell’angolo a destra, non la vedi?” “Ma non c’è nes… Un momento.” Punto lo zoom e aumento al massimo la definizione: c’è come un’ombra, ma sì, è un braccio, si vede la forma del gomito. Entra nella foto per un pelo. Come ho fatto a non notarlo? Scendo giù lungo di esso e arrivo al tavolo: c’è un orologio, si riesce a distinguere un cinturino di acciaio, il gancio è aperto. La persona misteriosa se lo è tolto perché, probabilmente, gli dà fastidio tenerlo troppo a lungo. Zoomo su di esso e aumento la definizione. “È un Rolex Daytona. Ne ho avuto uno identico, sai, Gianni? Una volta ero apionato di cronografi sportivi… Beh, anche adesso mi piacciono. Avevo anche una collezione di riviste sull’argomento, cavolo, come si chiamava… Poi le ho regalate a mio nipote… O era il figlio di Armando…” “Ho capito, Giancarlo. Ho capito.”

“Sì, sì, è proprio lui. Pensa che me l’hanno rubato. Saranno ati quindici anni… In palestra, se non ricordo male. Che sciocco che sono stato. Un orologio così non si lascia in uno spogliatoio.” “Dio mio. Devo chiamare subito Luigi.” “Cosa c’è, Gianni?” Chissà quante volte ho visto Borlotti toglierselo e appoggiarlo sul tavolo della sala riunioni dell’agenzia prima di esporci un programma di missione. Iniziava sempre con la sua stupida battuta, “questo è un Daytona, ve lo dovete meritare, e non provate a fregarmelo”. Gran figlio di buona donna, allora ci sei tu dietro a tutto questo.

Venerdì 10 luglio 2009

Sono stanca, sarà notte ormai. Ho tutto il corpo intorpidito. La macchina si ferma. Forse siamo arrivati. No. Riparte. Ho l’impressione che intorno ci siano altre macchine, chi guida continua a frenare e a ripartire, come se fossimo imbottigliati in una fila. Siamo in una città. La mia città, non la vedo ma sono sicura che sia lei. Forse ora posso scappare. Impossibile che non mi noti nessuno se mi tirano fuori dalla macchina. Ma dove sono, di preciso? Ora sento meno il traffico, come se stessimo andando in campagna. La strada è piena di curve, vengo sballottata di qua e di là. Accidenti, che male! Vai piano, brutto bastardo! La macchina adesso rallenta, come se fe fatica a proseguire; sono attirata verso la parte posteriore del bagagliaio. Stiamo salendo. No, non è possibile. La casa di riposo di papà sta sulla collina della città. Dio mio, siamo già qui? Allora dice sul serio. Vuole ammazzare papà, questo psicopatico, papà, me e Massimo. Devo reagire, cercare una soluzione. Ma cosa posso fare?

Venerdì 3 luglio 2009

È proprio un trabiccolo, questo computer. Ci mette una vita, è più lento del macinino che usavo dieci anni fa. L’ho appoggiato sul comodino: perlomeno ha il pregio di essere compatto e stare dappertutto. Sono seduto sul letto sfatto. Di solito a quest’ora sono fuori dalla mia stanza. È l’ora in cui un inserviente entra per fare il letto e sistemare. Dannazione, non ci avevo pensato. Devo fare in fretta, accidenti, e questo affare impiega un secolo a caricare il file. Non ce la farò mai, dio mio che idea che mi è venuta. Potevo aspettare quando avrebbe aperto la sala multimediale. E invece no, testa dura che non sei. Un momento. Ma io posso stare nella mia stanza finché voglio, chi me lo vieta? Ci mancherebbe altro che in questo posto del cavolo non possa fare quello che mi pare e piace a ogni ora del giorno. Sono grande e vaccinato, se voglio stare al computer nella mia stanza lo faccio eccome. E no, eh? Che mi si impedisca di disporre come voglio del mio tempo alla mia età non lo tollero. Intanto non arriva nessuno. Meglio agire in fretta lo stesso. Sei un vigliacco, Giovanni Franti, ecco che sei. Adesso hai fifa, con tutto quello che hai ato nella vita, come fai ad aver paura? Non riesco a concentrarmi sul mio lavoro, sono troppo nervoso. Ci mette dieci volte tanto, maledizione. Ecco la sezione foto. Ritrovo Solana e l’allegra compagnia; riguardo l’immagine, ne scruto ogni particolare. Torno sul pesce, lo ingrandisco fino a quando si riduce a un ammasso di pixel. Perché sono così attirato da questa fotografia? Ho l’impressione che il povero collega che l’ha scattata abbia egli stesso notato un particolare compromettente.

Che sia proprio questo scatto ad aver determinato la sua scomparsa? Ogni zoomata e ogni apertura di un link è fonte di immane sforzo per il notebook di Beatrice. Ma non mollo. Mi concentro sulla fotografia e dimentico tutto il resto, che è tanto. Su, Franti, vediamo se il tuo istinto funziona ancora, cavaci fuori un'informazione importante , dannazione. “Che bel computer che hai, un po’ da checca ma carino.” Immediatamente chiudo lo schermo sulla tastiera. Mi giro, è Pina. “Sei connesso a un sito erotico? Non ti devi vergognare, sai?” “No. Sto solo scrivendo.” “Scrivi? Ah, questa non la sapevo. Sei un uomo pieno di sorprese, Giovanni Franti.” Prima che possa replicare in qualche modo, lei se ne è andata. Rimango un po’ spiazzato dal suo comportamento e me ne resto lì un minuto buono, come un tonto, con il notebook chiuso. Cosa stavo facendo? Ah, sì, la foto di gruppo. Riapro lo schermo e trovo una sorpresa: un avviso mi dice che sono a corto di energia. a un istante e, con un lieve sbuffo, il computer si mette a riposo. Beatrice non mi ha nemmeno dato il cavo di alimentazione. Sono al punto di partenza. Dove diavolo è? Devo trovarla, quella sciagurata. Neanche il filo si porta dietro! Furibondo esco dalla mia stanza col computer sotto braccio e vado in cerca della sua proprietaria. Eccola là, in fondo al corridoio; sono fortunato, l’ho trovata subito. “Ah, Gianni, hai già finito? Spero ti sia servito.”

Senza che possa reagire lei se lo è già preso. “Adesso lo riporto in macchina. Quando ti serve dimmelo.” E di scatto se ne va, lasciandomi lì, senza il tempo di proferir parola. La pen drive è ancora attaccata. “È ancora attaccata…” “Cosa, Gianni, è ancora attaccata?” Giancarlo. Tanto per cambiare. “Niente, Giancarlo, niente.” Senza aggiungere altro me ne vado. Ma come ti comporti, che diavolo fai? Se Beatrice vede quelle cose vai nei guai, tu e lei. Perché ho reagito così stupidamente? Sono rincitrullito del tutto, dannazione. Torno a cercare la ragazza. Non posso permettermi che succeda un casino.

Venerdì 11 luglio 2008

Finalmente, alla spicciolata, incominciano a entrare gli ospiti. Non ne potevo più di quel telefilm austriaco, inframmezzato, tra l’altro, da interminabili sequenze di spot pubblicitari. Sono riuscito però a indovinare chi ha usato la pistola: è stata la moglie di Hans, la persona apparentemente al di sopra di ogni sospetto. Alla fine del telefilm ho un moto d’orgoglio per aver indovinato il colpevole. Allora sono ancora un bravo investigatore, mi dico. Alla vista dei miei simili, provo sollievo. Tra i primi entra il ciccione: è chiaramente ansioso di raggiungere il tavolo singolo. All’ingresso spintona una signora altrettanto obesa, se non di più. Per un pelo non le fa perdere l’equilibrio. Ah, ah, ti ho fregato, maleducato che non sei altro. Arrivi troppo tardi, mio caro. Mi lancia uno sguardo di sfida; io lo ricambio. Allora il rischio era reale, allora ho fatto bene ad anticipare. Pian piano mi convinco che il mio sacrificio non è stato vano e me ne rallegro. Ecco Pina. Mi saluta. Va al suo posto. Bene.

Lunedì 18 luglio 1997

“Gianni!” “Che c’è?” “Che hai te!” “Non lo so.” D’improvviso da sotto proviene un rumore. Luigi fa in tempo a scansarmi che una raffica di proiettili buca il pavimento. “Via di qua! Ci hanno scoperto!” Faccio arretrare la mia squadra: questa è una trappola bella e buona. Solana voleva che arrivassimo da lui, è chiaro. Maledizione, come sono stato ingenuo. La Mantivano mi ha spifferato tutto perché io potessi finire nella tana del lupo. La raffica di proiettili che proviene dal basso si fa più fitta e insistente. Là sotto hanno un arsenale. In pochi istanti siamo tutti fuori dalla casa. Nessun ferito tra i miei uomini. Ora là sotto c’è di nuovo silenzio. “Una bella bomba incendiaria e li arrostiamo tutti, che ne dici, Gianni?” “Dobbiamo prenderlo vivo, Solana è troppo prezioso.” “Da quando un pezzo di merda è prezioso? Quello si difende fino alla morte, allora tanto vale farlo fuori al più presto. Mi dici cosa ti è successo là dentro?” “Non lo so, Luigi, non lo so.” Invece lo so benissimo: ho avuto paura. Il silenzio persiste: spero solo che nessuno abbia chiamato la polizia.

Accidenti, sento le sirene. Nel giro di un minuto avremo compagnia. “Andiamocene.” “Cosa, Gianni?” “Hai sentito bene. Allontaniamoci subito.” “D’accordo, sei tu il capo.” “Esattamente, Luigi. Quindi portiamo il culo lontano da qui.” Prima di essere a contatto visivo con la polizia siamo già sul furgoncino che abbiamo parcheggiato a un isolato di distanza. La zona, residenziale, è poco trafficata a quest’ora. Intorno a noi eleganti villette. È un quartiere di lusso, Solana non si è minimamente preoccupato di mantenere un basso profilo. La polizia è arrivata: si vedono i lampeggianti, illuminano a colpi l’interno della base mobile. Spero che Solana non sia così stupido da andare allo scoperto; d’altronde che alternativa ha se quel tappeto viene sollevato? E se inizia uno scontro a fuoco per causa nostra? “È un bel casino, adesso…” “Capo, che facciamo?” “Ce ne stiamo qui e vediamo che succede. Siamo abbastanza distanti da non destare sospetti.” Mentre lo dico però mi viene da pensare che il nostro furgone, nonostante sia del tutto anonimo, in questo quartiere non si è mai visto. Voglio comunque attendere: se c’è bisogno sono pronto anche a dar man forte alla polizia. Il fatto è che l’agenzia vuole recuperare Solana senza spifferarlo tanto in giro: se venisse arrestato dalle forze dell’ordine in un attimo il suo brutto muso sarebbe sui telegiornali di tutto il mondo, lo verrebbero a sapere tutti, compresi i componenti della sua capillare organizzazione. Aspetto ancora un po’. Rimango con il fiato sospeso, immobile. Non si sente niente, si vede solo la luce a intermittenza delle volanti.

Solana, se sei furbo te ne stai zitto là sotto.

Martedì 7 agosto 1984

Un rumore di macchina che risale il vialetto di casa. È Luigi che mi è venuto a prendere. Quel maledetto adesso si mette anche a strombazzare. L’occhio mi cade sull’orologio appeso alla parete. Strano, sono solo le otto e mezza. Aveva detto alle nove. “Vieni dentro, Luigi.” Mia moglie mi ha preceduto all’ingresso: adesso entra, chissà come si comporta. “Allora, Marta, cosa mi dici?” Non le dà nemmeno il tempo di rispondere che già parte in cerca di me. Gli vado incontro. “Dov’è il mio socio? Ti nascondi?” “Sono qui, Luigi.” È completamente sbronzo, non so come abbia potuto guidare fin qui. “Sai, socio, oggi pomeriggio mi è arrivata una bella telefonata…” “Luigi, sta’ calmo. Siediti un attimo, ecco, qui.” “Lo sai chi mi ha chiamato?” “Chi ti ha chiamato, Luigi?” “Barbara. E lo sai cosa mi ha detto?” “Cosa?” “Che vuole prendersi un periodo di pausa. Che deve pensare.” “Non ha detto quando torna?”

“Credo mi abbia mollato, sai, socio?” Marta osserva da lontano, evidentemente non se la sente ancora di consolare qualcuno che si è comportato come me, lasciando la donna che ama in sospeso, nel continuo timore di rivederlo tornare morto. “Non devi fare così. Stai calmo, non pensarci.” “Adesso, mio caro socio, andiamo a fare baldoria. Su, dai, mettiti in ghingheri che partiamo. Guido io, non ti dispiace?” Incontro lo sguardo di Marta: ha un’aria distaccata. Tiene le braccia conserte e attende in silenzio. “Tu non sei in grado di andare da nessuna parte in macchina, Luigi.” “Ti sbagli, mio caro. Come credi che sia arrivato qui? Su un asinello?” “Tu stanotte stai qui, niente discussioni.” “Ma cosa dici? Stanotte si va in giro, nei locali, a puttane. Oh, scusa Marta, non volevo…” Marta rimane sempre in silenzio e ci guarda. “Adesso ti rilassi un po’. Ti porto del latte, così smaltisci la sbronza.” “Io stasera il latte lo bevo solo dalla tetta di una…” Non fa in tempo a finire la frase che viene colto da un attacco di riso isterico. “Vado a prenderlo io.” Sentire la voce di Marta mi rinfranca. In fondo è sempre stata amica di Luigi, è come un fratello per lei. Forse adesso se lo è ricordato. “Non devi fare così, vedrai che Barbara ritorna.” “Cosa vuoi che ritorni, cosa vuoi che ritorni, mi ha lasciato, lasciato, lo capisci? Lasciato per sempre…”

Affonda il viso nelle mani. Non riesco a capire se stia piangendo. “Ecco il latte.” Marta appoggia il bicchiere sul tavolino, davanti a lui. Lo prendo e glielo porgo. “Un sorso. Forza.” “È stato un inferno, laggiù. Vero, Gianni? Un inferno…” “Sì, Luigi. Ma adesso è finita. Non ci pensare.” Fa per prendere il bicchiere ma non riesce nemmeno ad afferrarlo. Lo aiuto io, sembra di star dietro a un bambino. I ragazzi sono di sopra, nella loro camera. Spero che rimangano su, non voglio che assistano a questa scena. Marta è ritornata a guardarci distaccata. Si rianima alla vista di Lella e Massimo che scendono dalle scale. Lella va da sua madre, Massimo si ferma sul primo gradino, come per tenersi pronto a tornare su. “Zio Luigi... Mamma, che cos’ha lo zio Luigi?” “Non sta tanto bene, ma tra poco gli a. Andate a guardare la televisione in cucina. Tra un attimo arrivo anch’io.” I ragazzi obbediscono e se ne vanno di là. Dopo un istante, la tele è accesa, danno un poliziesco: si sente una sparatoria. Luigi ha un sussulto. “Vado a dire di abbassare il volume.” “Ciao, Marta…” Per un po’ rimaniamo in silenzio. Poi Luigi prende la parola. “Tua moglie ha ragione a essere arrabbiata con noi.” “È arrabbiata con me, non con te.” “Con te, con me… Che differenza fa? Siamo due bastardi figli di puttana, guarda

che disastro che abbiamo combinato.” Non mi viene da aggiungere niente: quello che dice è quello che penso anch’io. Di fatto mi sento un bastardo figlio di puttana, né più né meno. “Voglio andare a casa, Gianni.” E come ce lo porto? “No. Tu rimani qui, stanotte. Dormi sul divano, diventa un letto, sai?” “Ho bisogno di tornare a casa, amico mio.” “No, in queste condizioni non puoi…” “Gli do io un aggio. Tu sta’ qui coi ragazzi.” Marta è tornata in salotto, non me ne ero accorto. In mano tiene le chiavi della macchina.

Trent’anni prima

Non so cosa mi trattenga ancora. Sono snervata, estenuata. Perché sto ancora con lui, perché, Marta Orlini, non fai come la tua amica sca? Lei lo ha avuto il coraggio di fare i bagagli. Ecco, senti come russa. A quanto pare si è addormentato, a quanto pare non gli interessa più di tanto. Il bastardo, vorrei riempirlo di botte, ho un nervoso addosso che lo ucciderei. Così parte ancora e ci lascia ancora qui, col cuore in gola, ad aspettarlo. Vai, vola via, non tornare, però. A volte preferirei saperti morto che vivere così, nella continua incertezza. È tardi, devo cercare di dormire. E come faccio? Ho voglia di spaccare tutto, come posso dormire, come posso are la notte al fianco di questo emerito stronzo egoista? Non gli frega niente, assolutamente niente, di me, di Massimo, di Lella. Devo alzarmi, ho bisogno di aria.

Sabato 11 luglio 2009

“Luigi.” “Sì, dimmi. Ti sei svegliato? Stai meglio?” “Luigi, dove sei?” “In agenzia. Sto lavorando sul computer centrale.” “Esci di lì.” “E perché mai?” “Non posso dirtelo per telefono.” “D’accordo. Sei tu il capo.” “Esci di lì e torna qui. L’hai sentito Massimo?” “No, Gianni. Credo che stia andando a fare la denuncia.” “Dannazione…” “Adesso ti lascio. C’è Borlotti che mi ronza intorno. Oggi non dovrei essere qui. Neanche lui, adesso che ci penso.” Che ci fa Borlotti il sabato in agenzia? Evidentemente è sul chi va là, evidentemente è, in qualche modo, ancora in contatto con Solana. “Senti… Resta lì un altro po’. Tieni d’occhio lo struzzo.” È il modo con il quale Luigi e io ci riferiamo a Borlotti quando non vogliamo che si capisca che stiamo parlando di lui. Mi stupisco che me lo ricordi ancora, dopo tutti questi anni. “Struzzo” è semplicemente la storpiatura di “stronzo”; l’animale, per fortuna sua, non c’entra niente.

“Vuoi dire che…” “Fallo e basta. Dopo torna qui e fammi sapere.” “Lo sapevo, l’ho sempre saputo che è marcio. Adesso gli tiro il collo allo…” “Sta’ a sentire, ora bisogna assolutamente mantenere la calma. Sorveglialo, poi voglio sapere tutto.” “Come vuoi, capo. Se però scopro che alla tua bambina è stato torto un solo capello, io lo faccio fuori. Giuro su dio.” Interrompe la chiamata. Giancarlo mi guarda perplesso. “Ora cosa si fa?” “Niente, amico mio, niente.” Dopo tanti anni ho imparato che, a volte, bisogna solo attendere. E non è facile, soprattutto quando è in gioco la pelle della propria figlia. L’attesa è snervante, ti fa sentire impotente, in balia degli eventi, incapace di condurre il gioco. Spesso mi viene da pensare che si è più preparati all’azione che all’inazione: è più facile muoversi in preda al panico che stare fermi mantenendo il sangue freddo. La sala multimediale inizia a riempirsi. Certo Giancarlo e io siamo una coppia che attira l’attenzione: fa strano vederci insieme alla stessa postazione. “Giancarlo, qui dentro nessuno deve venire a sapere di tutto questo.” “Hai la mia parola.” Assume un’espressione solenne mentre lo dice. Ci manca solo che mi porga la sua mano per stringere la mia, che, tra parentesi, non ho. Ecco che l’allunga. “Sì, va bene. Non serve fare tutta la cerimonia.” “Oh, scusa.” Sotto sotto il desiderio di picchiarlo non si è mai sopito completamente. Ma devo

trattenermi: mi sta aiutando. C'è uno che guarda: metto la schermata a icona. Mi connetto su Internet e faccio temporaneamente finta di navigare. Dentro lotto per scacciare la disperazione.

Venerdì 10 luglio 2009

“Stanotte si sta qui. Oh, che bel gattino, vieni qui, micio bello.”

Ernesto resta un po’ sulle sue, poi, lentamente, con circospezione, si avvicina a Solana. Si mette a fare le fusa contro la sua gamba. È notte fonda. Lella è legata su una sedia. La squadra di Solana ha viveri a sufficienza per due, massimo tre giorni. Tutto il piano è stato escogitato fin nel minimo particolare. Un piano perverso, solo il suo ideatore lo conosce nella sua interezza. È stato previsto anche questo luogo per nascondersi e uscire al momento opportuno. Qui sotto non viene mai nessuno. O quasi.

Venerdì 3 luglio 2009

Eccola. È al parcheggio, sta mettendo il computer-giocattolo in macchina. “Cosa fa, Franti?” “Niente…” Marco mi blocca la strada. “Non è possibile uscire.” “Ah, chiedo scusa.” Mi prende energicamente per il braccio. Non ci vedo più. Adesso Marco è a terra, in posizione fetale, con tutte e due le mani sull’inguine. Urla pazzo per il dolore. Non mi ricordo nemmeno cosa sia accaduto, tutto è accaduto in un attimo. “Che succede qui?” È la direttrice, una signora sulla cinquantina, elegante, gentile. All’anagrafe Angela Tiraboschi, credo sia single. Porta i capelli tinti biondi sempre raccolti in uno chignon; è un po’ sovrappeso ma non si vergogna di mostrare i chili di troppo. La gonna sopra il ginocchio è attillata e sottolinea la curva della pancia. È una buona donna, mi dà l’impressione che sia stata infermiera lei stessa, in ato. “Oibò, Franti, che succede qui?” Non le rispondo. Io stesso sono sorpreso di ciò che è successo. “Marco, su, la smetta di fare tutta quella scena. Si rialzi, forza. Non è il caso di dare spettacolo. Insomma, qualcuno mi vuole dire chi l’ha fatto cadere per terra?” La Tiraboschi si riferisce ai presenti: si è formato un piccolo gruppo di curiosi

che attornia Marco e lo guarda dall’alto. Hanno tutti un’espressione soddisfatta. Chissà perché. “Sono stato io.” Mi faccio avanti; la Tiraboschi mi guarda stupita. Si chiederà come sia possibile che un vecchietto, menomato di una mano per di più, abbia steso un armadio come Marco. “Signor Franti… Cosa mi combina?” “Chiedo scusa, non volevo. È stato solo un incidente.” Incidente? Cosa cavolo dici! Non è stato un incidente, di’ la verità, che questo enorme figlio di puttana è prepotente e tratta male gli ospiti ogni maledetto giorno, diglielo, dannazione! “Marco, forza, si rialzi e venga nel mio ufficio.” “Sì… signora. Ma…” “Ma cosa, Marco?” “Niente, signora.” “Signor Franti, più tardi mi spiega meglio cosa ha fatto a Marco. Non deve aver paura di dire la verità, sa? Adesso la faccio portare nella sua stanza.” E poi lì mi verrà somministrato un sedativo da elefante. “Lo accompagno io, capo.” Per fortuna che c’è il mio angelo custode. È rientrata e ha fatto in tempo a vedere la scena. “Va bene, Beatrice. Poi dacci un’occhiata, fagli compagnia intanto che me la sbrigo con Marco.” Marco ora è in piedi; è pallido come un cadavere, e chi non lo sarebbe dopo la strizzata di testicoli che gli ho dato con la mia fedele sinistra.

Venerdì 11 luglio 2008

La cena è quasi terminata. Mi viene da pensare a cosa farò domani. Non erà mai, lo so già. Perché sono così pessimista? Magari stasera mi diverto. Forse. Nessuno mi ha preso in considerazione, tranne Pina, che mi ha salutato entrando. Per un attimo ho desiderato di scambiare due parole con qualcuno. Non voglio ammalarmi di solitudine, dannazione.

Lunedì 18 luglio 1997

La polizia resta per circa un’ora, poi si allontana. A quanto pare Solana è stato furbo e se ne è stato bello buono là sotto. Nella casa non avranno trovato nessuno: la moglie e i figli non ci sono, sono stati messi al sicuro in vista del nostro arrivo. “È ora di tornare là.” “Luigi, c’è un problema. Lui sa che arriviamo, l’effetto sorpresa ce lo siamo giocati.” A dire il vero non l’abbiamo mai avuto, l’effetto sorpresa. “Non possiamo tirarci indietro, proprio ora che sappiamo dov’è.” “E se là sotto non c’è? Se è tutta una montatura?” “Può anche essere. Ma se non andiamo là sotto non lo sapremo mai. Un po’ più deciso però, stavolta, capo…” “Va bene. È che è da un po’ di tempo che non sono in prima linea. Sai, dopo quello che era successo, la storia del lavoro d’ufficio e così via.” “Chissà perché sei stato scelto per questa missione. Non per offenderti, ma potevano incaricare uno più giovane, più in forma. Questa storia mi piace sempre meno, Gianni.” Ora c’è un lavoro da portare a termine. Non è nel mio stile lasciare una missione a metà, anche se si tratta di una trappola, come adesso. Forse qualcuno vuole farmi fuori, mi viene anche da pensare questo. E perché mai? Cosa ho fatto di tanto grave da essere odiato fino a tal punto? Magari è mia moglie che mi vuole morto… Mia moglie non è più tra noi, me lo dimentico in continuazione. La pressione gioca strani scherzi alla mente. “Si va, allora?”

“Si va.” “Vivo o morto?” “Vivo, se possibile. Circondiamo la casa. Quel bastardo non ci deve scappare.”

Martedì 7 agosto 1984

“Grazie, Marta…” “Di cosa?” “Grazie perché mi porti a casa.” “Di niente.” “Su, sfogati.” “Cosa?” “Hai capito bene. Di’ quello che pensi. Sono sbronzo ma non stupido.” “Non ho niente da dire, Luigi. Riposa un po’.” “Sul serio, Marta. Di’ a me quello che non diresti mai a tuo marito.” “Hai bisogno di riposo. Chiudi un po’ gli occhi.” “Lo so che odi a morte Gianni e me. Lo so che vi abbiamo fatto star male. Conosciamo bene tutti e due Giovanni Franti, non lo farebbe mai un discorso con te come io te lo sto facendo.” “Ma sei capace di chiudere il becco?” “Ah, ecco, sei sulla buona strada, caccia fuori la rabbia, così…” “Sto guidando, brutto ubriacone che non sei altro, non mi distrarre.” “Puoi anche picchiarmi, picchia me e fa’ finta che sia Gianni.” “Ma che devo sopportare, ‘sto pazzo scatenato. Ancora una parola e ti lascio per strada.” “Marta, Gianni ora ha bisogno di te, quindi sfogati con me, su.”

“Gianni non ha bisogno di me, ha bisogno dell’agenzia, di te, del suo stramaledetto lavoro.” “Non è vero. Lui ti ama, non vivrebbe senza te.” “Balle! Piuttosto si fa menomare pur di continuare a fare l’agente. E adesso? Guardalo, come fa a mantenerci, adesso? Magari dovrò anche aiutarlo a pulirsi il culo, eh, caro Luigi?” “Ha sbagliato, Marta, e lo sa. Ma ha avuto il fegato di tornare, di affrontarti.” “Per essere ubriaco sei bello lucido. Non è che sia tutta una messinscena quella che hai fatto a casa?” “Forse, forse mi sono scolato una bottiglia di liquore apposta, per avere il coraggio di attuare il mio piano.” “Il tuo piano?” “Sì, venire da voi e parlare a te, sai, per difenderlo.” “Allora cosa c’entra Barbara, te la sei inventata la storia che ti ha lasciato? Sei proprio un bastardo figlio di…” “Barbara mi ha lasciato sul serio, Marta. Sono venuto perché anche tu non faccia la stessa cosa con Gianni. È per quello che ho chiesto di farmi portare a casa, solo tu potevi portarmi a casa, così ti parlavo in macchina…” “Tu sei malato. Hai bisogno di cure.” “Sfogati con me, ti prego.” “Sfogarmi con te? Se mi sfogassi con te ti farei a pezzi e poi ti getterei nella spazzatura, lo sai? Sei proprio sicuro di volerlo?” “Sì, purché tu perdoni Gianni…” “Io non posso perdonarlo, non posso farlo dopo un giorno che è qui. Io non riesco a farlo, l’ho fatto entrare in casa solo per i nostri figli. Lui non si merita niente, niente! È solo un egocentrico bastardo, come te. E tu, Luigi, vedi di

crescere, questa è proprio una bambinata, non credi?” “Gianni soffre molto per quello che ha fatto, non lo fa vedere ma dentro sta male e vorrebbe rimediare. Lo conosco bene, io.” “Ah, sicuramente meglio di me! In realtà lui è sposato con te, non con me. a più tempo con te che con la sua famiglia. E poi chissà cosa combinate quando siete in missione!” “Non ti ha mai tradito, dovessi morire se dico il falso. Lui ama solo te.” “Non aggiungere una parola di più. Sono stanca di sentire sciocchezze, sono stanca di essere presa in giro, da lui, da te, dal mondo intero!” “Piangi, Marta, ti fa bene. Piangi.” “Per chi mi hai preso, sbarbatello, per una stupida? Se aggiungi ancora una parola ti arriva una sberla, ti avverto.” “Lui ti ama, Marta, ama solo te…” “Basta! La vuoi smettere? Basta così, non ti permettere più, chi credi di essere, pensi di conoscermi così bene? Tu non sai quanto sto male, tu non lo sai!” “Ecco, brava, piangi. Ti fa bene, sfogati.” “Perché tutto questo, cosa ho fatto di male per meritarmi tutto questo, dio mio…” “Sarà diverso, adesso, vedrai. Le cose cambieranno in meglio. Dagli solo una possibilità.” “Io non posso… Non posso perdonarlo…” “Ha bisogno di te, di voi. È cambiato, ha capito di aver sbagliato. Anch’io. Mettilo alla prova, solo un’altra possibilità.” “Gliene ho date tante di possibilità e non è mai cambiato nulla. Sono stanca, stanca…” “Solo una. Poi ti autorizzo a lasciarlo.”

“Sei il solito sciocco, Luigi, il solito sciocco…” “È per questo che ti piaccio, non è vero?” “Non ho voglia di scherzare, ora. Sei arrivato. Devi farcela da solo a entrare in casa, io non me la sento…” “Tranquilla, ci riesco ancora a infilare la chiave. Forse.” “Ora vai. Non farti vivo per un po’, non so se ho voglia di rivederti.” “Ti capisco. Stai attenta a tornare, è buio e non si vede niente.” “Non t’immischiare, Luigi, non immischiarti mai più tra me e Gianni.” “Non lo farò. Non volevo sconvolgerti.” “Ma l’hai fatto.” “È solo perché ci tengo a voi due…” “Vattene, Luigi. Ne ho abbastanza.” “Ciao, Marta. Grazie ancora.”

Trent’anni prima

Ecco l’uomo con cappello e impermeabile. Faccio per corrergli dietro ma non riesco a raggiungerlo. Più corro più lui si allontana da me. Sento che qualcuno mi chiama. Mi giro indietro: è un nano, ha in mano un enorme fucile arrugginito e lo punta verso di me. “Sali, papà, sali!” Accanto a me ora c’è Massimo, è con la sua nuova Vespa gialla. Mi invita a salire prima che il nano spari. Partiamo a razzo. Mi giro: ormai il nemico è lontano. “Bravo, Massimo, bravo.” Ma Massimo non c’è più a guidare lo scooter. “Scappa, Giovanni, scappa.” È una voce fuori campo, non so da dove provenga. D’improvviso ho la mano destra che brucia. La fiamma illumina intorno a me: vedo il cassettone in fondo al letto, lo specchio sopra di esso. Sono immobilizzato. Cerco di raggiungere l’interruttore della luce ma non ce la faccio. Eppure sono sveglio, sono nella mia camera. La mia mano continua a bruciare, ma non mi fa male. Piuttosto sento come se qualcuno mi strizzasse con forza il fianco. Stringe con sempre più energia, non lo sopporto più! Accidenti, che incubo. Meno male che ora sono sveglio. Accanto a me Marta non c’è. Poi mi ricordo della discussione: forse stanotte non le va di dormire con me. Magari è solo giù in cucina, a bere un bicchier d’acqua.

Pazienza. Domani sarà più rilassata, almeno spero. Assumo la posizione per prendere sonno ma i miei occhi non vogliono chiudersi. Ho paura di vedere di nuovo la mia mano bruciare.

Sabato 11 luglio 2009

“Buongiorno.” “Buongiorno.” “Oggi non è il suo giorno di riposo, Giunti?” Anche il tuo, testa di cavolo, corrotto figlio di cagna. “Già.” “Perché è qui?” “Ho dimenticato il cellulare, poi mi è venuto in mente di rivedere un fascicolo.” “Beh, non stia qui molto. Non possiamo permetterci di pagarle gli straordinari.” “Fra poco me ne vado.” “Si svaghi, sfrutti il suo weekend per divertirsi.” “Farò come dice.” È sulle spine, è chiaro. Fingo di andarmene, poi vedo che combina. “A lunedì.” “A lunedì.” Dannato Giunti. Non deve saper niente, se necessario sarò costretto a farlo eliminare. Se qualcuno scopre che ci sono di mezzo io per me è finita. Spero che Solana sistemi il vecchio in modo pulito. Non mi fido di lui, è uno psicopatico. Gli piacciono i gesti eclatanti, non si accontenta semplicemente di colpire l’obiettivo, deve sempre farlo sapere a tutto il mondo, se no non è contento. E io

sempre a cancellare le tracce del suo aggio. Solana Rodriguez ci ha sempre dato delle grane, ma è indispensabile. L’agenzia non può fare a meno di lui.

Venerdì 10 luglio 2009

“Ragazzi, potete divertirvi, se volete.” “Sul serio, capo?” “Sì. Sul serio. Servitevi finché è ancora calda. Voglio vedere.” “Ma, capo…” “O così o niente. Prendere o lasciare. Però in silenzio, qui sotto se urla sentono.” “Come vuoi tu, sei tu il capo. Bella puttana, finalmente. È ora che ti faccia assaggiare il mio maschio. Paparino sta arrivando…” Dio mio. No.

Venerdì 3 luglio 2009

“Mi serve la chiavetta.” “Quale chiavetta?” “Quella attaccata al tuo computer. Mi serve.” “Ah, che sbadata. Non mi ero accorta che fosse attaccata. Stasera, prima di andare via, te la restituisco.” “No, mi serve subito quella dannata chiavetta.” Beatrice mi guarda storto. È la prima volta che alzo la voce con lei, non c’è mai stato nessun motivo per farlo. Nemmeno adesso, ma sono nervoso. “Che hai, Gianni? Non ti riconosco, cosa c’è di tanto importante in quella chiavetta?” Già, cosa c’è di tanto importante? In fondo contiene solo documentazione top secret, per avere la quale c’è chi sarebbe disposto a uccidere. “Non sono affari tuoi.” Ora è impietrita. Resta in silenzio, senza dir nulla. Vorrei parlare, scusarmi, ma non trovo la frase giusta. “Forse ho sbagliato.” No, le vorrei dire, tu non hai sbagliato. “Dovrei fare solo l’infermiera, qui dentro. Sono una stupida.” Parla a se stessa, non si cura della mia presenza. Mi fa sentire come un vecchio affetto da demenza senile, con il quale non è possibile dialogare. Del resto solo un demente si comporterebbe come me.

“Adesso non posso muovermi di qui, Gianni. Devo badare a te, me l’ha detto il capo. Dopo te la vado a prendere.” “Sarebbe meglio.” Accidenti a te, Franti, vuoi chiudere il becco? “Adesso non posso, appena mi libero.” “Ho bisogno di quella chiavetta.” Basta, Franti. Quando parli fai debito. È come se ci fossero due persone in me: l’uomo di una volta, che non accetta di essere rinchiuso in un corpo da ottantenne, e l’uomo di adesso, quello che vuole bene a Beatrice. L’uomo di una volta vuole riprendere il sopravvento, è stato risvegliato dal contenuto della pen drive che mi ha ato Luigi. Vuole tornare in prima linea, a ogni costo. L’uomo di adesso vorrebbe spaccargli la faccia, come si permette di trattarla così? Bea ora è seduta. Sfoglia una rivista recuperata in corridoio. Non bada a me, si limita a controllare che non esca dalla stanza. L’espressione del suo viso non lascia trasparire alcun sentimento.

Venerdì 11 luglio 2008

Cosa senti? Dolore? Paura? Noia? Cosa senti, dimmelo. Te ne stai qui, come uno sciocco, deciso a snobbare tutti. Eppure la tua sofferenza nasce da questo, dall’ignorare il prossimo. Qui dentro forse puoi trovare la soluzione alla tua angoscia. Non sei più l’uomo di una volta, soprattutto ora che sei qui. Questo posto ti dice “accetta quello che sei, un vecchio che ha compiuto la sua vita”. Una vita avventurosa, non c’è che dire. Ma ora è diverso. Ora chi ti circonda è cambiato. Tu sei cambiato. Pretendi di poter tornare con uno schiocco di dita a dieci, venti, trent’anni prima. Forse dentro di te t’illudi che il tempo non trasformi le persone, le cose. Forse sei ancora inchiodato a un mondo che ha smesso di esistere da tanto. In quel mondo c’era anche Marta. Per paura ti attacchi al ato e finisci per credere che sia presente, mentre sostieni che quello che vedi sia senza senso, non è reale. Questi vecchi rattrappiti, questa mensa, questa tovaglia così bianca e pulita. Hai l’ultima occasione per cambiare, Giovanni Franti. Tra i tuoi simili. Non si torna mai indietro, purtroppo. O per fortuna.

Lunedì 18 luglio 1997

“Falco in posizione.” “Lupo in posizione.” “Civetta in posizione.” “Ma vaffanculo, siamo in uno zoo?” “Stai zitto.” A Luigi non piacciono i nomi in codice stile allegra fattoria, nemmeno a me, a dire la verità. Un’idea di Borlotti. “E va bene… Mulo in posizione.” Se l’è scelto lui, io non c’entro. Bisogna entrare di nuovo, solo che stavolta si sta più attenti. Magari uno di loro è uscito dalla botola per controllare; magari tutti quanti, tranne il loro capo, s’intende. Al mio via si entra. Stavolta non posso avere alcuna titubanza. Io sono appostato all’ingresso principale: la mia squadra mi precede, poi mi apre dall’interno. Come si è fatto prima. Dannazione, la mia mano trema, non è allenata alla Beretta. Mi convinco che, quando sarà il momento, saprò sparare. Faccio un respiro profondo. “Via, ragazzi.”

Martedì 7 agosto 1984

“Barbara?” “Sei ubriaco.” “Sì.” “Dove sei stato?” “Da Gianni.” “Perché?” “Credevo mi avessi lasciato.” “Sono tornata per prendere un vestito.” “Tua zia?” “Sta bene. Un falso allarme. Non era il cuore, solo una forte indigestione. Adesso da lei c’è mia sorella.” “Che intendi fare?” “Stanotte sto qui. Domani ho un appuntamento in città, me ne ero dimenticata.” “Ah, sì?” “Tu dormi sul divano. Domattina mi alzo presto, vado a un colloquio di lavoro. Poi…” “Poi?” “Me ne vado.” “D’accordo. Fa’ come vuoi. Io ho bisogno di vomitare, scusami…”

“Sì, sì, vai.” “Grazie del permesso…” È tornata! È tutta una balla che domani se ne va, lo so! È tornata, è tor…

Trent’anni prima

Non riesco proprio a prender sonno. Marta non torna: mi alzo dal letto e vado in cerca di lei. Vedo la luce accesa in fondo alle scale: come avevo pensato, è andata a bere un bicchier d’acqua. Ma è da tanto tempo che è là in cucina, non è normale. Faccio per scendere il primo gradino per raggiungerla e dirle che intendo mettere da parte per un po’ il lavoro per stare con lei e i ragazzi quando mi blocco. Mi sforzo di fare un altro o ma la gamba non vuole saperne di muoversi. Questa missione la sto preparando da mesi, come si fa a mandare tutto a monte? Se vado da lei e le dico che ci ho rinunciato mi scavo la fossa da solo. Insomma, le erà.. Ragiono e mi dico: lo faccio per lei, per Massimo, per Lella. Lo faccio perché possano vivere bene… Bugiardo, Giovanni Franti, lo fai prima di tutto perché ti piace. Adori vivere nel pericolo. Torno in camera. Aspetto ancora un altro po’ ma non accenna a tornare. Devo andare giù a vedere? E se non si sente bene? Sto per alzarmi nuovamente quando sento un rumore di i attutito dalla moquette delle scale. Mentre Marta prende posto accanto a me fingo di dormire. Mi sento un vigliacco.

Sabato 11 luglio 2009

A chi sta telefonando? È già un quarto d’ora che è al cellulare. Accidenti, si è girato. Mi avrà visto? Adesso si alza dalla scrivania. Sembra nervoso. Sta uscendo, lo seguo. È salito in macchina. Devo fare alla svelta, se no lo perdo.

Ma dove diavolo sta andando? È già un’ora che lo pedino. Faccio fatica a stargli dietro; ci si mette di mezzo anche il traffico: adesso è tre macchine davanti a me. Lo struzzo, chi l’avrebbe mai detto. Ora ho capito come hai fatto a comprare la tua Mercedes da centomila euro: come minimo sei anche immischiato in un bel giro di droga e prostituzione, gran figlio di puttana. Sta svoltando a destra, l’ho visto appena in tempo. È un attimo perderlo, devo stare attento a non farmi notare, tra l’altro. Ora a sinistra. Adesso a destra. È snervante. Ho l’impressione che stia vagando senza una meta. Forse se ne è accorto e gira a vuoto apposta. Devo fermarmi, dannazione. Lo posso seguire con l’allarme satellitare della sua SL. Con il mio localizzatore portatile è un attimo individuarla. Metto la freccia e mi fermo. Lo struzzo non mi può scappare. Ma sono in doppia fila, non posso rimanere qui per molto. Adesso è a tre isolati di distanza. Non si muove: probabilmente è arrivato a destinazione. Ecco, proprio poco più avanti si sta liberando un parcheggio. Metto giù la macchina e proseguo a piedi. Vediamo un po’... Con questo sole faccio fatica a vedere la posizione della

Mercedes sul touchscreen… Ouch! “E guarda dove vai, imbranato!” Per colpa di quel fesso per poco il localizzatore non mi cade nel tombino. E dire che il marciapiede è largo, dannazione. Eccola là in fondo. Lo struzzo non si smentisce: l’ha piazzata in un parcheggio riservato ai disabili. Lui non c’è. Diavolo, dove è finito? Adesso mi tocca aspettare fino a che non torna. Ho un’idea.

Venerdì 10 luglio 2009

“Perdona i miei uomini, mia cara, ma hai sventolato le tue tettine per tutto il tempo. Adesso hanno un po’ di fame.” “Vigliacco!” “Rimettetele subito il nastro sulla bocca, ci manca che la sentono.”

Il nastro le viene riposizionato sulla bocca, stavolta con più cura. Lella si agita all’impazzata, i suoi aguzzini mugugnano, pregustano il pasto. Uno dei tre la blocca, l’altro inizia a trafficare con la zip dei pantaloni di lei, il terzo sta a guardare. Anche Solana guarda. Sta seduto su una vecchia sedia dimenticata nella biblioteca, ha un’espressione un po’ annoiata. A un certo punto sbadiglia. Forse lo spettacolo gli interessa relativamente. Tiene in braccio Ernesto, ormai gli è divenuto amico. Lo accarezza lentamente. Intanto anche il terzo si aggiunge per aiutare il collega a tenere ferma Lella. Lei non smette di ribellarsi: a quello che tenta di sfilarle le braghe arriva una ginocchiata in pieno volto che stenderebbe un bue. Stramazza a terra. Solana si mette a ridere, pare inizi a divertirsi. È un tipo tosto, la figlia del capitano.

Venerdì 3 luglio 2009

Beatrice sfoglia la sua rivista svogliatamente. Ogni tanto le scappa uno sbadiglio. Dopo circa un quarto d’ora la Tiraboschi si presenta nella mia stanza. “Signor Franti. Ora può parlare liberamente. Lei è un nostro ospite e, come tale, deve essere trattato bene. Se c’è una ragione per cui ha fatto quello che ha fatto, me la dica. Prenderò ogni misura necessaria.” “È stato un incidente.” “Non abbia timore, Giovanni. Parli pure.” Cerco lo sguardo di Beatrice: lei rivolge gli occhi da un’altra parte. Come due amanti che hanno litigato, mi viene da pensare. “Beatrice, tu che hai visto, dimmi come è andata.” “Beh, capo, sono arrivata quando era appena successo.” “Successo cosa?” “Marco lo aveva preso per il braccio.” “Perché?” “Voleva impedirgli di uscire nel parcheggio.” “Perché, signor Franti, voleva uscire nel parcheggio? Sia chiaro, non le impediamo di andare dove più preferisce, ma dovrebbe almeno avvisare che intende andare fuori.” Avvisare? Bisogna avvisare le guardie quando si evade da un carcere? E poi io non intendevo andare da nessuna parte, volevo solo recuperare la mia chiavetta contenente informazioni importantissime.

“Cercava me.” “Cercava te, Beatrice? Giovanni, lei voleva uscire per questo? E tu, come mai sei uscita nel parcheggio?” “Per mettere in macchina...” “Hai tutto il tempo di mettere in macchina quello che vuoi durante la pausa o a fine turno.” Il tono della Tiraboschi si fa, per la prima volta, duro. D’un tratto il volto di Beatrice s’incendia. “Ha ragione, capo. Ho sbagliato.” Guarda per terra, è rossa come un peperone. “Signorina, rispettiamo le regole, se no non andiamo bene.” “Sissignora.” Naturalmente io sto zitto. “E lei, signor Franti, se ha un problema con chiunque qui dentro venga da me. Eviti di fare da sé.” Annuisco in silenzio, come un bambino che l’ha fatta grossa. La direttrice esce dalla stanza. Strano ma, mentre mi parlava mi pare che faticasse a mantenersi seria. Beatrice si alza dopo qualche istante. “Io…” “Non importa, Gianni. Non importa.” “Ma…” “Adesso devo andare.”

“Non…” “Quando finisco il turno vado a prenderla.” Beatrice scompare dalla mia vista senza salutarmi. Quanto mi odio in questo momento.

Venerdì 11 luglio 2008

La trovata di andare un’ora prima a mangiare per accaparrarmi il tavolo singolo mi ha spossato. Non intendo più vivere un’esperienza del genere, ma era necessario. Ora posso godere del lusso di starmene da solo. Sono due giorni che sono ospite al Residence La Quiete. Certo non mi sto comportando molto bene: non sono per niente socievole, non voglio nemmeno esserlo. Sono arrabbiato, non mi è stato chiesto prima se volevo venire qui. Ha deciso tutto Massimo, ingrato d’un figlio. Allora è così che si trattano i genitori anziani? È così che ti onorano? Sbattendoti in un ospizio? Mi alzo di scatto dalla sedia, come trafitto da un pungiglione. Gli altri ospiti non fanno caso a me, tranne quella là, che ora mi guarda preoccupata. Mi risiedo. Devono portarmi ancora la frutta, il pasto non è ancora terminato. Non mi muovo di qui finché non ho finito, ci mancherebbe altro. Mi voglio godere questo banchetto fino in fondo, Banchetto offerto dal signor avvocato Massimo Franti, per di più. Ecco la macedonia, ha un bell’aspetto. “Si può avere anche un po’ di gelato sopra?” L’inserviente sorride, poi se ne va senza dir niente. Maledizione, io lo voglio sul serio il gelato! Non era una battuta, io non faccio battute, io parlo sempre seriamente! Forse è il tuo problema principale, mio caro maritino. Perché, amore, non posso avere anche il gelato? Perché sei in un ricovero, non in un ristorante. Sei abituato troppo bene, caro il

mio Gianni. E nostro figlio, perché ce l’hai con lui? Massimo vuole solo il meglio per te. Il meglio? Se non posso aggiungere nemmeno una dannata palla di gelato alla panna su questa ridicola macedonia? Torna l’inserviente. Ha con sé un barattolo di gelato e una spatola di quelle che si usano in gelateria. “E non dica che non l’accontentiamo in tutto.” Ha una faccia simpatica, il ragazzo. Nel suo modo di fare mi ricorda un po’ Luigi. “Come ti chiami?” “Massimo.” “Ti chiami come mio figlio.” “Ah, sì?” “Grazie, Massimo.” “Dovere, signore.” Avrà su per giù trent’anni. Adesso che lo guardo bene mi pare di averlo già visto.

Lunedì 18 luglio 1997

Sembra di star vivendo un déjà vu. Ancora davanti al tappeto, ora è sforacchiato dai proiettili. Se qualcuno da sotto spara stavolta siamo preparati. “Forza, andiamo.” La mia voce è un sussurro impercettibile. La botola si solleva: sotto il buio. Ogni nostra arma è spianata verso il basso, verso l’oscurità. “Solana, venga fuori.” Nessuno risponde. “Venga fuori o spariamo.” Aspetto ancora un minuto. Non si sente un respiro là sotto. “Ragazzi, io scendo. Copritemi.” Stringo con tutta la forza che ho la mia Beretta: la canna trema. “Gianni, è troppo rischioso, vado io avanti.” “Sì… Forse hai ragione. Stai attento, io ti sono subito dietro.” “Dietro mi serve Luca, se non ti dispiace, la tua mira lascia un po’ a desiderare, mio caro.” “Allora starò terzo.” “Gianni, andiamo noi prima.” “No.”

In un balzo sono giù. “Gianni!” Indosso gli occhiali infrarossi: mi si presenta l’inizio di un cunicolo. Non c’è nessuno, se ci fosse stata compagnia credo proprio che ora sarei cibo per i vermi. Sono stato un incosciente, me ne rendo conto, ma volevo essere il primo a scendere. Io sono il comandante della missione, io conduco i miei ragazzi. Non è assolutamente una scusante la mia menomazione, tantomeno l’età. “Libero.” In un istante sono circondato dalla mia squadra. “Che intendevi fare, maledetto pazzo? Qui il pazzo sono io, non tu!” “Silenzio, Luigi. Avanziamo. Mi raccomando: vivo.” Iniziamo a percorrere la galleria, con o lento, con me davanti che faccio l’andatura. Ora la mia Beretta è più ferma nella mano. Respiro lentamente, mi impongo di mantenere la massima calma. Il cunicolo s’interrompe: c’è una lunga scala a pioli che porta più sotto. Solana si è creato un rifugio nelle viscere della città. Chissà quanto tempo avrà impiegato per scavare senza dare nell’occhio. Bisogna scendere da questa scala. Infilo la pistola nella fondina e mi appresto a poggiare un piede sul primo piolo. Sento qualcuno che mi stringe il braccio. “Mi dispiace, vecchio mio. Adesso è il mio turno di stare davanti.” Sempre tenendomi per il braccio si mette davanti a me. Incrocio il suo volto in parte nascosto dagli occhiali infrarossi. “Ragazzi, io scendo.” “Non te lo posso permettere, Luigi.”

“Ah, sì? Vuoi scendere? La mano ti serve per la scala; e la pistola? Nella fondina non serve a un cazzo.” Il suo tono è di rimprovero. Il mio allievo che mi rimprovera? Come può accadere ciò? Ma ha ragione, anche se mi secca ammetterlo. “Va bene. Sta attento.” È come un figlio per me. In un attimo Luigi è in fondo alla scala. a qualche secondo. “Libero.” Ora scendo io, lentamente, con circospezione. Quando sono in fondo affianco Luigi. Ha una Glock, in confronto alla mia sembra un cannone. Adesso il cunicolo è stretto. Dannazione. Bisogna per forza stare in fila indiana; se Solana intende farci una sorpresa questo è il momento giusto. “È un budello.” “Gianni…” “Si va fino in fondo.”

Martedì 7 agosto 1984

Come è strano papà. Perché ha quella faccia triste? Perché l’altra sera non mi ha abbracciata? Non dice niente. Cosa gli è successo? Come ha fatto a perdere la mano? Mio papà senza una mano, mi fa impressione. E adesso come fa a lavorare? E a guidare? E cosa dico ai miei compagni di scuola se lo vedono? La mamma è andata via con zio Luigi. Non voglio rimanere da sola con papà. Quand’è che torni, mamma? Torna presto, mamma, non voglio restare con papà.

Trent’anni prima

“Auguri!” “Auguri?” “Sì, auguri.” Davanti a me c’è Lella. Non mi sono ancora svegliato del tutto. Poi mi ricordo: è il mio compleanno. Come ho fatto a dimenticarmelo? Marta non è più a letto, si alza sempre prima di me per andare a preparare la colazione. Lella tiene in mano un pacchetto. Sono cinquant’anni. Me ne ero dimenticato perché è una cifra troppo pesante da digerire. Eppure non li dimostro, ho un fisico che farebbe invidia a un trentenne. Potevo aspettare a dirglielo ieri sera, sono il solito impulsivo. Avrei potuto parlarle oggi, così sarebbe stata più comprensiva. Pazienza, ormai è andata. “Auguri.” “Grazie.” Manco mi guarda. Non si gira, rimane davanti ai fornelli, a sorvegliare che il caffè non tracimi dalla caffettiera e il latte bollito non debordi dal pentolino. “Papà, apri il regalo, dai, papà!” “Un momento, Lella, fammi sedere…” Appoggio il pacchetto davanti a me. Con cura inizio ad aprirlo: la carta mi piace, non voglio strapparla.

“Dai, papà, dai! Perché ci metti così tanto?” “Voglio tenere la carta, è bella, così si può usare ancora.” “E perché?” “Come, perché? Così si può impacchettare un altro regalo.” “E perché?” “Perché sì, santa pazienza!” “Tu di pazienza non ne hai mai coi tuoi figli.” La stoccata di Marta mi arriva dritta al cuore, ma ho la prontezza di non darlo a vedere di fronte a Lella. Finalmente riesco ad aprire il regalo. Intanto è arrivato anche Massimo, ha i capelli scompigliati dal sonno. “Buon compleanno…” “Grazie. Sto aprendo il regalo.” “L’ho scelto io, sai?” “Davvero?” “Spero ti piaccia.” Apro la scatola. Dentro ci sono un paio di guanti in pelle. “Così li metti quando sei in missione, se vai in un posto freddo.” “Grazie.” Sento Marta fare un sospiro. Poi un tonfo: il pentolino del latte è per terra. “Aspetta, ti aiuto a…” “Lascia, è il tuo compleanno, faccio io. Adesso scaldo dell’altro latte.”

“Che disastro che sei, mamma.” “Massimo, non parlare così a tua madre.” “No, ha ragione. Sono proprio un disastro.” Si mette a ridere, la sua è una risata strana, nervosa. Poi va da Massimo e gli dà un bacio sulla fronte, con una mano gli scompiglia ancor più i capelli. “E dai, mamma!” Si mette a ridere anche lui, Lella guarda divertita. Sorrido anch’io. Ma mi sento tagliato fuori.

Sabato 11 luglio 2009

“Eh, no, che succede?” “Mi dispiace, ma questo è un parcheggio per disabili.” “Ma non potete, non sapete chi…” “Prego?” “Chi… Niente.” “La sposti subito.” “D’accordo…” “La multa la paga col bollettino alla posta.” “Lo so, non sono interdetto.” “Non si offenda, noi facciamo solo il nostro dovere.” “Sì, sì.” “Arrivederci.” “Spero di no.”

Lo struzzo chiude la portiera e mette in moto. Sospira, attende che il vigile se ne vada, appallottola la multa e la getta fuori dal finestrino.

“Ah, ah. Queste cose non si fanno.” “Cosa? Tu? Che ci fai sulla mia macchina?”

La canna della Glock di Luigi aderisce allo schienale del sedile di guida.

“Niente domande. Continua a guidare, se no ti buco.” “Mi vuoi ammazzare?” “La tentazione è forte.” “Se mi uccidi sei un uomo morto, ricordatelo.” “Sai che paura.” “Ti avverto…” “Guida, idiota.”

Luigi si tiene basso, sta rannicchiato sul sedile posteriore. È pronto a sparare se Borlotti non gli ubbidisce.

“E dove diavolo vado?” “Per conto mio potresti andare all’inferno, brutto figlio di puttana.” “Oh, che linguaggio colorito. Credi di essere un duro?” “Parli troppo per i miei gusti.” “Ah, senti chi parla.” “Continua a guidare e fai poco lo spiritoso. Ti dico io dove andare.” “Possiamo trovare un accordo, che ne dici?”

“Un accordo? Per cosa?” “Per cosa? Per… lasciarmi libero. Quanto vuoi? Centomila, duecentomila?” “Io ti ammazzo, accosta che ti ammazzo.”

Borlotti inizia a piagnucolare.

“Non voglio morire…” “Sapevo che eri un vigliacco, ma non fino a questo punto. Mi fai proprio schifo.” “Ti prego, ho famiglia…” “Dovevi pensarci prima. Sta’ zitto e guida, dannazione!”

Borlotti ubbidisce, non parla più. Segue le indicazioni di Luigi in silenzio.

Venerdì 10 luglio 2009

“Adesso basta.” “Cosa, capo?” “Ho detto basta. Siete in tre e non siete capaci di domare una donna. Basta.” “Ma, capo…” “Siete sordi? Mi arrabbio, adesso.” “Ma, non…” “Mi arrabbio sul serio. Se mi alzo vi sistemo.” “Capo, sento un rumore… L’ascensore!” “Nascondiamoci, presto. Vieni con me, bel gattino.” “Capo, che si fa?” “Aspettare. Pronti a uccidere.” “D’accordo, capo.” “Mmmhhh!!!” “E zitta, puttana.” “Mmmhhhhhh!!!” “L’hai voluto tu.” “Non toccarla.” “Non sta zitta.”

“Signorina, silenzio, se no non ci penso un attimo.”

Venerdì 3 luglio 2009

Beatrice mi ha riportato la chiavetta. Ero in bagno, ho sentito qualcuno che entrava. Poi sono uscito e ho trovato la pen drive sul comodino. Immediatamente l’ho riposta in fondo al cassetto. L’ho proprio delusa. Senza un computer sono al punto di partenza, accidenti. Proprio quando mi stava venendo l’ispirazione. “Ecco il gladiatore!” “Dannazione, Pina, mi lasci in pace? Non è il momento.” “Povera fanciulla, lei vuole solo essere gentile con te, e tu la tratti così?” Come fa a sapere? Allora mi spia. “Non sono affari tuoi.” “Uh… Fa il duro, Giovanni Franti.” “Ma che vuoi da me, si può sapere?” “Niente, caro. Non voglio niente.” E allora vattene. Ma non ho il coraggio di dirglielo. Forse è perché non voglio che se ne vada. “In fondo sei un uomo buono, magari un giorno diventi meno stronzo.” “Io... Cosa?” “Sì, stronzo. Direi che è il termine più appropriato per definirti.” Si disegna un sorriso sul suo volto rugoso, che per un attimo la fa sembrare di vent’anni più giovane.

“Ah, bel lavoro con Marco. Adesso sei l’eroe dell’ospizio.” “È stato un incidente.” “A chi la racconti. Prima che me ne vada ti do un consiglio: chiedi scusa alla ragazzina.” Non le rispondo. “Ho ancora fiducia in te, Gianni.” Prima che io possa dire una parola gira i tacchi e si allontana. In che senso ha ancora fiducia in me?

Venerdì 11 luglio 2008

Quanto tempo che non assaggio un gelato. Lo faccio sciogliere sulla lingua lentamente, perché il piacere duri il più possibile. Questo ragazzo si chiama Massimo. Che coincidenza. Proprio quando inveisco contro mio figlio ecco che compare il suo omonimo. Qualcuno ha detto che la coincidenza è l’ultimo rifugio di una persona priva di fantasia. Sarà. Soddisfatto mi alzo dal tavolo. Ho voglia di fare due i. Mi devo sgranchire, decisamente. Sono stato seduto per tanto tempo, in più ho mangiato come un bue. Stasera farà fresco fuori. La morsa dell’afa dovrebbe essersi un po’ allentata, a quest’ora. Ho un po’ di sonno, magari è meglio che mi ritiri nei miei appartamenti. Sì, così i brutti pensieri ti seppelliscono. E poi ho ancora tutto sullo stomaco, dannazione. Con la pancia piena mi rigirerei nel letto per tutta la notte. Piuttosto me ne sto fuori in giardino. Decido per l’aria aperta. “Dove va, signor Franti? Non è proprio l’orario ideale per uscire fuori.” L’infermiera acida si avvicina con o nervoso, come farebbe una mamma decisa a dare uno scappellotto al figlio disubbidiente. “Non creda che la faccia uscire, signor Franti. Si esce solo di giorno.” Maledetta baldracca, ti mollerei un ceffone, chi sei per dirmi cosa posso o non posso fare? “Ma io…” “Ma io, ma io, ma io. Tutti uguali, voi. Poi succede un disastro e la colpa indovina di chi è.”

“Voglio fare due…” “Allora non ne vuole proprio sapere di ascoltarmi, signor Franti. L’accompagno in stanza, si guarda un po’ di televisione e poi si fa un bel sonnellino fino a domani.” “Ma io non…” Perché ho paura di lei? “Io non ho sonno. E voglio farmi un giro.” Il viso dell’infermiera si fa rosso, sta per scoppiare quando una sua collega spunta da dietro l’angolo. “Ciao Federica.” “Buonasera, Susanna.” “Come sta il nostro nuovo ospite?” “Bene. Gli stavo dicendo che la sera non si esce in giardino.” Susanna è magra e spigliata, mi piace. Forse lei mi può aiutare. “Io vorrei fare una eggiata.” “Allora faccia una eggiata.” “Non dovrebbe…” “Insomma, Fede, fai sempre la difficile. Lasciagli fare quello che vuole, no? Non succede niente se va fuori.” Fede mugugna una frase incomprensibile tra i denti e va via. Rimango con Susanna. “Faccia quello che vuole, signor Franti. La mia collega a volte è un po’ originale. Non si preoccupi.” La guardo. È magra come un chiodo e ha due occhi grandi, pieni di espressione.

Mi sorride mentre mi appoggia una mano sulla spalla. “Vedrà che starà bene qui.” Mi viene da crederle, Susanna ha un tono convincente. “Grazie.” “E di che? La Fede ultimamente è un po’ rigida, non le faccia caso.” Rigida e frigida.

Lunedì 18 luglio 1997

La galleria prosegue in discesa. Le pareti sono state scavate con fatica, si vede dalla loro irregolarità. Bisogna tenere la testa bassa, ora, man mano che scendiamo la volta ci costringe a chinarci. Sento il cuore che mi batte all’impazzata, nel petto e all’altezza del polso destro. Come se ne avessi due. No, Gianni, non divagare, stringi bene la sinistra e punta bene davanti a te. Ora devo essere concentrato. “Rallenta, mulo. Dobbiamo rimanere compatti.” Il mio socio mi sta davanti e ha guadagnato qualche metro. Bisogna stare insieme, soprattutto adesso. “Sei tu il capo…” Ha tutta l’aria di una trappola, ma non lo dico agli altri, anche se credo l’abbiano ormai intuito. Si cammina ormai da dieci minuti almeno. Non sento più la voce dei miei uomini. “Ragazzi, ci siete tutti?” “Roger, capo.” Davanti Luigi prosegue imperterrito. Dannazione, stiamo andando al centro della Terra? Un’altra scala. Se uno di noi fosse un po’ sovrappeso qui non erebbe di certo. Il mulo inizia a scendere; dietro di lui tutta l’allegra fattoria. È proprio ridicola l’idea di Borlotti. Un giorno si presenta in ufficio e afferma orgoglioso di avere una novità per noi. Per un attimo quella mattina non gli rido in faccia, magari ci ha pensato tutta la notte, il fesso. Ha visto troppi film americani, questo è sicuro.

“Sento qualcuno.” “Cosa, Luigi?” “Ho detto che c’è qualcuno. Là sotto.” “Cosa dicono?” “Niente, ma c’è qualcuno.” “Vieni su da lì. Lanciamo un soporifero.” “Aspetta. Scendo a controllare meglio.” “Dannazione, torna su, è un ordine.” “Faccio subito, vecchio.” E scompare giù. Uno sparo. Un altro. Silenzio. Un altro ancora. Mi ritrovo senza accorgermi a scendere la scala, in un lampo sono giù anch’io. Appena ho la sinistra libera estraggo la mia Beretta e mi abbasso. Il visore a infrarossi mi permette di vedere Luigi che gira l’angolo. Dannazione, gli romperei quella testa dura. Dopo tutti questi anni non l’ha ancora capito. Sta inseguendo chi ha sparato. Un nuovo sparo, le pareti s’illuminano per un istante. Poi un altro e un altro ancora. “Ne ho preso uno!” Lo raggiungo. Steso a terra uno scagnozzo di Solana. Perde vistosamente sangue, il suo volto è una smorfia fatta di sfumature rosse e rossastre su uno

sfondo rosso bruno. “Ti fa male, eh, stronzo?” Si tiene una mano sulla ferita: Luigi lo ha colpito a una gamba e il sangue esce copioso. “Dove sono gli altri, eh, stronzo?” “Tu morto, voi morti.” La sua espressione dolorante muta in un ghigno. Facciamo in tempo ad appiattirci al muro quando arriva una scarica di colpi dal fondo della galleria. “Ah! Cazzo!” “Che c’è!” “Il braccio! Mi ha beccato!” Ora anche Luigi sanguina. Chi ha sparato ora scappa, il calpestio dei suoi i va perdendosi nel buio della galleria. “Ce la faccio, andiamo a prenderlo, quel figlio di puttana!” “Ecco il capitano.” Chi ha parlato non è uno di noi. Questa voce la riconoscerei tra mille. Dov’è, dannazione, sembra così vicina, come se fosse tra di noi. “Sono qui, non mi vedi, capitano?” Mi giro a destra e a sinistra ma non riesco a capire da dove provenga. “Qui, ho detto.” “Capo, che facciamo?”

“Rimaniamo uniti.” “Capitano, allora, visto dove sono?” “Brutto bastardo, sei in trappola. Esci fuori!” “Tu sei in trappola, non io.” Pare vi sia un altoparlante incastrato nella roccia, da qualche parte vicinissimo a me. Ma non vedo niente, gli infrarossi non mi permettono di distinguere nulla tra le pareti irregolari. Sono in un bel casino. Mi sa che non ne esco vivo da qui.

Martedì 7 agosto 1984

“Sei tornata?” “Sì. I ragazzi?” “Sono andati in camera. Come sta?” “Come sta chi?” “Luigi.” “Ah, sì. È a casa, adesso.” “Bene.” “Sono stanca. Vado a letto a leggere.” “Va bene.” “Senti…” “Cosa?” “Niente. Vado su.” “D’accordo.”

Trent’anni prima

Sono proprio belli questi guanti: la pelle è spessa e morbida, la misura è perfetta. Li contemplo seduto sul sedile dell’aereo. La sorte ha voluto che il clima del luogo della mia missione sia continentale freddo: regalo perfettamente azzeccato. I miei guanti vecchi ormai erano consumati, la pelle abrasa in corrispondenza delle dita, la fodera interna strappata. Non so come non fi a non vergognarmi di indossarli ancora. Questa missione è delicata. Ci vado da solo: ormai l’agenzia ha imparato a fidarsi di me, tanto che quando c’è da levare qualche castagna dal fuoco il sottoscritto viene immediatamente interpellato. Porto la mia Beretta nel fondo speciale della valigia, impenetrabile ai raggi X. Spero di non doverla usare… Ma a chi la dai a bere? Tu la vuoi usare, Giovanni Franti. Se te ne presentasse l’occasione non esiteresti un istante. In questi anni non ho mai avuto un’occasione per poter sparare al di fuori del poligono. Forse è anche questo che alimenta in me questo desiderio, questa attesa, quest’ansia di provare il brivido del pericolo, sentire l’adrenalina che percorre tutto il corpo, il battito del cuore che accelera incontrollato. Finora ho fatto solo simulazioni, una miriade di simulazioni. Ma so che la realtà è ben diversa. L’imprevisto lo si può simulare fino a un certo punto, non è mai calcolabile del tutto. Sento che posso farcela. Dentro di me so che io sono tagliato per questo mestiere. Nelle esercitazioni sono sempre stato il migliore, i miei compagni li ho sempre stracciati. Lo sguardo torna dal finestrino ai guanti che tengo tra le mani. Trasalisco. Io ora ho una famiglia, dannazione. Questa vita è troppo rischiosa, se un giorno dovesse accadere l’irreparabile? Se dovessi essere colpito?

Ritorno a qualche giorno fa, quando ho detto a Marta che sarei partito. Ha ragione: un marito, un padre deve essere presente, non ci può essere compatibilità tra la carriera di agente segreto e genitore. Mi sento in trappola. Come faccio a rinunciare a tutto questo, come, dannazione! L’aereo inizia a sobbalzare: c’è una turbolenza. Mi riscuoto dai miei pensieri e mi allaccio la cintura. L’incarico è delicato. Non devo deconcentrarmi.

Sabato 11 luglio 2009

Ora la sala multimediale è più tranquilla. Ritorno sul file Solana. Accanto a me il fido scudiero. “Papà…” Mi giro. Sulla soglia c’è mio figlio. È venuto con sua moglie. “Sei andato alla polizia?” “Sono arrivato davanti alla caserma…” Guarda per un attimo Luisa, entrambi hanno un’espressione spaventata. “Sono tornato, papà. Non volevo comportarmi così. Scusa.” “Non è niente.” Giancarlo si alza e si presenta in modo ufficiale a Luisa. Il suo sorriso stupido si allarga riempiendo la sua faccia rugosa. “Cosa stai guardando al computer, papà?” Già. Devo dirglielo? Non gli ho mai rivelato nulla del mio lavoro. “Sono informazioni riservate…” “C’entra con Lella?” “Forse sì…” “Hai scoperto chi l’ha rapita?” “Credo di sì.” “Cosa devo fare?”

“Quando arriva Luigi te lo dico.” “E quando arriva?” “Gli ho detto di venire qui, sarà…” “Mezz’ora fa.” Grazie, Giancarlo, se non ci fossi tu. “Gianni, stai bene, hai una brutta cera.” Luisa mi accarezza la spalla. Ha gli occhi rossi, ha pianto di recente. Quanto mi ricorda Marta in questo momento. Non è truccata, solo ora mi accorgo che non l’ho mai vista senza belletto. La sua pelle è luminosa, rosea, piena. Mi viene un’erezione. Me la sbatterei qui, sul posto. Chi se ne frega di quella stronza di mia figlia, può morire all’istante per conto mio. Mi alzo e mi struscio con tutto il mio corpo cadente sulla coscia di Luisa, poi affondo la mano sinistra nella sua natica destra. Le infilo la lingua in bocca e lei pare gradire, dato che allunga la sua all’inverosimile. “Papà, stai bene?” “Sì…” Devo andare in bagno. Le braghe di cotone di Lella hanno ora una macchia attaccaticcia.

Venerdì 10 luglio 2009

“Ernesto, sto arrivando. Ti porto la pappa.” Ho l’impressione che ci sia qualcuno. C’è uno strano silenzio, non mi quadra. “C’è qualcuno? Sono Beatrice, adesso la porto su. Si sbaglia sempre piano, ma verranno a bloccare quel bottone prima o poi.” Questo corridoio non mi è mai piaciuto, con quel neon che non sta , si vede poco. Qui sotto può venire chiunque. “C’è qualcuno?” Non c’è nessuno, Beatrice, è solo suggestione. Chi vuoi che venga qui? Eppure c’è qualcuno. Non mi sento sicura. Se mai torno giù in compagnia. Ernesto aspetta, non muore di fame. Ho sentito un rumore, non mi sbaglio stavolta.

Beatrice resta ferma a metà corridoio, indecisa se proseguire o tornare su. Ha paura, trattiene il respiro per riuscire a distinguere il minimo rumore. Poi non ce la fa più e torna a far funzionare i polmoni. Fa un altro o verso la biblioteca, un altro. Prende coraggio e s’incammina decisa verso il nascondiglio di Ernesto. Non posso essere così fifona, si ripete. Intanto il suo superiore la sta cercando.

“Dov’è Beatrice?” “Non lo so, signorina Tiraboschi, la stiamo cercando dappertutto.” “C’è ancora la sua macchina?”

“Sì.” “Beh, cercatela ancora. Poi mi sente.” Benedetta ragazza, cosa mi combini? È sempre stata puntuale e presente la Bea. Adesso cosa le succede? È da un po’ che si comporta in modo strano. Dove sarà finita, benedetta ragazza? Con tutti gli ospiti che abbiamo… Appena salta fuori ti faccio un bel discorsetto, sicuro.

Venerdì 3 luglio 2009

“È un vecchio stronzo, ecco cos’è. Vedi come si comporta con gli altri, come ti risponde male.” “Non è sempre stato così, ne sono convinta.” “È da un anno che è qui, non è mai cambiato. Gli hai addirittura prestato il computer che ti ho regalato e guarda come ti ha trattato.” “Lo so. È stato un cafone, ma bisogna capirlo…” “Capirlo? Ma gli sego anche l’altra mano se ti risponde ancora così.” “È in un momento difficile, sua figlia non viene mai a trovarlo e a lui farebbe piacere. Poi chissà cosa avrà ato. Non si può lasciarlo solo qui dentro.” “Ma non mi sembra proprio lo sia, Bea. Guardati intorno: credo proprio che in questo posto la compagnia per una persona anziana sia l’unica cosa che non manca. Deve stare con quelli della sua età, non ha bisogno di una baby-sitter. Sei pagata per assistere anche gli altri ospiti. Che ti è saltato in mente, vuoi un uomo maturo? Questo lo è un tantino troppo, non pensi?” “Che dici? Ma che vai dicendo? Non ti permettere più…” “Adesso fa l’offesa. Sto solo scherzando, scema. Non capisci quando scherzo?” “A volte no.” “Non ti riconosco più. L’anno scorso non eri così. Cavolo, questo signor Franti ti ha stregata. Ti sei affezionata, sì, ma così è troppo. Vuoi finire licenziata?” “Io non finisco licenziata, non ti preoccupare.” “Invece mi preoccupo, perché sei mia amica e non ti comporti normalmente.” “Se sei mia amica non mi parli così.”

“Santo dio, come ti devo parlare, allora? Antonio non l’hai più sentito?” “Cosa c’entra adesso lui?” “Cosa ti è saltato in mente di mollarlo? È un bravo ragazzo, ti ha sempre trattato bene, come una principessa. Ti accontentava in tutto, eri felice con lui.” “Non lo amo più.” “Non lo ami più. Ho capito. Forse non si è perso niente, in fondo.” “Non devi parlarmi così.” “Sono stanca, è come rivolgersi a un muro. Sei solo una sciocca. Ci si vede. Adesso devo andare a lavorare. In palestra la signora Pina mi sta aspettando da cinque minuti. E io sto qui a perder tempo con le tue turbe psichiche, va a finire che licenziano anche me.” “Già, la signora Pina.” “Ti è partita una rotella, non c’è altra spiegazione. Non dirmi che sei gelosa, perché questa le supera tutte. Me ne vado se no ti mollo un ceffone e ti stacco la testa.” “Vai a cagare.” “Vacci tu.”

Venerdì 11 luglio 2008

Che bello qua fuori. C’è una pace, nessuno che ti sta intorno, laggiù le luci della città. È proprio bello. Si sta anche bene, quasi ho fresco. Vado a sedermi su una panchina, una di quelle da dove vedi tutto. Mi accomodo. Dio mio, da qui non mi muovo più fino a domattina, è bellissimo. Sento una mano che mi sfiora la spalla. Mi giro. Ah, sei tu, amore. Hai visto che bello da quassù? Siediti accanto a me, così. Stringiti a me, hai la pelle così liscia, amore. Sembra di essere tornati fidanzati, vero? Noi due, abbracciati su una panchina, in un luogo romantico, a baciarci, ad accarezzarci, a sentire i nostri respiri vicini, due vite distinte e unite al tempo stesso. Cosa sto facendo? Sono solo come un cane, è questa la verità. D’un tratto non mi va più di stare in questa desolazione. Che idea malsana che ho avuto. Dentro, tra gli esseri umani, piuttosto mi sorbisco Giancarlo, Pina e tutto il Club delle Vedove Nere. Ma sono uscito solo qualche minuto fa, che cavolo di figura ci faccio a tornare subito? Sto ancora seduto, tutta la magia di un istante fa è svanita d’un colpo, insieme al fantasma di mia moglie. Le ombre, le luci, non hanno più alcun significato. Questa panca mi pare sporca, per di più: ci o la mano sopravvissuta e sui polpastrelli sento che vi rimane un leggero strato di polvere. Ma come? In questo lussuosissimo posto non puliscono le panchine del parco? Che vergogna, con tutti i soldi che l’avvocato tira fuori per farmi stare qui dentro. Faccio are ancora un po’ di tempo poi rientro. Allora mi conviene muovermi, ma sì, intanto che aspetto faccio due i. Il parco è illuminato da lampioni a globo che stanno a un’altezza di circa un metro. L’effetto è suggestivo: si ha l’impressione di stare tra le luci soffuse di un piano bar, con la differenza che la musica non c’è, il pavimento è d’erba e il

soffitto manca. Il sentiero in porfido serpeggia in mezzo al prato e tra gli alberi, ora in penombra, ora illuminato parzialmente da un globo. Le zanzare danzano ronzanti intorno a esso. Mi hanno punto un po’ dappertutto, anche sul moncherino. Chissà, forse una puntura di zanzara mi farà ricrescere una a una le dita, con tutti i loro ossicini, muscoli e tendini. Sento già il prurito insistente che precede la rinascita. Meglio allontanarmi, se no mi mangiano vivo. Mi avventuro oltre, fino alla ghiaia del parcheggio. Una cancellata in ferro battuto m’impedisce di evadere prendendo in prestito un’automobile. Una volta ero capace di far partire una macchina senza la chiave in un battibaleno: il privilegio di avere una preparazione da agente segreto. Già, anche questo ci hanno insegnato. La ghiaia s’infila sotto la cancellata e arriva fino ai miei piedi. La ghiaia è il mondo di fuori, la ghiaia è libertà, la ghiaia è gioventù, ogni suo granello è un sogno, un progetto. Il vialetto di porfido inizia dove finisce la ghiaia del parcheggio, dove finisce l’esistenza di un uomo che prima poteva guidare, spostarsi a piacimento nel mondo. A partire dal vialetto di porfido inizia la fine. Questione di pochi anni, magari anche pochi mesi, chi lo sa. Questa sera l’ho percorso per un tratto al contrario, fino al cancello che separa i vivi dai morti. Di tempo ne è ato abbastanza; me ne torno dentro. “Allora, romanticone, cosa fai tutto soletto qui fuori?” Dannazione. Sul vialetto c’è ora Pina. Non posso tornare indietro, sarei maleducato. Maledetta scocciatrice. Mi ha seguito, la befana, ma che vuole da me? Viene avanti e non è sola: arriva a braccetto con Rosa. Entrambe mi fanno gli occhi dolci; occupano il vialetto per intero, si avvicinano inesorabilmente. “Sto tornando dentro.” “In una così bella serata vuoi startene dentro?” Piuttosto che stare con te, sì.

“Fa freddo.” “Ma dove fa freddo, Franti. Fa un caldo... Dai, fai un po’ di compagnia a due signore sole, non ti va?” “E dai, Gianni.” Stavolta per me è finita davvero. Mi sono cacciato nella trappola senza che me ne accorgessi, nel momento in cui ho deciso di metter piede qui fuori. Quasi mi viene di dar ragione all’infermiera: dovevo andarmene nella mia stanza, farmi un sonnellino. Il problema principale è che non ho alcuna via di fuga. Mi guardo intorno: a questa altezza il vialetto è stretto ai lati da una fitta siepe; non potrei nemmeno deviare dal percorso, ma anche se potessi non sarebbe educato. “Noi facciamo sempre una eggiata serale, su dai, accompagnaci per un tratto. Tra un minuto torniamo dentro anche noi.” Senza dir niente mi adeguo alla nuova compagnia. Se parlassi borbotterei una frase incomprensibile, dunque sto zitto. Cammino davanti a loro, un po’ impacciato mentre il muro di vecchie mi ricaccia indietro nuovamente verso la conclusione del vialetto. “Rosa, che dici? Il nostro Giovanni è bravo a carte, vero?” “Bravissimo. La prossima volta gioco io con lui. Né, Gianni che giochi con me la prossima volta?” “Sì… Certo.” “Vedi, Pina? Ormai ti ha scaricata, ora vuole stare con me. È tutto mio, tutto mio!” La situazione precipita. Devo assolutamente uscire da questa trappola. “Ora devo proprio…” “Arriviamo in fondo, poi torniamo anche noi.”

Il tono di Pina è improvvisamente serio, deciso, quasi di rimprovero. Come se dicesse “sei un emerito cafone se adesso non fai compagnia a noi due”. Mentre lo dice tuttavia non smette di sorridere. Giungiamo alla cancellata. Oltre l’ombra scura di qualche automobile. “Potrebbero ingrandire questo parco. Fare un laghetto, un altro gioco di bocce.” “Già.” “È bello, vero, Gianni?” “Vero.” Rimaniamo in silenzio a contemplare l’oscurità. Le due vecchie non spiccicano più una parola. Ora hanno lo sguardo oltre la cancellata, forse hanno gli stessi miei pensieri di un minuto fa. Senza il forse, Gianni. Come possono permettersi di avere la mia stessa angoscia? Io solo posso pensare alla morte in questo posto. Io solo non merito di stare qui dentro. Imbarazzato, mi schiarisco la gola. “Oh, hai ragione. Torniamo dentro. Incomincia proprio a far fresco.” Pina e Rosa iniziano a muoversi. Stavolta sono io a seguirle. “Allora è deciso. La prossima volta sto in squadra con te.” “D’accordo.” Pina non parla più. Strano da parte sua.

Lunedì 18 luglio 1997

Di nuovo la voce. “Allora, capitano, qua, girati.” Mi giro e incontro lo sguardo dei ragazzi. State calmi, vorrei dir loro, ma non trovo il coraggio per aprir bocca. Sono proprio una frana in questa missione, ho perso del tutto lo smalto di un tempo. Come hanno fatto a pensare che io sarei stato adatto, vecchio e monco, a guidare un gruppo d’assalto? E io ad accettare, dannazione. “Capo, mulo perde molto sangue, bisogna riportarlo su.” “D’accordo. Accompagnalo fuori, civetta…” “No… Io non me ne vado…” “Sei solo un peso morto e lo sai anche tu. Forza, andate via di qui.” “Gianni, vieni fuori anche tu. Questo ti fa fuori, quanto è vero Iddio…” Forse Luigi ha ragione. Mi sono spinto avanti fin troppo, ora è già un miracolo se porto la mia squadra in salvo. “Ora che sei arrivato, capitano, è peccato che non continui.” “Taci, gran figlio di puttana! Stai sicuro che appena t’incontro ti faccio un buco tra gli occhi!” “Oh, sicuro di mirare bene? Manca la destra, se ricordo bene…” Come fa a saperlo? “Gran bastardo, dove sei? Fatti vedere se ne hai il coraggio!” Non risponde. All’altezza dell’orecchio ora sento un lieve ronzio, come quello di un amplificatore . Anche Massimo ne aveva uno per la sua chitarra

elettrica. Una volta ero entrato nella sua camera per cercarlo, lui non c’era, mi accorsi che l’aveva dimenticato , ma quanto tempo fa, non ricordo, era proprio tanto tempo fa… “Oh, oh, oh. Io ti vedo, vuoi venire? In fondo, sono in fondo…” Senza pensare punto verso il ronzio e sparo. La parete esplode. “E stattene un po’ zitto, Solana. Tutte le tue chiacchere del cavolo mi fanno perdere la concentrazione.” Ripeto l’ordine di riportare su il mulo. “Non farlo, Gianni… Torna su anche tu, amico…” Ma ormai ho deciso. Lo vado a prendere, costi quel che costi. Se sono qui è il destino che mi ci ha portato, sono destinato a morire in questa galleria, forse. Ma so che se stanotte non prendo Solana non avrò più il coraggio di guardarmi allo specchio.

Venerdì 10 agosto 1984

Marta non mi ha ancora accettato in camera. Anche stanotte ero in salotto, nemmeno io, del resto, me la sento di fare il o. Magari tra una settimana, chi lo sa. L’ho sentita tossire violentemente, poi è corsa in bagno: probabilmente ha vomitato. Non lo so cos’abbia, sarà un problema legato al ciclo. Non mi ricordo abbia mai fatto così in ato. Stamani sembrava a posto: ha preparato regolarmente la colazione, poi è partita puntuale per portare Lella a scuola e andare al lavoro. Sono ancora a casa in convalescenza. Continuo a disertare le sedute dallo psicologo; chissà, magari mi farebbero bene. Ma perché devo andare a raccontare quello che provo a un estraneo? Questa non la digerisco. Ho un permesso di venti giorni, poi ricomincio a lavorare. Non credo mi muoverò più dalla sede, con la menomazione che ho avuto. Sento delle fitte tremende, mi sembra di morire quando arrivano. Poi prendo un antidolorifico e mi ano per una mezz’oretta. La notte fatico a prender sonno, faccio continui incubi, sulla mano, sull’amputazione, su tutto quanto è successo in quella villa. Mi risveglio di soprassalto e ci metto un po’ a calmarmi: forse è un bene che per ora me ne stia da solo a dormire in salotto. Spero solo di non fare urla o di non iniziare a fare il sonnambulo e girare per la casa. Certo non lo verrei mai a sapere da loro se ciò accadesse. Dopo la prima sera credevo che già una buona fetta di serenità fosse stata conquistata. Invece da parte di tutta la mia famiglia, fin dal mattino successivo è calato il gelo. Massimo non mi parla, Lella mi schiva, come se avesse paura di me. Per non parlare di mia moglie: sembra una statua di sale quando si rivolge a me. La sera dopo cena io me ne sto in cucina, loro di là, in sala. Non ho il coraggio di raggiungerli e me ne vergogno profondamente. Mi sposto solo quando sento che se ne vanno a dormire. Quando mi corico il divano è ancora caldo di loro.

Ma è presto. Spero che in qualche modo la situazione si normalizzi, che tra un mese torneremo a essere quello che eravamo prima. È presto, continuo a ripetermi per farmi forza. Ma intanto continuo a essere ignorato e mi fa male, dio sa quanto.

Sabato 11 luglio 2009

Sono dovuto scappare nel bagno più vicino, senza dare una spiegazione, prima che i presenti si accorgessero di quanto era accaduto all’altezza del mio inguine. Mi viene da piangere, non ho più alcun freno inibitorio. È bastata la vista di Luisa perché tutto l’impianto partisse da solo senza il mio consenso. Mi devo pulire alla svelta. Tra poco mi cercano. E poi… E poi c’è un problema da risolvere. Non ricordo cosa di preciso, ma c’è un grosso problema. Ma qual è… C’è di mezzo una persona che conosco bene… Ma chi? “Papà, tutto bene?” “Sì… Massimo? Che ci fai qui, Massimo? Non devi essere a lavorare?” “Papà, esci fuori di lì. Per piacere, gira la chiave, fammi entrare.” Ho ancora le braghe calate, non posso aprirgli. “Un momento, arrivo subito.” Che ci fa Massimo qui? È con Luisa, chissà per quale motivo. Forse sono venuti a prendermi per portarmi in una casa di riposo. Non voglio andare in ospizio, io non esco di qua. Ho l’impressione di star commettendo uno sbaglio, perché penso così? Mio figlio mi vuole bene, non vorrebbe mai portarmi in un ricovero, non mi abbandonerebbe mai come fanno tanti che dimenticano i loro genitori e non vanno mai a trovarli. Io lo so che non lo farebbe mai, io lo conosco Massimo. “Apri, per favore. Cosa bisogna fare adesso?” Fare? Perché mi chiede cosa bisogna fare? A proposito di cosa? “Un momento, dammi un momento.” “Ho paura, papà. Ho paura che l’abbia già uccisa.”

Perché piagnucola? Chi è stato ucciso? Dio mio. Lella. Che mi succede? “Non dire sciocchezze. Non ha senso che la uccidano. È un ostaggio, serve per uno scambio, serve viva.” “Ti prego, esci di qui. Torna al computer, devi aiutare Lella.” Mi ricompongo ed esco. Massimo è davanti a me, stravolto come non l’ho visto mai. “Cosa ti succede, papà?” “Sto bene, sto bene. Adesso torniamo al computer, non c’è un attimo da perdere.” “Cosa ti succede, maledizione!” “Non lo so.” Dietro di lui spunta il dottor Guastaldi. Almeno ricordo il suo nome. “Signor Franti, sta bene? Ho sentito che ha avuto un piccolo malore.” “Malore?” “Non è stato male?” Veramente se te lo dico, mio bel ragazzino, diventi rosso come un peperone. “Venga un attimo con me che le do un’occhiata.” “Adesso, dottore?” Massimo guarda lui poi me, poi ancora lui. “È solo un controllo. Poi suo padre può stare con lei finché vuole.” Ci mancava anche questa.

“Su, mi segua signor Franti.” “Non posso, ora.” “Cosa deve mai fare di tanto urgente?” “Devo…” “Papà…” Stavo per dire che devo scoprire chi ha rapito mia figlia e vuole uccidere lei, me e Massimo. Poi altro che controllo, mi spedisce dritto al reparto Alzheimer, il dottorino, e ci resto per il resto dei miei giorni. “Allora andiamo.” Non mi resta che seguirlo. Spero solo che faccia alla svelta. Cammino accanto a Guastaldi, il camice svolazza nel suo incedere deciso e mi sfiora. Raggiungiamo l’infermeria. Mi fa sedere sul lettino e inizia a controllarmi gli occhi; poi mi prova la pressione. Mi fa tossire, dire trentatré, insomma mi fa una visita completa. “Le prende sempre le medicine, Franti?” “Sì…” In realtà non ricordo; ultimamente mi sarà capitato di dimenticarmi, di sicuro. Ma non glielo dico. “Qui sembra tutto a posto. Prova nausea, giramento di testa?” “Perché?” “Allora sta bene?” “Sì…” E lasciami andare, dannazione.

“Ha la pressione un po’ bassa. Per il resto sembra che funzioni tutto…” Mentre parla mi dà l’impressione che s’imponga un’espressione rassicurante. “Cosa c’è che non va, dottore?” “Niente, signor Franti… È comunque meglio fare degli accertamenti. Li faremo, con calma. Adesso vada pure a riposare. Rio più tardi.” “Grazie.” “Si riposi, mi raccomando.” “Va bene.” Perché si è oscurato in volto? Ma adesso non ho tempo per preoccuparmi di questo, adesso devo tornare alla sala multimediale.

Venerdì 10 luglio 2009

“Bravo il mio gattino. Mangia tutta la pappa.” L’ho detto che non c’era nessuno. Comunque adesso me ne vado, non mi piace mai star qui. È bello il mio Ernesto. Tutto nero, con una macchia bianca di pelo in mezzo alla fronte. Sembra sempre voglia parlarmi. Ormai è diventato una persona, forse è perché gli parlo in continuazione. Ha imparato il nostro linguaggio ma non riesce ancora a dire le parole. Che bello il mio Ernesto. Quasi quasi gli faccio un’altra foto. “Beatrice.” “Sissignora.” “Vorrei una spiegazione, se non ti dispiace.” “Mi scuso, signora.” “Signora… Perché diamine tutti mi chiamano signora! Sono signorina, accidenti... Allora?” “Davo da mangiare al gatto.” “Guarda che tu sei qui per lavorare.” “Sarei tornata su subito.” “E se succede che sta male qualche ospite mentre sei qui? Nell’orario di lavoro hai la responsabilità della loro salute, lo sai?” “Lo so.”

“Ora vai su.” “E il gatto?” “Vai su, ti ho detto.” “Deve mangiare…” “Dio mio, cosa devo fare con te? Adesso vai su. Il gatto lascialo qui, cosa ti devo dire… Ma nell’orario di lavoro devi star su. E poi è pericoloso qui sotto, metti ti succeda un incidente, chi ci va nei guai?” “Lei…” “Ah, allora ci arrivi anche tu. Forza, saliamo.” “Grazie, capo…” “Sì, sì.” “Grazie…” “Ho capito, accidenti! Questo piano fa davvero schifo. Non vedo l’ora che lo sistemino.” “Allora lo sistemano?” “Dovevano farlo. Poi è stato bloccato tutto.” “Dovrebbero disattivare il tasto… Ogni tanto un ospite finisce qui sotto.” “Non mi hai mai parlato di questo… Ah, già, ecco perché non me l’hai detto: se lo bloccano come fai ad andare dal tuo gatto?” “Non ci avevo pensato… Perché ride?” “Forza, ragazzina, al lavoro.”

Venerdì 3 luglio 2009

Rimango a meditare nella mia suite. Rimugino sul ato, su ciò che ha significato Solana per la mia vita. Questo essere, mi vengono i brividi a pensare che sia ancora in libertà e che, per di più si siano perse le sue tracce. La sua famiglia non è stata più trovata. Moglie, figli, spariti nel nulla. È proprio un mistero inquietante, come se fossero stati rapiti dagli alieni. Quella notte in quel dedalo di gallerie è stato terribile. Me lo ricordo come se fosse oggi. Maledetto. Ti uccido con le mie mani, con la mia mano se ti trovo. Beh, dovrebbero portarmelo al Residence La Quiete perché possa ammazzarlo. Basta dire stupidate, Giovanni Franti. Tanto per cambiare sono rimasto solo, per di più senza la possibilità di proseguire la mia indagine. Di uscire non me la sento, accendo la televisione. Che strano, non funziona. Schiaccio nuovamente il tasto sul telecomando: il led da rosso diventa verde, ma lo schermo non ne vuole sapere di accendersi. Ci mancava anche questa, adesso che faccio? Ecco, ora dà segni di vita. Ma il segnale è disturbato: l’immagine si scompone in tanti rettangoli che compaiono e scompaiono. Ora diventano sempre più grandi, sono di colore diverso e s’inseguono sullo schermo piatto. Dannazione, mi scoppia in faccia questo trabiccolo. Raggiungo il tasto alla base dello schermo e lo premo: non serve a niente, il televisore rimane , sembra che abbia vita propria. Devo andare a chiedere aiuto, la situazione incomincia un po’ a inquietarmi. Ma sono nel letto e non riesco ad alzarmi. Quando mi sono sdraiato? Non me lo ricordo, accidenti. Cosa mi sta succedendo? La televisione inizia a ingrandirsi: è enorme, ora occupa l’intera parete.

Allucinazioni, ci voleva anche questa. Manco avessi preso l’LSD, dannazione. Resta calmo, forse a. Ma niente, il televisore ultrapiatto non la smette di trasformarsi: ora il suo schermo è completamente bianco, è una luce abbagliante. D’un tratto torna nero e piccolo. Sono sveglio, lo sono sempre stato; sono seduto sul letto con il telecomando davanti a me. È meglio non dirlo a nessuno, per ora. Sarà la tensione, chi lo sa. Non ho mai fatto un sogno a occhi aperti, è un regalo della vecchiaia, molto probabilmente. Altro che effetti speciali. Da quando sono qui dentro non ho mai provato un'esperienza del genere; forse semplicemente non me lo ricordo. La mente gioca davvero brutti scherzi. E adesso che faccio? Di certo non mi avventuro a tentare di riaccendere il mostro di luce, ma allora che mi rimane da fare? Come o il tempo intanto che riaprono la sala multimediale? Mi viene la tentazione di chiamare Luigi al cellulare, così, per accennargli della mia teoria del pesce. Di nuovo mi sento uno sciocco. Spero che magicamente mi richiami lui, come è successo prima, intuendo il mio desiderio di sentirlo. Mi concentro, con tutte le mie forze, ma non succede. E poi tanto non gli direi niente. È un disastro. Se solo asse Pina.

Venerdì 11 luglio 2008

Una volta rientrati, Pina si allontana insieme a Rosa. Nemmeno mi saluta. “Ciao…” “Ah, ciao Franti… Ci si vede.” Sembra distratta. Rosa invece non ha mai smesso di voltarsi per guardarmi, ma non osa staccarsi dal braccio dell’amica. Tutto l’entusiasmo che aveva nei miei confronti, dov’è finito? Cosa a per la testa a quella donna? Allora non è sempre allegra e vispa come vuol far sembrare, allora anche lei ha i suoi momenti di tristezza. Non mi resta che ritornare in stanza, a guardarmi la tv. Potrei rimanere nella sala a vederla con tutti gli altri, in compagnia. Bella idea, Giovanni, proprio una bella trovata. Ma che ti salta in mente? Questo posto non mi fa bene, sto diventando anch’io un ospite, non voglio trasformarmi in uno di questi esseri rassegnati a convivere in attesa del trao. E sono qui da un giorno… Forse due… Ancora un po’ e non so più nemmeno quando sono arrivato qui. Danno un film, sembrerebbe bello. In sala ci sono poche persone: se mi siedo in fondo nessuno si accorge di me. È una pellicola americana, c’è Robert De Niro, non ha ancora i capelli bianchi. Esce dal tettuccio apribile di una vecchia Mercedes e spara con un bazooka alla macchina che lo precede. Senza che me ne accorga mi ritrovo seduto, con gli occhi incollati allo schermo. I film d’azione mi sono sempre piaciuti e questo non l’ho ancora visto, in più c’è De Niro. Non posso assolutamente perdermelo. C’è un inseguimento furibondo tra automobili, vanno a tutta velocità, si sparano, s’infilano a rotta di collo nelle strette vie di una città. Spari, mitragliatrici, sangue. L’azione non conosce tregua e m’impedisce di pensare. Sono completamente dimentico di dove sono, l’unica mia preoccupazione è seguire la

trama del film che s’intrica e m’avvince. a il tempo, vola. Il film termina oltre l’orario del coprifuoco, ormai nessuno è rimasto nella sala. Mi alzo anch’io, più leggero. Adesso posso andarmene a letto. Ho completamente dimenticato i brutti pensieri della eggiata serale. Sono stanco. Non vedo l’ora di raggiungere il letto. Percorro il tragitto che mi conduce alla stanza. Ormai non c’è più nessuno in giro, gli ospiti sono a nanna, se si sta attenti si sente il loro respiro al di là delle porte. È irreale questo posto a quest’ora. Le luci al neon nel corridoio sono sempre accese, la notte nel Residence La Quiete non penetra mai del tutto, gli infermieri vanno e vengono fino alla mattina. Certo ora ce ne sono molti di meno e non ne incontro nessuno mentre mi dirigo verso il mio letto. Quasi m’inquieta quest’atmosfera. Allungo il o e arrivo a destinazione. Mi chiudo dietro la porta, appena l’ho fatto provo sollievo, come se un nemico invisibile mi minacciasse, un fantasma. Sono proprio come un bambino, che c’è d’aver paura? Mi lavo i denti, mi spoglio e m’infilo a letto. Il condizionatore lo tengo spento anche stanotte, non mi piace il rumore che fa.

Lunedì 18 luglio 1997

È come se a ogni o che faccio mi avvicinassi alla fine; tuttavia proseguo, è come se le mie gambe non ascoltassero la mia paura. Vado avanti come un automa, gli altri mi seguono. Luigi l’ho fatto tornare indietro. Una porta di metallo si presenta davanti a noi. Dannazione, non c’è alternativa: bisogna andare di là. Non sono bastati tutti questi anni di addestramento e di missioni per vincere definitivamente la paura. Non è possibile annullarla del tutto: si può solo imparare a contenerla, a controllare lo stato di ansia. Ma essa è un demone che rinasce in continuazione, come adesso. “Al mio via irrompiamo.” “Ok, capo.” Quando do il via sento la mia voce come fosse quella di qualcun altro. In un attimo siamo oltre la porta, in un attimo siamo a tu per tu con quattro uomini che spianano le armi contro di noi. Nessuno si muove, la classica situazione di stallo. Qui dentro c’è la luce, non servono più gli infrarossi. Si direbbe una stanza, con delle sedie e un tavolo. Davanti a me, ingrigito e imbolsito, un uomo. Ha lo stesso sguardo che ho visto al computer, la stessa cicatrice sulla tempia. “Allora, capitano, ti ricordi adesso?” “Cosa devo ricordare?” Gli punto la Beretta in mezzo alla fronte, i suoi scagnozzi mirano a me, i miei uomini mirano a loro. La mia mano inizia a tremare.

“Dannazione. Sei tu.” “Oooh, ricordi. Memoria buona, vedo.” Sorride, non ha nulla in mano, i suoi uomini invece impugnano mitragliette Uzi. “Mi sembri stupito, capitano.” Come è possibile che ci rincontriamo? Dopo tutti questi anni, come hanno fatto le nostre strade a incrociarsi nuovamente? C’è sotto un disegno, lo sento. Fin da subito il suo sguardo mi è stato familiare, fin da quando ne ho visto la ricostruzione digitale. “Ora devi venire con me. Di’ ai tuoi uomini di appoggiarle per terra, subito, o ti pianto una pallottola tra gli occhi.” “Tu non lo fai, noi abbiamo un legame.” “Vuoi mettermi alla prova, maledetto psicopatico pederasta?” “Come fai a centrare me con la sinistra, mio caro?” Ha un’espressione divertita sul volto, solo gli occhi rimangono seri, profondi, indecifrabili. Vorrei strappargli la mano, vorrei rendergli la pariglia, l’indice sinistro freme per premere sul grilletto. “Dad!” “Indietro!” Per la prima volta vedo Solana preoccupato. Si gira dietro di sé e invita con premurosa fermezza un ragazzino a ritornare nel fondo scuro della caverna dietro di lui. Rimaniamo tutti di stucco. Solana torna a guardarmi: ora non ha più la sua sicurezza, nel suo sguardo impenetrabile si legge un’esitazione, almeno mi pare di vederla. “Tuo figlio.” “Sì, mio figlio. Tu adesso muori, preparati.”

Non mi rimane che tenere puntata la pistola, più ferma che posso. “Daddy!” “Stay there! Don’t move!” “What’s going on, daddy?” “I said stay there!” Solana urla tanto da far rimbombare la caverna. Allora si è portato tutta la famigliola, nel rifugio. Inizio a intravedere una possibilità. “Ci sono anche tua moglie e tua figlia, suppongo. Non è molto intelligente che tu coinvolga anche loro nelle tue faccende, non credi?” “Taci, maledizione! Dovevo ammazzarti tanto tempo fa! Fatelo fuori, cosa aspettate!” I suoi uomini hanno un’esitazione e si guardano l’un l’altro: quanto basta perché i miei li neutralizzino. Forse uno di loro è andato all’altro mondo: rimane perfettamente immobile, la maglia intrisa di sangue. “No!” “Inginocchiati! Inginocchiati, Solana, forza, o ti caccio una pallottola in testa!” Non so cosa mi prenda, non mi sono mai comportato così. Voglio umiliarlo, come lui ha umiliato me. Voglio prendermi gioco di lui, voglio segargli la mano col mio pugnale, voglio che paghi per tutti gli anni in cui ho sofferto. È giunto il momento della vendetta, maledizione. “Non fare niente alla mia famiglia!” Dietro di lui fanno capolino tre persone: una donna, il ragazzino di prima, una ragazza nell’età dell’adolescenza. Camminano con cautela, lentamente si dirigono verso il capofamiglia, poi, spaventati dalla vista delle armi spianate e dei feriti, si fermano. “Non fare niente a loro. Lasciali qui, io vengo, lascia loro.”

Il quadretto familiare non m’addolcisce minimamente. Voglio umiliarlo davanti a loro, voglio che strisci verso di me e mi baci le scarpe, poi lo riempirò di calci. “Inginocchiati, le mani dietro la nuca! Quante volte te lo devo dire!” Ora ubbidisce e assume la posizione richiesta. La ragazza si mette a piagnucolare, la madre la stringe a sé. “Allora lo sapevi che venivo a trovarti, eh? Adesso ho capito tutto. Hai lasciato in circolazione una testimone in modo che io potessi trovarla e risalire a questo posto. Tu sei veramente malato, dopo tutti questi anni!” Solana ora non risponde: pare avere esaurito il proprio repertorio di frasi a effetto. L’unico particolare che non mi torna è perché non abbia portato da qualche altra parte la propria famiglia, in un posto sicuro, lontano da qui. “Mi fai schifo. Che padre sei che metti in pericolo i tuoi figli? Che marito sei?” Ora dopo tanti anni le parti si sono rovesciate, ora sono io l’aguzzino. Gli uomini della squadra mi guardano impietriti.

Gianni, cosa fai? Lasciami stare, Marta, lo faccio per noi, per quello che ci ha fatto are. No, Gianni, non è il modo giusto. Ma allora qual è, dannazione! Per colpa sua ti ho perso, per colpa sua non ho la mano destra, per colpa sua i miei figli mi odiano. Non è vero, amore. Tu non mi hai mai perso, tu sei ancora un papà per Massimo e Lella. Stai facendo una sciocchezza, smetti subito. Perché mi parli così? Perché non vuoi che vi sia giustizia a questo mondo? Io voglio che venga fatta giustizia. Allora diventa come lui, un assassino, un delinquente, un uomo malvagio. Guarda i suoi cari, loro non c’entrano, loro non sapevano.

Come facevano a non sapere, dannazione! Come potevano non sospettare nulla! Perché alzi la voce, Gianni? Io non sto alzando la voce! Mi fai paura. Non devi avere paura di me. Invece ce l’ho. Non voglio perderti. E allora non lo fare.

Mi riprendo da una specie di sogno. Solana è ancora in ginocchio, davanti a me. “Alzati, grand’uomo. Ragazzi, ammanettatelo. Portiamo questo stronzo alla base. Forza, torniamo su.”

Sabato 11 agosto 1984

È sabato sera. Mi sono messo fuori, sul dondolo che avevo comprato pochi giorni prima di partire per l’ultima missione. Ho sempre desiderato un dondolo in giardino; non l’ho nemmeno pagato tanto. È diventato un rifugio dalla mia famiglia. Stasera c’è un impercettibile filo d’aria: lo riesco a sentire sulla pelle. Ho appena assunto un antidolorifico: pian piano fa effetto e mi distende. Massimo esce, va dai suoi amici. “Vai fuori?” “Sì.” Si ferma e resta immobile senza rivolgermi lo sguardo. È imbarazzato, vorrebbe allontanarsi ma non lo fa per rispetto. “Frequenti sempre la stessa compagnia?” “Sì.” “Cosa fate stasera?” “Andiamo in giro.” Segue il silenzio. Cerco di riprendere il discorso. “Quando torni?” “Non lo so. Adesso devo andare, mi aspettano. Ciao.” “Ciao.” Con le mani in tasca percorre il vialetto e sparisce dalla mia vista. Una volta partiva con la Vespa, una volta sorrideva di entusiasmo all’idea di andare a

divertirsi. Mi manca quel rumore scoppiettante, era il suono della gioia di mio figlio. “Papà…” Mi giro verso l’ingresso. Timorosa sulla soglia, Lella mi guarda. “Dimmi, cosa c’è?” “Ha detto la mamma che inizia un bel film alla televisione e di venire a dirtelo.” “Ah, grazie. Dille che resto ancora un po’ qui, poi arrivo.” Lella scappa dentro da sua madre per riferire il messaggio. Rimango spiazzato. Forse Marta per un attimo si è dimenticata di tutto ciò che è successo e, senza pensare, si è lasciata andare alla vecchia consuetudine di chiamarsi per l’inizio di un programma interessante alla televisione. Questo pensiero mi frena. Di nuovo un salto nel buio, come quando il giorno del mio ritorno dovevo affrontare la prima cena insieme a loro. Ma se ha mandato Lella e non mi ha avvertito lei direttamente allora non è stato un riflesso condizionato, allora forse è consapevole della sua azione. Forse è un nuovo o avanti per ricucire la ferita. Una volta mi sarei alzato e, in un balzo, avrei raggiunto il salotto accomodandomi accanto a lei senza un attimo di esitazione. Ho paura. Se poi mi tratta con indifferenza? Se poi ci ripensa e se ne va non appena arrivo io? Mi sembra di impazzire. Come è possibile che sia così difficile compiere un gesto tanto semplice come andare a vedere la televisione con la propria moglie? Basta pensare. Mi faccio coraggio e mi alzo dal dondolo. Che ho da perdere? Al limite m’ignora per tutto il tempo. Le mie gambe sembrano addormentate e faticano a muoversi. Mi sento uno

stupido ma non posso fare altrimenti. Lo schermo a colori illumina a lampi le pareti e il mobilio. Marta è raggomitolata sul divano e non mostra alcuna reazione al mio arrivo; Lella sta sulla poltrona, nella posizione della sirenetta di Copenaghen. Non mi resta che sedermi accanto a Marta: lo faccio con cautela, temendo una sua reazione improvvisa. Sembro un manichino, composto come sono. Ancora una volta mi sento stupido e impotente davanti alla mia stupidità, ma di più non riesco a fare, per quanto mi sforzi di essere naturale. Per un istante incrocio lo sguardo di Lella, che ora tiene appoggiata la testolina sul bracciolo. Mi spia di nascosto, mi scruta furtivamente nell’oscurità, forse non è ancora convinta del tutto che io sia suo padre. La mia bambina.

Sabato 11 luglio 2009

Il dottor Guastaldi è perplesso. Seduto alla propria scrivania si massaggia nervosamente la nuca. I sintomi ormai li conosce bene: si tratta di Alzheimer. Ne ha visti cosi tanti di casi che ormai ci ha fatto l’occhio. Questione di poco tempo e il signor Franti dovrà essere trasferito al piano di sopra. Forse mi sbaglio, si ripete, forse è solo una mancanza di afflusso di sangue al cervello, forse. Dentro di sé gli è tutto chiaro, solo che non vuole ammetterlo. È sempre così, ogni volta che riconosce la malattia in uno dei suoi pazienti. Decide di attendere prima di dare il verdetto finale. Magari le analisi daranno un esito diverso. Bisogna essere prudenti prima di parlare. E speranzosi. Non avrebbe mai creduto che il signor Franti dovesse fare questa fine, così lucido, così presente. Prima la mano, adesso questo. La sfortuna non cessa di seguirlo. Non è giusto, si ripete davanti alle carte ammucchiate sulla scrivania. È stanco di questo lavoro, ne ha viste troppe. Gli anziani dovrebbero morire dignitosamente, non soffrendo indicibilmente o riducendosi a dei vegetali. Tira un pugno alla scrivania che vibra per il colpo. Si alza e va alla finestra. Guarda fuori, per calmarsi. Infine sospira e s’incammina verso l’uscita. Ha tanti pazienti da vedere, non c’è tempo per pensare. Con tutti i drammi che gli si presentano ogni giorno in questo posto maledetto se si ferma a pensare può dire addio alla propria salute mentale. Chiude dietro di sé la porta, mentre cammina si riallaccia il camice, torna a essere il dottore gentile e cordiale.

Bisogna sperare. Sempre.

Venerdì 10 luglio 2009

“Sono andate via. Vedi, sei stata brava. Se no dovevo matare.”

Lella vuole maledire Solana, ma il nastro sulla bocca glielo impedisce. Ha le guance rigate dalle lacrime, lacrime di rabbia.

Venerdì 3 luglio 2009

Sono sveglio. Quanto tempo sarà ato? Sono ancora vestito. Tengo la sinistra chiusa a pugno: dentro c’è la chiavetta. Ricordo come ho trattato male Bea: devo rimediare, ripeto a me stesso, devo chiederle scusa. Mi riprometto che, non appena la incontro, lo faccio. Maledetto lavoro, maledetta agenzia, mi viene da pensare mentre osservo la chiavetta sul palmo della mano. Mi perseguita anche quando sono in pensione, non ne posso più. Quando mai ho detto sì a Luigi, ma non può arrangiarsi? Perché viene a mettermi in croce, dannazione? Ho gettato con rabbia la pen drive per terra. Subito me ne pento, mi affretto a raccoglierla. Si sarà rotta? Dannazione, come faccio a sapere se si è rotta? Devo aspettare domani, quando apre la sala computer. La osservo attentamente allo scopo di trovare un qualche segno su di essa che mi dica se si è danneggiata o meno. A prima vista sembra integra. Speriamo bene. Devo rimanere in questo stato di angoscia fino a domani. Dannazione, ci sarà un computer che si può usare in questa maledetta struttura ultramoderna del cavolo! Certo, posso andare negli uffici. Magari posso chiedere, magari mi dicono di sì. “Eccoti qua.” Alzo gli occhi. Davanti a me, minaccioso come non mai, Marco. Sicuramente vuole vendetta. “Non si fa così, vecchio, lo sai che mi hai fatto male?” “Non ti ho dato il permesso di darmi del tu.”

“Oh, vecchio, scusa se non ti do del lei.” Resto immobile sul letto. L’infermiere slavo cammina avanti e indietro di fronte a me. “Potrebbero vederti. Se ti vedono qui dentro ti licenziano subito.” Non ha il camice. Evidentemente nessuno sa che è qui. “Cosa devo fare con te, vecchio? Dimmelo.” Avvicina il suo brutto muso al mio naso. Il suo alito puzza di fogna, sigaretta e caffè. “Ah, adesso non fai più niente. Adesso non ti muovi.” Sicuramente ora si aspetta la stretta di palle, devo escogitare qualcos’altro per neutralizzarlo, stavolta. Ma credo non serva. A un certo punto Marco inizia a sentirsi male. Suda vistosamente, la fronte è imperlata di minuscole gocce. Che diavolo gli succede? Riesco appena a scansarmi che il marcantonio crolla sul mio letto. Devo chiamare qualcuno: la sua bocca schiuma, è pallidissimo. Questo qua ci lascia le penne. Mi sveglio, meglio dire torno lucido. Sul letto non c’è nessuno. Dannazione. Prima la televisione, adesso questo. Ma era così reale… Sentivo anche il puzzo! Vado in bagno e mi sciacquo la faccia. Mi guardo allo specchio, negli occhi. Ho una paura folle, non so cosa mi stia succedendo. Non posso certo raccontarlo in giro, mi chiudono in un manicomio se lo racconto in giro. È solo stress, mi dico. La tensione dovuta al troppo pensare, al caso Solana che mi si è infilato nella testa e non ne esce più.

È solo stress. Sarà tutto ato domani. Intanto davanti a me c’è ancora il viso stravolto di Marco, lo vedo attraverso lo specchio, è di là, seduto sul letto, che si sta alzando per venire da me.

Venerdì 11 luglio 2008

Non riesco a prender sonno, ho ancora addosso l’adrenalina del film. Mi giro da una parte e dall’altra, le provo tutte, ma la mia mente non ne vuol sapere di addormentarsi. È già ata un’ora di questo calvario; il moncherino mi prude all’impazzata. Mi alzo, orino, torno a letto. Poi torno a girarmi sulle lenzuola. Dio, che caldo fa stanotte, quando si metterà a piovere? Mi rialzo, sarà ata un’altra ora. Orino e torno a letto. La mia vescica stanotte produce piscio senza ritegno. Non ne posso più. Gli occhi rimangono sbarrati, stringo le palpebre ma poi, come se vi fosse una molla, si spalancano nuovamente. Poi succede un miracolo. Pian piano, una goccia ogni tanto; poi sempre con maggior insistenza. La pioggia ora cade copiosa fuori. E l’ho invocata io, non mi par vero. Sento i miei nervi che iniziano a distendersi. Un alito fresco soffia sulla mia pelle, leggero, come una carezza. Mi è sempre piaciuto sentire la pioggia; dal parco arriva anche il profumo del prato bagnato. Non mi pare vero. Sono felice.

Lunedì 18 luglio 1997

Solana viene ammanettato; non oppone alcuna resistenza. Due dei suoi scagnozzi sono feriti gravemente. Bisognerà far portare una barella qui sotto, non credo sia il caso di muoverli. Mi volto per invitare la signora Solana e i figli a risalire con noi. Dove sono? Mando immediatamente due miei uomini a cercarli. Guardo Solana: il suo volto rimane inespressivo, pare non gl’interessi minimamente della propria famiglia. “Dove sono andati?” “Io non so…” “Dove portano le gallerie?” Non risponde. Aspettiamo cinque minuti. I cinque minuti diventano dieci. Non arrivano più. “Allora, dove portano queste maledette gallerie?” “Più giù… Io non so…” “Come non sai?” Dannazione, non gli interessa proprio niente? Non si preoccupa di dove siano finiti? Mi verrebbe da riempirlo di sberle, dirgli di svegliarsi, che se ora sono in qualche pericolo deve dirmelo. Ma guardo i suoi occhi neri come la pece e ogni parola mi muore in bocca. Questo non è un uomo. Ha un non so che di diabolico, anche adesso che si

mostra perso e disorientato. Non promette nulla di buono. ano altri cinque minuti. Ecco che tornano. “Non c’è niente laggiù, capo. Solo roccia, solo dannata roccia.” “Avete cercato bene? Magari c’è un aggio, andate a cercare ancora.” “Là sotto c’è solo una parete di roccia, capo. Abbiamo cercato con gli infrarossi. Niente.” “Allora, Solana. Incomincio ad arrabbiarmi. Dov’è finita la tua famiglia?” Sembra inebetito, mi guarda assente, solo gli occhi rimangono vivi, di una vitalità demoniaca. “Torniamo dopo a cercarli. A costo di portare la dinamite e una trivella. Li troviamo, Solana, non t’illudere.” “Trovare chi?...” Un brivido mi percorre la schiena. È serissimo mentre fa la domanda. Forse è pazzia, forse soffre di doppia personalità. Sono spaventato a morte, mi sembra tutto così surreale. Mi riscuoto e do l’ordine di risalire. Sono preoccupato per la signora e i ragazzi. Non voglio sia accaduta loro una disgrazia, non me lo perdonerei mai.

Sabato 11 agosto 1984

“Stanotte puoi dormire su, se vuoi.” Siamo a tavola. Massimo e Lella sono ormai già andati per i fatti loro. L’uscita di mia moglie mi arriva inaspettata. “Va bene.” “E smettila con quell’aria da cane bastonato. Mi dai sui nervi.” “Cosa devo fare, dannazione? Mi tratti come se fossi un fantasma, tu e i miei figli!” “L’hai fatta troppo grossa, stavolta. E abbassa la voce, se no ti sentono.” “Eh, no! Voglio dire la mia, io! Che mi sentano, maledizione!” “Smettila, ho detto.” “Ti ho promesso che non faccio più missioni, cosa devo fare ancora?” “Guardati. Guarda come ti sei ridotto. E se morivi, eh? Che fine facevamo noi? Adesso come farai a mantenerci, con una mano sola ci vuoi mantenere?” “Allora il tuo problema è solo questo. Hai paura che non porti più a casa i soldi. Solo dei soldi ti preoccupi, non ti frega niente se sono diventato un invalido. Non sai, tu, non sai com’è svegliarsi ogni mattina credendo di averla, non sai che male che mi fa…” “So solo che non sopporto più questa vita, non sopporto più te, sei come un bambino, non capisci niente…” “Cosa piangi, cosa cavolo piangi? Ti ho detto che adesso lavoro in ufficio, adesso sto con voi, smettila, ti sentono.” “Non capisci niente, niente!”

Marta scatta dalla sedia e va a piangere in camera. Meglio così. Ero stanco di sentirmi colpevole in questa stramaledetta casa. È ora di dire la mia, dannazione. In fondo sono io che ho avuto la peggio in tutta questa storia, che diritto hanno di trattarmi così? Sento che anche Lella sta piangendo. Si è spaventata, non ci ha mai sentiti gridare così, non l’abbiamo mai fatto prima d’ora. Quante cose sono cambiate. Forse divorzieremo, magari è meglio così. Staranno più sereni anche i nostri ragazzi. Mi ritrovo a fissare la superficie del tavolo. Tutta la rabbia ormai è sfumata e ha lasciato il posto allo smarrimento. Meccanicamente inizio a sparecchiare. Il piccolo televisore in bianco e nero che teniamo in cucina trasmette un programma ma non riesco ad ascoltare. Una volta trasferito l’ultimo piatto sul lavabo apro l’acqua calda. Trovo il detersivo in polvere, ne verso troppo. Il lavandino si riempie di schiuma. L’intenzione è di lavare i piatti; quando ormai è tutto pronto per l’operazione mi rendo conto che con una mano sola mi è impossibile. Lascio lì tutto. Dì là ora c’è silenzio. Sento una porta sbattere, è Massimo. Faccio in tempo con la coda dell’occhio a vederlo are davanti all’ingresso della cucina. “Dove vai, Massimo?” “Che t’interessa? Quando mai ti è interessato?” Non faccio in tempo a rispondergli che già è in fondo al vialetto. Corre via, dai suoi amici, come la sera prima, e quella prima ancora. Da quando sono tornato sta sempre meno in casa. Sarà perché d’estate i ragazzi escono spesso, ma io credo che lo faccia per evitarmi. Non ci posso far niente. Sono un fallimento, come marito, come padre. Vorrei tanto essere morto laggiù, attaccato a quel palo, bruciato vivo. Sarebbe stato meglio di questo. Mi metto seduto, imbambolato, fisso davanti a me.

Sabato 11 luglio 2009

Sta arrivando la sera. Tra pochi minuti la sala multimediale chiude e non ho ancora cavato un ragno dal buco. Massimo e Luisa sono andati a casa, aspettano notizie là, qui non servono a molto. Giancarlo non mi ha mai abbandonato. Suona il cellulare nella tasca delle braghe di Lella. “L’ho preso, Gianni.” “Preso chi?” “Lo struzzo. Lo tengo chiuso in bagno.” “Sei impazzito?” “Mah, tu che dici?” “È pericoloso quello che stai facendo, se ti scoprono sei nei guai seri.” “Dimmi un po’. Raccontami cosa hai scoperto, perché lui non vuole dirmi niente, è timido.” “È implicato.” “In cosa?” “Di preciso non lo so ancora. C’entra Solana.” “Cosa?” “Era insieme a lui in una foto.” “Impossibile. Se l’avessi visto me ne sarei accorto, non credi?” “Il suo orologio, era sul tavolo.” “Su quale tavolo, Gianni? Non capisco quello che mi vuoi dire.”

“Era con Solana, Luigi, l’abbiamo visto.” Accanto a me Giancarlo gongola come un ebete. Senza accorgermene gli pianto una gomitata nel costato. “Non è un gioco, non l’hai capito che c’è di mezzo la vita di mia figlia?” “Con chi stai parlando, Gianni?” “Con un idiota.” Giancarlo in silenzio si allontana, si tiene la mano sul fianco: devo avergli fatto male. Perché ho reagito così? “Pronto, Gianni?” “Sì.” “Allora? Lo torturo? Io so come farlo parlare, lo struzzo.” “D’accordo…” “Ti faccio sapere. Ciao.” “Ciao…” Adesso lo tortura. Luigi è capace di farsi dire tutto. L’ho visto in azione e non vorrei essere nei panni dello struzzo. Sono stanco. Tutto questo trambusto mi ha sfiancato. Una persona anziana come me non dovrebbe sopportare tutta questa tensione. Sono talmente rintronato che non mi ricordo più il motivo per cui sono in agitazione. Fatico a tenermelo in mente, sì, so che si tratta di un certo Solana, di mia figlia che non si trova più, ma continuo a dimenticarlo, come se la mia memoria avesse una falla, da cui continua a fuoriuscire la mia vita di cinque minuti prima. Giancarlo. Devo andare a scusarmi, gli ho fatto davvero male. Non mi resta che attendere notizie dal mio giovane socio: se scoprono cosa ha

fatto per lui è finita. A questo punto gli conviene farlo fuori e sbarazzarsi del cadavere. L’agenzia non perdona, questo lo sanno tutti. Quanti agenti ati al servizio del nemico sono stati “cancellati”; alcuni di loro li conoscevo di persona, bravi ragazzi che si sono lasciati abbindolare da offerte migliori. Se poi anche i vertici sono corrotti il pericolo di essere fatti fuori è anche maggiore. Maledetto Borlotti, ti meriti di morire. Ci sei sempre stato tu dietro, sei stato tu a mandarmi in missione per farmi accoppare da Solana. Ma non ci sei riuscito, sono ancora qui, vivo e vegeto. Se torci un capello alla mia bambina ti giuro, ti strappo il cuore di persona.

Venerdì 10 luglio 2009

La sua bambina. Se sapesse quanto è vicina la sua bambina. Basterebbe andare giù di un piano e indietro di un giorno per vederla dov’è ora, imbavagliata, seduta per terra con la schiena contro uno scaffale, le guance rigate dalle lacrime. Com’è che si è arrivati a questo? Per anni c’è stato il gelo, soprattutto dopo la morte di Marta. Per anni un padre e una figlia non si sono parlati, lei era in giro per il mondo, come faceva lui, una volta. Non le è mai ata per la testa per un momento l’idea di chiamarlo, di sapere come stava. Era troppa la rabbia, era lui che aveva condotto la madre alla disperazione e poi alla malattia. Lui che si faceva le puttane, lui che andava in missione col suo amichetto e chissà, chissà quante baldorie, chissà quante scopate si facevano mentre a casa la mamma stava male. Ma ogni volta le diceva “non dirlo a papà, non dirglielo quando torna”. Non era possibile alcun perdono. Ora si sono riavvicinati, a loro insaputa. Ora sono a meno di un centinaio di metri l’uno dall’altra; anzi, che dico: poche decine di metri. Il padre è ancora del tutto ignaro della sorte della figlia. Lo saprà solo tra un giorno, da Massimo. Ora crede che Lella sia da qualche parte a fare il suo lavoro; unico segno del suo affetto sono le brache che ora indossa. Solana è spinto dal desiderio di vendetta. Per colpa del capitano ha perso la propria famiglia, i suoi cari hanno fatto una fine orrenda. Ora è giunto il momento di regolare i conti. Dopo tutti questi anni. Ce l’hanno tutti col nostro Gianni, vecchietto scorbutico e menomato, la cui sua unica colpa è stata quella di una dedizione profonda al proprio lavoro.

Povero Giovanni Franti, tu non lo sai, ma ci stai abbandonando. Pian piano il tuo cervello sta andando in tilt. Proprio ora, che ci servi lucido, proprio ora che devi salvare tua figlia. Che tempismo la vita, non credi?

Venerdì 3 luglio 2009

Naturalmente Marco è scomparso. È arrivato a un o da me, ha fatto una smorfia e se ne è andato da dove era arrivato. Non muovo un muscolo. Sono ancora davanti allo specchio e non oso andare di là a vedere se c’è qualche altra allucinazione che mi aspetta. Non posso rimanere così per tutto il giorno, devo prendere il coraggio a due mani… Insomma devo prendere coraggio e fare i pochi i che servono per raggiungere un essere umano. Muovo un o, un altro. Inizio a camminare, vado verso l’ingresso. Sbircio fuori: pare tutto regolare, gli ospiti sono gli stessi, gli infermieri pure. È tutto nella mia mente, di questo sono certo. Non era reale, è stato il mio cervello imbizzarrito che si è preso gioco di me. Tutto lì. È solo stanchezza mentale, mi ripeto per l’ennesima volta. Solo stress. Che stavo facendo prima di tutto questo? Ah, sì. La teoria del pesce da verificare. Devo andare a chiedere se mi lasciano disponibile un computer dell’amministrazione. Dove diavolo è la chiavetta? Sono preso dal panico, in tutto questo trambusto l’ho persa. Ritorno al letto: sopra il materasso non c’è; guardo sotto, nemmeno. Stavolta è finita. E che dico a Luigi? Che mi sono perso i dati top secret, che chiunque può trovarli? Datti una calmata e cerca meglio. Forse non è così lontana. Senza pensare infilo una mano, quella sinistra, nella tasca delle braghe di cotone di Lella: magicamente si materializza tra le mie dita. Sei proprio uno stupido.

Mi avvio verso gli uffici. E poi che dico? Che devo vedere le foto che mi ha portato mio figlio? Mi diranno sicuramente: ma può aspettare, signor Franti, non scappa niente, domani la sala multimediale sarà di nuovo aperta. E se poi incrocio la Tiraboschi, con quello che ho combinato oggi, certo non sarà molto felice della mia richiesta. Mi blocco. “Che fai, la bella statuina?” Indovina chi è? Ma certo, la buona Pina. “Non hai una bella cera, hai il cagotto?” “No.” “Non devi vergognarti, sai, tutti hanno il cagotto prima o poi qui dentro.” “Adesso devo andare…” “Ah, ho capito. Da quale parte? Mi sembri indeciso.” “Torno in camera. Devo andare… in bagno.” “Hai visto che avevo ragione? Vai, allora, prima che te la fai addosso. Se no ti mettono il pannolone per il resto dei tuoi giorni.” Faccio finta di ritirarmi e rientro nella stanza dell’allucinazione. Aspetto un minuto, verifico se la via è libera sbirciando fuori. Non c’è più, posso andare. Dove? Mi blocco nuovamente. Dannazione.

Sabato 12 luglio 2008

Stamattina mi sveglio fresco come una rosa. Stanotte ha piovuto per un’ora intera, veniva giù a secchiate e ha rinfrescato. Ho dormito come un bambino e ora sono completamente rilassato. Mi stiro soddisfatto e mi alzo. Mi sento un leone oggi. Allungo un piede per raggiungere la ciabatta ma non la trovo. Dove diamine si è infilata? Eppure non ricordo stanotte di aver fatto particolari manovre. Ah, eccola. Era sotto il letto; l’operazione di recupero mi costringe ad abbassarmi. Porca miseria! Non mi muovo più! Aiuto, grido, aiuto! Un male feroce alla schiena m’impedisce quasi di respirare. Aiuto, continuo a gridare, finché ecco che arriva qualcuno. “Stia calmo, Franti, adesso la tiriamo su.” È l’infermiera magra con gli occhi grandi che la sera prima mi ha consentito di fare la eggiata serale. Che ci fa ancora qui? Che male, non riesco a muovere un muscolo. Adesso arriva qualcuno con un calmante, spero. “Ecco, Marco, sei arrivato. C’è bisogno di te.” Il famoso Marco, ne ho sentito parlare. Quando entra gli vedo solo le gambe: sarà alto un metro e novanta. Ha già in mano una siringa, si direbbe che la ostenti con orgoglio. Sono preoccupato. Piuttosto di farmi infilzare da questo gigante mi tengo il male. “Su, signor Franti, un istante. Resti fermo.” Resto fermo, e chi si muove, appena cerco di raddrizzarmi sento una fitta

terribile. Senza tanti complimenti il gigante m’infila l’ago nella chiappa destra. Dallo stile non è molto del mestiere: sento che il mio gluteo si gonfia a dismisura. “Adesso stia tranquillo che le a.” La task force, dopo avermi messo a sedere sul letto, abbandona la mia stanza, con la promessa di chiamare il dottore. Saranno ati dieci minuti. Gradatamente il male alla schiena si attenua. Sono riuscito a sdraiarmi, nonostante il dolore della puntura. Ora sto fissando il soffitto. Non credevo che questa mattina dovesse finire in questo modo. Guastaldi mi guarda, ha un’espressione soddisfatta. “È solo il colpo della strega. Vedrà che tra poco starà meglio. Deve solo rimanere fermo per un po’. Le prescrivo un antidolorifico da prendere due volte al giorno, dopo i pasti.” Bene. Un’altra medicina da aggiungere alla collezione. “Stai bene, Gianni?” Come una visione mi appare il volto dolce e paffuto della mia infermiera preferita. Se fosse stato qualcun altro a chiedermelo avrei risposto “eh, ti sembra che stia bene, brutto fesso d’un rimbambito?”. “Sì, grazie.” “Adesso vado. Torno più tardi, così vedo se prendi la pastiglia.” “Sì, grazie.” “Allora a dopo.” Guastaldi e Beatrice escono dalla stanza e mi lasciano solo. Sì, mi sento un leone, avevo detto così, no? ano i minuti e il dolore si allenta mano a mano. Ci voleva anche questa,

continuo a dirmi. “Che succede, che ci fai ancora a letto?” “Mi si è bloccata la schiena.” Che ci fai qui, Luigi? “Sai, stavo andando in ufficio, ero per strada.” Per strada si fa per dire, avrà fatto una deviazione di cinque chilometri se non di più. “Vecchio mio, le acrobazie non puoi più permettertele.” Mentre lo dice mille rughe incorniciano il suo sorriso. Gli spaccherei il muso quando mi guarda così. “Beh, adesso vado. In questi giorni lo struzzo è isterico. Se arrivo in ritardo rompe. Ciao, socio.” “Ciao…” La sua visita è stata talmente fulminea che quasi ho l’impressione di averlo sognato. Entra Bea. “Va meglio?” “Sì.” “Bene.” “Hai incontrato Luigi?” “Luigi chi?” “Quello che è venuto a trovarmi. Ha un debole per te.” “Ah, quello là dell’altro ieri. Mi ha strizzato l’occhio, sai? Ma è troppo vecchio

per me…” “È appena uscito.” “Non è uscito nessuno da qui. Sono arrivata adesso. Stai bene, Gianni? Forse è il sedativo, sai, quel gorilla non è capace di fare le dosi. Adesso riposa, su.” Eppure l’ho visto. Eppure mi ha parlato. Forse il sedativo mi ha fatto dormire e ho sognato. Ma sì, deve essere stato così, quanto sei ingenuo, spaventarti per un nonnulla.

Lunedì 18 luglio 1997

“Allora?” Luigi ci attende nella penombra della cantina della villa. Sta per terra, la schiena appoggiata al muro sporco, la pistola in mano. “L’abbiamo preso.” “Ah, eccolo qui il nostro bel tonno. T’abbiamo pescato, alla fine.” Solana non dice nulla. Ha ancora lo sguardo perso di quando gli è scomparsa d’un colpo la famiglia. “Tutto bene, Luigi?” “Sì. Ma che hai? Non sembri contento, hai una faccia…” “Là sotto c’è ancora qualcuno.” “Chi?” “Sua moglie, i suoi figli.” “E che diavolo ci fanno là sotto? Perché non li avete portati su?” “Sono scomparsi. Nel nulla.” “Non ti capisco, Gianni. Come nel nulla?” “Lui non ci dice niente.” “Lascialo a me, che lo faccio parlare… Ah!” Luigi fa per alzarsi ma la ferita si fa sentire. “Non muoverti. Fra poco mandano qualcuno. Abbiamo chiamato la squadra delle pulizie.”

“E credi che li troveranno?” “Non lo so. Io adesso torno giù.” “Non essere stupido. Sicuramente sono scappati. E chi lo sa cosa diavolo c’è ancora in quelle gallerie.” “Devo tornare giù, mi dispiace…” “Almeno non andare da solo.” Ha capito che non mi darò pace fino a che non li avrò trovati. Dopo pochi minuti sono di nuovo di ritorno negli inferi. Con me, civetta. Percorriamo rapidamente la stessa strada, ormai la conosciamo. Ecco che arriviamo nella stanza sotterranea, per terra gemono ancora i soldati di Solana. Andiamo oltre. I miei ragazzi avevano ragione: qui c’è solo roccia, solo dannata roccia. Ma non mi rassegno. “Andiamo avanti. Ancora un po’.” “Capo, non c’è niente. Torniamo. Sono scappati.” “Ancora un po’. Poi torniamo.” “D’accordo.” Questa galleria pare non finire più. Sarà ormai un chilometro che proseguiamo. Poi ecco che attraverso gli infrarossi riesco a individuare un'anomalia nella roccia. “Guarda. Lo vedi anche tu?” “Cosa devo vedere?” “Qui, sulla parete. Sembra un sasso che sporge. È di colore diverso, un tipo di

pietra diverso.” Senza pensare lo tocco col palmo della mano. Il sasso rientra di poco. Uno scatto. Tutto intorno inizia a tremare. Rimaniamo senza parole. Davanti a noi la roccia si muove rivelando, per terra, delle guide in ferro. Un aggio segreto. Che ingegno. Un motore elettrico permette lo spostamento della parete. Dietro è fatta di acciaio. Ci affacciamo: si direbbe un pozzo, c’è una scala a pioli che va verso l’alto e si perde nell’oscurità. Probabilmente porta in superficie. “Ce la fai?” Civetta allude alla mia menomazione. “Sì, ce la faccio. Saliamo.” È davvero difficoltoso per me salire: mi tiro su con il braccio sinistro e le gambe e proseguo molto lentamente. Sotto di me sta il mio compagno. Dannazione, non finisce più questa scala. Se mollo la presa di sicuro vado a sfracellarmi là sotto. Non ho nemmeno una corda di sicurezza, ma ormai siamo quasi a metà e, certamente, non torno indietro. Sarà ata mezz’ora? Sono sfinito, i muscoli del braccio sinistro sono presi da forti crampi che mi fanno vedere le stelle. Sopra di me intravedo una sagoma rotonda: si direbbe un tombino. Adesso ad aprirlo… “Lascia fare a me, capo.” Civetta, al secolo Mario Cigli, ha un fisico possente. Lo faccio are tenendo stretto il piolo della scala e combattendo contro il male. Cigli osserva, studia, poi inizia a forzare col coltello tutto intorno al disco di metallo. Ansima per la fatica. Finalmente riesce ad aprire. Con un tonfo il tombino va a ribaltarsi sul terreno.

Sopra di noi il cielo notturno. “Dove siamo?” “Non lo so. Di sicuro siamo a qualche isolato di distanza.” Mi domando come i Solana abbiano fatto a uscire di qua, a riuscire ad aprire questo tombino. “Non mi torna.” Sto seduto sull’asfalto. Il tombino è in mezzo a una strada secondaria, tra una villetta e un’altra. Stiro il braccio sinistro, ancora in preda ai crampi. “Cosa, capo?” “Ho l’impressione che non siano ati di qui.” “E allora dove sono finiti?” Un brivido mi percorre la schiena. Sono caduti giù. Le tre parole mi si infilano nella testa senza che la mia mente possa respingerle. La scala proseguiva anche verso il basso. Quando abbiamo iniziato l’ascesa non abbiamo tenuto conto che in realtà era sotto che si doveva cercare. Non ci voglio credere, no. Ma temo davvero che li troverò laggiù, in fondo a questo pozzo. “Ho paura che non li troveremo vivi.” “E perché mai, capo?” “Bisogna tornare indietro.” “Non puoi capo. Guardati. Non riusciresti a fare un metro.” In effetti il mio braccio è fuori uso.

“Vado io.” “Stai attento.” “Dove devo cercare?” “Scendi fin dove puoi. Vai fino a che non tocchi terra.” Cigni/civetta si lancia giù. In pochi istanti scompare dalla mia vista. Sembra sia ata una vita quando risale in superficie. Ha un’aria sconvolta. Mi guarda e scuote la testa. “Niente.” Non so se devo preoccuparmi ancora di più o sentirmi sollevato. “Gianni, sono scomparsi nel nulla.” “Devono esserci, maledizione! Non possono essere stati inghiottiti dalle viscere della terra!” “Calmati, Gianni. Vedrai che li troviamo.” “Dannazione!” Prendo un sasso accanto a me e lo scaglio contro il tombino. Dentro di me so che non li rivedremo più.

Domenica 12 agosto 1984

Anche stanotte l’ho trascorsa sul divano. Ed ero a un o dal tornare a dormire con mia moglie. Mi sveglio con la bocca amara, e non solo quella. Massimo è tornato tardi, entrando non ha badato a me, ha la luce e ha sbattuto la porta. Prima che potessi rimproverarlo era già barricato in camera. Sempre peggio, mi dico. Mi sono girato e ho cercato di riprendere sonno, invano. Ora sono rimbambito e mi dirigo verso la cucina. È domenica, tutti dormono ancora. Sento Marta tossire e correre in bagno. Ancora. Come l’altra sera. Sono preoccupato, vorrei andare su a vedere, a chiederle come sta. Invece me ne rimango qui, bloccato da non so quale stupido imbarazzo. ano circa dieci minuti, intanto mi sono messo a preparare la colazione. È una faticaccia con una sola mano, ma il tempo ce l’ho. Nel lavabo ci sono ancora le stoviglie di ieri sera. Dopo un po’ sento che Marta scende le scale. “Ho fatto il caffellatte.” Lei non mi risponde. Sembra che la mia presenza ai fornelli l’abbia spiazzata. Resta davanti alla porta, immobile. “Siediti.” Accetta l’invito e si siede. Le allungo la tazza di caffellatte, pane e biscotti sono già sul tavolo, come lo zucchero. In silenzio Marta inizia a servirsi. Nessuno parla, anch’io intanto mi sono messo a tavola a mangiare. “Dovresti andare a farti vedere.” “Per cosa.”

“Ti ho sentito…” “Non ho niente.” “Va bene, non hai niente.” “Vogliamo ricominciare?” “Non ne ho nessuna intenzione.” “Allora facciamo colazione.” Giuro le mollerei un ceffone. Perlomeno gliel’ho detto. È grande e vaccinata, di certo non devo essere io a dirle cosa deve fare con la sua salute. Finisco la colazione, mi alzo e porto la tazza vuota nel lavandino. “Stamattina vado a fare una eggiata.” Marta naturalmente non risponde. Per un istante ho sperato che dicesse “vengo anch’io”. Troppo presto, Giovanni Franti, è ancora troppo presto per una romantica eggiata mattutina. Una volta ogni domenica si partiva per fare due i a braccetto, insieme. Massimo e Lella non c’erano ancora. Eravamo proprio sciocchi. Alle sette eravamo già in piedi, come durante la settimana. Percorrevamo minimo dieci chilometri, se non di più. Andavamo verso la campagna, verso il sentiero. Poi continuavamo senza meta. Sembrava il paradiso, non c’era nessuno, tutti ancora dormivano. “Torno per mezzogiorno.” Vado in bagno per lavarmi i denti. Faccio ancora fatica con la mancina. La destra fa male, stamattina. Ho comprato le scarpe da ginnastica con la chiusura a velcro, i lacci sono diventati un tabù per me. Mentre esco di casa vedo Lella che, intontita, scende le scale.

“Ciao, papà.” “Ciao. Sei già sveglia.” “Dove vai?” “A fare una eggiata.” Massimo si sveglierà minimo tra un paio d’ore. “Ci vediamo a pranzo.” “Sì, ciao.” E va a fare colazione. Inizio il mio cammino. Da solo è triste, non ho nessuno affianco con cui fare un commento. Ma è quel che a il convento in questo momento, in attesa di tempi migliori. A quest’ora fa già caldo, ma non mi scoraggio. Sento che l’attività fisica mi tonifica e mi migliora l’umore. Cammino per ore, perdo la cognizione del tempo. Mi avventuro per una strada che non ricordo di aver mai percorso: chissà dove porta. È stretta e piena di buche nell’asfalto vecchio. Intorno qualche casa. Ah, ecco, me ne ero dimenticato: arriva al campetto di calcio dove gioca la squadra di mio figlio. Vorrei tanto vederlo giocare, mi accorgo solo ora che non sono mai andato a una sua partita. Un nodo mi stringe d’improvviso la gola. Poi mi riscuoto e riprendo il cammino. Sono stato un padre assente, non mi stupisco dell’atteggiamento ostile di Massimo. Mancano dieci minuti a mezzogiorno quando rincaso. Uso la mia chiave, l’ingresso è chiuso. Non c’è nessuno. Dove sono andati? Vado a vedere se c’è la macchina. Quella c’è. Allora come si spiega la loro assenza?

Entro per cercare se qualcuno ha lasciato un messaggio per me: niente in cucina, niente in salotto, niente. Sto impazzendo. Se ne sono andati? Seguendo un impulso irrazionale vado a vedere se ci sono ancora i vestiti negli armadi. Ma che fai, Giovanni Franti, non vedi che c’è tutto? Non so cosa mi prenda, sono proprio infantile. Saranno andati da qualche parte, torneranno tra poco, è ora di pranzo, dovranno pur tornare per l’ora di pranzo! “Signor Franti!” Mi affaccio alla finestra. Sul vialetto c’è la nostra vicina di casa. “Signor Franti, sua moglie è stata male. L’ha portata in ospedale mio marito.”

Sabato 11 luglio 2009

È sera ormai. La sala multimediale è stata chiusa e ho dovuto sloggiare. Tra poco è ora di cena. Come si fa ad andare a cenare in una situazione del genere? Ma ho fame, una fame tremenda. Ci medito un po’ seduto sul letto, poi decido. Bisogna mangiare, Giovanni Franti, se no non si ragiona. Do un’occhiata al cellulare: niente. Luigi non si fa vivo, chissà cosa starà combinando con Borlotti. Spero solo che non lo uccida prima che abbia confessato. Intorno a me il mondo ignora quello che sta succedendo, nessuno del resto lo sa, a parte pochi. Devo raggiungere Giancarlo e scusarmi. A lui ho detto tutto, solo a lui posso confidare le mie paure in questo momento, solo a lui posso appoggiarmi, ora. Ci sarà sicuramente a cena. Non mi resta che muovermi e andare in sala. Magari la vista delle persone può distrarmi dalle mie preoccupazioni per un poco. Eccomi arrivato. Guardo il mio tavolo, poi con gli occhi cerco Giancarlo. A quest’ora di solito è già qui. Dannazione, dove si è cacciato? Non lo vedo da nessuna parte. “Chi sta cercando?” È Massimo, il ragazzo simpatico. “Giancarlo Pellizzeri.” “Ah, ho sentito che è stato male. Sarà in camera a riposare.” “Ho capito.” “Vada pure a sedersi, che dopo o.”

“Sì. Grazie.” Automaticamente mi dirigo verso il mio posto e mi siedo. È stato male? Cosa vuol dire che è stato male? Sarà stata colpa mia? D’un colpo vengo preso da un’ondata di panico. Faccio per alzarmi per andare a cercarlo quando eccolo apparire all’ingresso. È pallido, effettivamente, e si muove lentamente, mostrando sofferenza. Faccio un cenno ma lui non mi guarda. Va a sedersi al solito tavolo, al Club delle Vedove Nere. L’abitudine è dura da sconfiggere dopo tutto questo tempo. Vorrei andare là, per chiedergli come sta, per scusarmi, ma il mio orgoglio m’impedisce di farlo. Di solito non mi alzo mai fino a che non ho finito di mangiare, figuriamoci se lo faccio adesso, per di più per andare da quelle parti. Ma è una situazione di emergenza, Giancarlo mi serve, è lui che mi ha messo sulla strada giusta. “Ciao Giancarlo.” “Ah, ciao Gianni.” “Ho sentito…” “Cosa hai sentito, Gianni?” “Che sei stato male.” “Niente, niente. È ato tutto.” “Volevo dirti…” “Ah, non ci pensare. Capisco che sei nervoso, chi non lo sarebbe al tuo posto. Vedrai, tutto si sistemerà.” “Sì, si sistemerà.” Ripeto come un pappagallo quello che mi dice. Ha un’espressione strana, come di uno che la sa lunga. Nuovamente mi verrebbe voglia di mettergli le mani

addosso. “Va’ pure a mangiare. E poi riposa. Tanto fino a domani non si conclude niente.” Come si permette di dirmi quello che bisogna fare? “No, non si conclude niente.” “Io però la chiamerei la…” “Basta. Chiudi il becco.” Intanto stanno arrivando i suoi compagni di tavolo, inclusa Pina, naturalmente. “Gianni dalle nostre parti? Ma che evento! E come stai tu, hai una cera…” “Sto meglio, grazie.” “Ora devo andare.” “Ma stai con noi, stavolta!” “Non posso.” “Non puoi?” “Ho già preso il posto.” Pina mi guarda. Stavolta è arrabbiata. “Vattene, allora, brutto maleducato e cafone che non sei altro. Vai al tuo angolo a piangerti addosso. Sei ancora qui?” Alza la voce, è alterata. Tutti si girano. Poi si siede e sospira. Io intanto rimango come un ebete in piedi, con l’impressione di aver combinato un guaio. “Vattene.” Stavolta me lo dice piano, ma con tono fermo. Non mi guarda. Fissa la tovaglia,

attendendo che io scompaia. Non mi resta che tornare al mio tavolo. Nel cuore sento un’angoscia profonda, mi sembra di scoppiare, vorrei rivelarle il mio segreto, vorrei dirle in che situazione mi trovo, cercare la sua comprensione e il suo appoggio, ma non dico e non faccio nulla, a parte allontanarmi senza dir niente. “Che succede, Giovanni?” Massimo è arrivato con il primo, un consommé di non so cosa. Non me lo ricordo più, non mi ricordo più cosa ci sia dentro questa zuppa verde che ora fuma di fronte a me. Il ragazzo ha capito che stasera sono in crisi. Hanno rapito mia figlia, il mio cervello sta andando alla malora e io sono sempre più stronzo, vorrei dirgli. “Niente… Niente…” “Su col morale. Mangi, che è buona. L’ho assaggiata, sa? È speciale.” Mi sorride. È del tutto all’oscuro del dramma che sto vivendo, ma il suo sorriso ingenuo m' infonde coraggio, arriva al momento giusto, quando stavo per naufragare nella disperazione. “Grazie.” “E di che, Gianni. Su, mangi.” Incomincio a sorbire la zuppa. Non fa freddo ma sento che mi scalda e che ho bisogno di calore nel mio corpo. A ogni cucchiaio che mando giù acquisto una fetta di lucidità, le rotelle sdentate e arrugginite del mio cervello tornano a girare. Mi sorprendo a dirmi: “Gianni, mantieni la calma”.

Venerdì 10 luglio 2009

“Allora, quando?” “Non ancora.” “Siamo stanchi, capo, di stare qui sotto ad aspettare.” “Non ancora. Deve essere tutto perfetto. Per-fet-to.”

Sabato 12 luglio 2008

Sento che il mal di schiena sta ando. Ma sì, posso alz… Ah! Che dolore! Maledizione! Non voglio are tutto il giorno sdraiato, accidenti. Il colpo della strega, chi l’avrebbe mai detto che mi sarebbe venuto anche questo. Il meno, con tutto quello che mi è successo nel corso della mia esistenza. Ma che male. Sono completamente inchiodato. E dire che stanotte mi sentivo così bene. Oggi allora si sta a letto, ho capito. Avevo così tanti progetti… eggiare con Pina, chiacchierare con Giancarlo… Guardare la televisione… Quest’ultima attività posso comunque svolgerla. Lo schermo è appeso alla parete abbastanza in alto da permettermi di vederlo dalla mia posizione. Il telecomando, dov’è? Sul comodino, sì, riesco a prenderlo… Ah! Voglio parlare con qualcuno, non è possibile che mi lascino qui a marcire per tutto il giorno. Che chiamino Massimo, dannazione, che venga a vedere in che condizioni sono ridotto. Che lasci il suo dannato ufficio, che venga a visitare suo padre che sta male, maledizione! E devo anche andare in bagno.

Giovedì 21 luglio 1997

“Il ‘pacco’ è arrivato a destinazione.” “Che intende fare?” “Prima di tutto lo interroghiamo. Per salvare le apparenze, s’intende.” “Borlotti, mi raccomando. Agisca nella massima discrezione, ne va del prestigio dell’agenzia.” “Non si preoccupi. Solana è in mani sicure.” “Lo spero bene. Con tutto quello che ci è costato. Ci mancherebbe che per lo zelo di un nostro dipendente tutti i nostri piani vadano in fumo. Si ricordi, Borlotti, lei sarebbe considerato il responsabile di tutto.” “Le ripeto che non deve preoccuparsi. Ho pronto un piano. Al momento giusto lo facciamo sp…” “Silenzio. Bussa qualcuno.” “È permesso?” “Ah, ecco il nostro caro agente Franti. La volevo vedere.” “Eccomi.” “Volevo innanzitutto farle le mie congratulazioni per il felice esito della missione. Il signor Borlotti mi stava proprio adesso descrivendo le fasi della cattura.” “Siamo stati fortunati.” “Fortunati! È stato davvero in gamba, me lo lasci dire. Per questo sarà premiato, lo sa?” “A me basterebbe…”

“Vuole un avanzamento? Non c’è problema.” “Niente più missioni. Fino alla pensione.” “Ah. Sarebbe un peccato, con le capacità che ha dimostrato. Lei ha delle doti innate, sarebbe un bel peccato.” “Non posso più. Con le mie condizioni fisiche e la mia età è pericoloso, per me e per la squadra.” “Capisco. Allora, se è così…” “Spero mi capisca, direttore. Ho una famiglia, ho figli. Se dovessero soffrire per causa mia non me lo perdonerei mai.” “Certo...Certo...Vedremo che si può fare. Intanto si goda il successo. Riceverà una medaglia. La cerimonia è fissata per domani alle dieci. In sala congressi.” “Grazie. Sono lusingato. Allora io vado. Arrivederci, direttore. Arrivederci, Borlotti.” “Arrivederci, Franti.” “Spero per lei, Borlotti, che non succeda nulla a Solana. Se fosse morto, avremmo dovuto ricominciare tutto daccapo.” “Non si preoccupi.” “Ah, dimenticavo. Questo agente Franti non avrebbe dovuto lasciarci le penne secondo il programma?” “Lo so. La situazione ci è sfuggita di mano. Se vuole…” “No, in questo momento attirerebbe troppo l’attenzione. Doveva succedere là. Adesso bisogna pensare solo a mettere il nostro uomo al sicuro.” “Le ho detto che ho un piano.” “Lei ha detto tante cose. Ora mi lasci. Ho una montagna di pratiche da sbrigare. Mi tenga aggiornato.”

“D’accordo. Arrivederci.” “Arrivederci, Borlotti. Solana, mi raccomando.” “Sì.” Accidenti a te, Franti. E adesso? Come faccio a far sparire di nuovo Solana?

Domenica 12 agosto 1984

“Marta è stata male.” “Cosa?” “È all’ospedale.” “Che cos’ha?” “Non lo so. Non mi ha mai detto niente.” “Arrivo subito.” Riaggancio. Non posso guidare, me ne sono dimenticato. Sono andato in garage e ho fatto per aprire la portiera ma non ho potuto afferrare la maniglia. Ho allungato il braccio e il moncherino è andato a cozzare contro il metallo provocandomi una fitta tremenda. Ho visto le stelle, mi è mancato il respiro per un minuto buono. Poi sono rientrato e ho chiamato Luigi. Adesso arriva. Intanto telefono all’ospedale. Dannazione, è occupato. Forse ho sbagliato a fare il numero, la mia sinistra ha poca dimestichezza con i tasti del telefono. Rifaccio tutta l’operazione: ancora occupato. Mi sembra di impazzire. Maledetto Luigi, quanto ci metti? Di nuovo compongo il numero. Stavolta c’è la musichetta di attesa. Continua. Continua ancora. Nessuno di là risponde, eranno cinque minuti. Riaggancio esasperato. Vado in cerca della vicina, forse lei mi può aiutare a contattare l’ospedale. Esco di casa, attraverso il vialetto e raggiungo l’abitazione della signora. Faccio

per suonare con la destra, poi decido di usare l’altra. “I suoi figli sono voluti andare con la mamma, scusi se non gliel’ho detto. Massimo ha voluto…” “Va bene…” Massimo si è sostituito a me come responsabile della famiglia. “Non riesco a chiamare l’ospedale.” “Venga, entri. Chiamiamo ancora.” La signora Magri è gentile. Lei e suo marito sono dei vicini molto discreti e disponibili. Non potevamo capitare meglio. Avrà su per giù cinquant’anni, se non di più. Suo marito sembra molto più giovane. “Niente, signor Franti. Non risponde nessuno. Aspettiamo cinque minuti e riproviamo.” “D’accordo.” “Vuole un bicchier d’acqua?” “Grazie.” Ho la gola secca, la bocca impastata. Sono terribilmente preoccupato. Mando giù l’acqua tutta d’un fiato. “Richiamiamo.” La Magri compone il numero. “Sì, pronto? L’ospedale?” Una voce le risponde. “Dev’essere arrivata una signora, è con mio marito. È stata male, la signora

Marta Franti.” Segue un lungo silenzio. Poi di nuovo sento la voce dall’altra parte della cornetta ma non riesco a capire cosa dice. “Certo. Sì. Certo. Certo. Certo, certo. Va bene. Grazie.” “Allora? Come sta?” “È sotto osservazione, le hanno dato un calmante. Non sanno ancora cosa sia. Adesso sta riposando.” “Dio mio, tutte a noi devono capitare?” “Stia tranquillo, signor Franti. Vedrà che erete anche questa.” La Magri d’un tratto diventa rossa: forse si è sentita un’impicciona. È una donna buona, di sicuro non sta a spiarci da dietro le tende. Magari avrà sentito qualche scenata, probabilmente mi ha visto quando ero fuori in giardino. La fasciatura è vistosa, è difficile che non si noti. Noi del resto non l’abbiamo fatto sapere a nessuno, tranne che ai parenti più prossimi. “Grazie. Non so come posso ringraziarla, lei e suo marito.” Mi viene un nodo alla gola. Trattengo il pianto. “Stia tranquillo. Appena arriva mio marito la porta su.” Fuori sento una macchina che frena di colpo. Luigi è stato un lampo. Ringrazio nuovamente la signora Magri e raggiungo il mio socio. “Dai, sali, veloce.” In pochi minuti siamo lanciati a tutta velocità sulla strada principale.

Trent’anni prima

Dove sono? Mi trovavo su un aeroplano, andavo in Ucraina, per una missione. Poi il buio. Tengo in mano un oggetto morbido e scuro: è un guanto di pelle. Solo quello sinistro. E ora dove diavolo sono? Non ne ho la più pallida idea. So solo che non distinguo nulla. Un momento. Sento come uno spiffero, mi giunge sulla fronte, tra i capelli. Lo spiffero si fa brezza, poi diventa un vento insistente. Apro gli occhi: la carlinga è spezzata a metà, il cielo e le nuvole là dove dovrebbe esserci la cabina di comando. Gente che grida, persone che volano giù come fantocci di pezza, destinate a sfracellarsi. Io sono legato al sedile dalla cintura di sicurezza. Non so perché ma voglio sganciarla, voglio buttarmi anch’io, non voglio rimanere in questo moncone di aereo che precipita. Mi slaccio e, come per miracolo, mi ritrovo sulla schiena un paracadute. Senza esitare mi lancio nel vuoto. Poi cerco la cordicella da tirare: non c’è. Volo giù, strano, non sento più il vento, eppure a questa velocità dovrei sentirlo, il vento. Intanto la morte si avvicina sotto forma di campi, case, strade. La mia testa si stacca nell’impatto. Mi ritrovo a guardarmi in faccia, a guardare la mia testa staccata.

Urlo. “Signore, tutto bene?” “Eh? Sì…” “Credo abbia sognato. Vuole un drink?” “Sì, grazie…” Ordino un bicchiere di vino. Mi sono addormentato e ho fatto un incubo. È sempre così quando sono in viaggio per una missione. Il mio inconscio puntualmente presenta il conto, sotto forma di pesanti incubi. Forse mi consiglia a modo suo di stare attento, perché ogni volta vado a rischiare la vita, possibilità che il mio superego rifiuta sempre di far affiorare dal profondo della mia mente. Stringo i guanti: li ho ancora in mano. Quanto è lontano mio figlio. Quanto è lontana la normalità. Quando vado in missione mi sembra di vivere in un mondo parallelo, in cui niente è vero. È come stare in un film, ci si aspetta che le luci a un certo punto si alzino e che le porte della sala si aprano per consentirmi di tornare a casa. Ma non è un film. A questa situazione non ho mai fatto il callo. La mia è una doppia esistenza, è difficile a lungo andare mantenere la necessaria lucidità per non perdere di vista se stessi. È per quello che l’agenzia ci obbliga a una visita periodica dallo psicologo. Fuori ora c’è buio. È notte fonda nel cielo dell’Est.

Sabato 11 luglio 2009

La mia zuppa è finita, ho fatto anche la scarpetta con un tozzo di pane. Mi accorgo ora che era la crema di piselli, quella che ho sempre evitato, credendo che non mi pie. Invece pare che oggi l’abbia ordinata. Ed era buona. Una sottile angoscia striscia dentro me ma non so per quale motivo. Cos’è che mi turba? Alzo gli occhi e vedo Giancarlo seduto al suo solito posto. È pallido, più del solito. Dannazione, di nuovo mi sono dimenticato tutto. Sono nel bel mezzo di una situazione critica: Lella è stata rapita, c’entra lo struzzo, l’agenzia è implicata. Solana è il rapitore. Improvvisamente, come una scarica elettrica tutto torna nella mia mente e mi fa sobbalzare. Lella, agenzia, Solana. Per la prima volta collego i tre elementi. Cosa nasconde Borlotti? Forse ha sempre saputo dov’era Solana. Solana non è mai sparito, l’agenzia sapeva dove si trovava. Fisso il piatto vuoto davanti a me. Che senso ha tutto questo? Davvero non riesco ad arrivarci. So solo che mia figlia, la mia famiglia corrono un serio pericolo, e io sono il responsabile di tutto questo. Non me la sento di mangiare altro. Ho bisogno di sentire Massimo. Voglio dirgli di raggiungere Luigi, lui e Luisa. Con lui li so al sicuro. Il cellulare dovrei averlo in stanza. Dove l’ho messo? Mi ricordo di averlo usato poco tempo fa. Sarà sicuramente in stanza. Ma certo. Adesso vado a cercarlo.

“Dove va, signor Franti?” “Che cosa ti frega?” “Non deve rivolgersi a me in questo modo.” “Lasciami andare, brutta puttana.” “Come si permette!” “Come ti permetti tu, frustrata infermiera dei miei stivali!” “Ora vado dalla direttrice, sicuro!” “Sì, vai, vai. Vai anche al diavolo, già che ci sei!” Diamine, che mi prende? È come se avessi perso ogni inibizione. Non è da me. L’infermiera si allontana a grandi i, è rossa in viso, l’ho colpita nel vivo. Tutti gli ospiti ora mi stanno osservando: hanno uno sguardo strano, si direbbe quasi di gratitudine. Come se con gli occhi mi dicessero “ben fatto, Giovanni Franti”. Dentro di me provo un'enorme soddisfazione.

Venerdì 3 luglio 2009

Finalmente mi sblocco. Ero un po’ ridicolo a fare la bella statuina in mezzo a ospiti e inservienti. È altamente improbabile, del resto, che mi permettano di accedere agli uffici. Mi accorgo di quanto eccessivo sia il mio comportamento. Che stupido. Torno in stanza, d’un tratto ricordo le parole di Pina e mi accorgo che, effettivamente, sento uno stimolo potente. Devo assolutamente andare al bagno. Rapidamente raggiungo la tazza e mi siedo. Ogni mia tensione finisce giù con tutto il resto. La mia mente torna lucida e fresca. Che sciocco. Al diavolo il caso, al diavolo la chiavetta, al diavolo l’agenzia. Solana può aspettare. Ora voglio raggiungere Beatrice. Prima di uscire dalla toilette sbircio fuori per vedere se Marco è ricomparso per farmela pagare. Via libera. Ringalluzzito e speranzoso procedo con o deciso verso il corridoio. La missione ora è trovare Bea.

Sabato 12 luglio 2008

Per fortuna è arrivato qualcuno. Mi sono fatto aiutare per andare in bagno, pur con un dolore lancinante alla schiena sono riuscito a portare a termine l’operazione. Poi sono dovuto tornare a letto. Mi sa che oggi non c’è verso di uscire di qui. Maledizione. Oggi tutti i pensieri mi soffocheranno. Rivedrò casa mia, sarò assalito dalla nostalgia, sarà terribile. A proposito di casa: che ha intenzione di farne Massimo? Ha detto che ci pensa lui, ma a fare cosa? La vende? L’affitta? Lo scrigno dei ricordi più preziosi della nostra famiglia in affitto a degli sconosciuti? Una rabbia mi assale, il sangue si riversa nelle tempie e arriva alle terminazioni recise in fondo al braccio destro. No, non può. Non può spazzare via con un colpo di spugna il nostro ato. Devo assolutamente chiamarlo, dirgliene quattro. Eh no, sbarbatello, tu non puoi fare quello che vuoi, adesso ti chiamo e ti sistemo. Allungo più che posso la sinistra verso il comodino: la schiena duole ancora, è come se qualcuno mi premesse le vertebre con un pugno chiuso. Invece di un cellulare trovo un altro oggetto di plastica con piccoli tasti: il telecomando. Sorpreso dall’inaspettato ritrovamento perdo di vista il fine iniziale. Massimo posso sempre chiamarlo entro oggi. Adesso ho bisogno di rilassarmi e non credo che in questo poco tempo abbia potuto concludere qualche affare immobiliare. Pigio sul tasto verde di accensione. Perlomeno mi perdo via per un po’. Pubblicità. La mattina la televisione vomita réclame. Faccio in continuazione zapping per evitarle ma è inutile. A un certo punto mi ritrovo in due canali lo stesso spot con uno scarto di due o tre secondi. Non è possibile, mi dico. Tra l’altro la programmazione mattutina è la sagra del riciclo: trasmissioni

vetuste, telefilm che avranno almeno trent’anni. M’impongo di seguire un poliziesco. Americano, anni Ottanta, più o meno i primi. La solita coppia di detective, stavolta un uomo e una donna. Lei sexy ed elegante, lui rude e dai modi spicci. Non c’è nient’altro. Meglio che ascoltare il rumore silenzioso dei miei pensieri. Durante tutto il telefilm mi chiedo: ma saranno mai andati a letto insieme? Se ci fosse una scena di sesso almeno sarebbe un po’ più interessante. Lei ha un bel fisico. Chissà come sarà ora: dopo trent’anni sarà sicuramente diventata una nonna. Sul set è ancora una venticinquenne sgambettante e provocante. Chissà come sarà… Se recita ancora… Si potrebbe cercare su Internet… Che sonno, non riesco a tenere gli occhi aperti… Mi sa che tra un minuto… Come si chiama… Non me lo ricordo… Accidenti… Le gomme fischiano sull’asfalto americano di tanto tempo fa. Devo spostarmi se no mi mette sotto. Non riesco a muovermi, mi viene addosso. Ma tanto è un sogno, no? “Gianni, sei sveglio?” Stavo per addormentarmi, accidenti. E chi è che rompe adesso? “Ho sentito che hai avuto un incidente.” “Giancarlo…” “Sì, sono Giancarlo. Ah, stavi dormendo? Non volevo disturbarti.” “No… No…” “Beh, allora ti faccio un po’ di compagnia, stamattina ho tempo.” “Non… Preoccuparti…” “Ma sì che mi preoccupo. Sto qui, così facciamo una chiacchierata.” Maledetta schiena. Se non mi fe così male mi alzerei e pianterei un pugno in piena faccia a questo emerito fetente. Odio la sua espressione da ebete, il suo

alito, il timbro della sua voce. E ora sono nelle sue mani.

Giovedì 21 luglio 1997

“Allora?” “Mi daranno una medaglia.” “Fico. E di lui che faranno?” “Non lo so.” “Pensi ancora a quello che è successo là sotto?” “Sì.” “Vedrai, li troveranno. Saranno solo scappati.” “Forse.” “Ah, lo vuoi sapere da dove venivano i soldi per la Mantivano?” “Credo che sia meglio che non lo sappia.” “Come vuoi.” “Ora devo dare un’occhiata a questo fascicolo.” “Ho capito. Hai bisogno di stare da solo. Ma non meditare troppo, ti fa male.” “Vai, Luigi. Per piacere.” “A dopo, socio. Non credere che ti lasci in pace.” “Vai, adesso, ho un mucchio di cose da fare prima di stasera.” “Non pensarci.” “No, non ci penso.”

“Ti conosco troppo bene.” “Adesso vai.” “A dopo.” “Sì.” “Adesso vado.” “Dannazione, Luigi, ti togli di mezzo?” “Sì, capo.” “Sei estenuante quando ti ci metti, accidenti.” “È che ci tengo a te, vecchiaccio.” “Però ora devo veramente lavorare. Anche tu, credo.” “Beh, sai dove trovarmi.” “Sì.” “Non pensarci.” “Va bene.”

Domenica 13 agosto 1984

Finalmente posso vederla. Massimo è accanto al letto. Lella e il signor Magri sono nel corridoio. Marta sta dormendo. Se non fosse per il petto che sale e scende sotto le lenzuola, la crederei morta. È pallidissima. Sul volto i segni della sofferenza. Come ho fatto a non accorgermene in tutto questo tempo? “Come sta?” “Non lo so.” Mio figlio non mi rivolge lo sguardo; rimane a fissare la madre, attento a cogliere il minimo segno di miglioramento. “Le hanno dato un calmante?” “Sì.” “Che cos’ha?” “Non lo sai?” “No, non lo so, Massimo.” Preso dalla rabbia scatta dalla sedia e si dirige fuori. “Massimo!” Sento un bisbiglio. “Cosa…” “Riposati. Sei stata male.”

“Come va?” Luigi si presenta all’ingresso. “Sta riposando.” “Luigi?” “Sì, c’è anche lui. Mi ha accompagnato.” “I ragazzi, dove sono?” “Sono qui. Il signor Magri ti ha portato in ospedale.” “Il signor Magri… Dov’eri tu?” La sua domanda mi attraversa da parte a parte. “Ero uscito. Non ricordi?” “Eri uscito…” “Adesso riposa. Tra poco a il dottore.” “Sto morendo…” “Non dirlo neanche per scherzo. Tu non stai morendo.” “Ah, no?” Sul suo viso si forma un accenno di sorriso. Poi gira lo sguardo dall’altra parte. “Ho bisogno di dormire un po’… Fammi dormire un po’…” “D’accordo. Io sono qui se hai bisogno.” Non risponde. Chiude di nuovo gli occhi. Torna ad assomigliare a un cadavere. Esco in corridoio. Lella ha un’aria spaventata, Massimo è scuro in viso e continua a non guardarmi.

“Sta riposando.” “Signor Franti. Li porto a casa io, possono stare da noi.” “Grazie. Non si preoccupi. Possono rimanere anche da soli.” Sto per aggiungere che Massimo è un bravo fratello maggiore, che sa badare a Lella ma l’intera frase mi rimane nella gola. “Io sto con te, socio.” “Allora resta pure.” Non voglio rimanere solo, ora. Ora ho bisogno di una faccia amica. Ho bisogno di Luigi.

Sabato 11 luglio 2009

“Allora, verme. Parli?” “Lasciami andare, ti prego…” “Non prima di aver finito con te. Adesso ti faccio provare un'esperienza elettrizzante.” “Cosa vuoi fare? No, ti prego. Noo!” “È solo a quaranta. Vedi? Vedi l’indicatore? Posso arrivare a cento se non parli…” “Non ti dico un cazzo, tu sei morto, tu sei morto, ricordatelo!” “Ah, non va bene così. Arrivo a cinquanta, d’accordo?” “Che cos’è? Cos’è questo…” “Ah, strumento di tortura in dotazione all’agenzia: il TP4. Trasportabile, maneggevole. Basta attaccarlo alla presa di corrente di casa. Carino, vero? Ma suppongo che tu già lo conosca.” “Come hai fatto ad averlo?” “Non te lo posso dire, se no mi licenzi.” “Maledetto, rubi anche l’attrezzatura dell’agenzia?” “L’ho solo presa in prestito. Ora parla. Il nome Solana, cosa ti dice?” “Cosa? Chi?” “E va bene. Eccoti i cinquanta.”

Lo struzzo stringe i denti, s’irrigidisce, s’inarca con la schiena per poi sprofondare nuovamente nella poltrona a cui è legato. Luigi lo fissa dritto negli occhi, gli ripete la domanda con calma. Lo struzzo ha un’aria sconvolta ma pare non intenda cedere. Sessanta. Ancora sessanta. Ora settanta. Settantacinque. Lo struzzo perde conoscenza. Una tale resistenza Luigi non l’aveva prevista. A quanto pare anche Borlotti è stato ben addestrato per resistere a un interrogatorio. Questa non ci voleva, si dice. Quel pazzo può uccidere Lella da un momento all’altro. Bisogna cambiare strategia. Non il dolore fisico. La paura.

Venerdì 3 luglio 2009

Di certo non mi aspetto che mi butti le braccia al collo, ma devo farlo. Devo scusarmi con Beatrice. Eccola là, adesso vado e le parlo. “Ehm…” “Ah, Gianni. Stai eggiando?” “Sì… Volevo…” “Cosa volevi?” Non mi dà nessun incoraggiamento, fa la finta tonta, intende farmi strisciare ai suoi piedi. “Scusarmi.” “E per che cosa?” “Per la storia di prima.” “Già, per la storia di prima.” Mi guarda inespressiva, poi inaspettato si disegna un sorriso sul suo visetto. Come un miracolo. “Perdonato.” “Perdonato?” “Sì, perdonato.” “Allora… Tutto a posto?” “Tutto a posto.”

La mia felicità si gonfia tra le gambe.

Sabato 12 luglio 2008

“Allora, me la racconti la storia?” “Quale storia?” “La storia della mano.” “No.” “Ehm… Fa caldo oggi.” “Già.” “E la schiena? Fa ancora male?” “Sì.” Maledizione, uomo insulso, non sei nemmeno capace di metter su una conversazione, che cavolo vuoi fare, tenermi compagnia? “Vedrai che ti sistemano, un po’ di antinfiammatori e ritorni come nuovo.” “Lo spero.” “Vuoi che ti accenda la televisione?” Evidentemente è alle corde, non ha più argomenti. Forse me ne libero. “No.” “Allora vuoi che ti legga un giornale?” Questa è bella. “No, grazie.” Ora rimane in silenzio, imbarazzato. Guarda verso la porta, come chi spera che

qualcuno possa entrare e porre fine all’imbarazzo creatosi. Ma non arriva nessuno. L’hai voluta tu, stupido d’un Giancarlo. “Beh… Se non hai bisogno di niente…” Bene. Ha capitolato, anche prima di quanto sperassi. “Allora ti saluto.” “Sì.” “Stammi bene, Gianni.” Se ne va con la coda tra le gambe. Non mi sento orgoglioso del mio comportamento ma era necessario. Ahi, la schiena! Sento una coltellata che s’infila tra i nervi. Rimango immobile per un po’ di secondi, poi torno a respirare. Anche riempire i polmoni d’aria mi fa male, accidenti. Perché mi guardi così, amore?

Venerdì 22 luglio 1997

Sono dentro un budello di roccia, sempre più stretto. Sono completamente incastrato e non riesco a muovere un muscolo. Più sotto sento un pianto. Sembra una donna, faccio fatica a capire ma sembra proprio il pianto di una donna. Singhiozza, poi ricomincia, un lamento funebre. Poi scorgo tre figure nella penombra, incastrate anch’esse nelle viscere della terra. Tendono la mano verso di me, intanto vanno sempre più giù, come se al posto della dura pietra ci fosse ora sabbia fina. Poi li vedo. Dio mio. Marta. Massimo. Lella. Sono loro e si allontanano sempre più da me e io non posso farci niente, niente, niente! Finalmente sono sveglio. Mi ritrovo con le lenzuola bagnate di sudore. Questa storia mi ha coinvolto troppo emotivamente. Continuo a ripetermi di aver fatto tutto quello che era nelle mie possibilità ma non riesco a convincermi del tutto. È presto. Ho ancora un’ora per stare a letto, ma so che non riuscirò più ad addormentarmi. Tanto vale alzarmi. Uh, oggi mi premiano, me ne stavo dimenticando. Non ho nessuna voglia di festeggiare. Quanto odio Borlotti, quanto odio il nostro direttore. Non mi sono mai andati a genio. Raccomandati, nemmeno lontanamente paragonabili ai loro predecessori. Sono ancora nel letto. Non riesco ad alzarmi. Non ho la forza per affrontare questa giornata. Sento come un macigno sul cuore. Vorrei addormentarmi ancora e risvegliarmi in un mattino diverso, lontano da qui, in un posto dimenticato da tutti. Ma questo non è tecnicamente fattibile. Con la forza della disperazione mi metto in piedi. Barcollo per un istante, poi mi dirigo verso il bagno. Ci vuole il doppio del tempo a farsi la barba con una mano sola, non me lo ricordo mai. Sono in ritardo. Di sicuro Borlotti romperà, maledetto struzzo. Ma oggi è il mio giorno, no? Posso anche permettermi di sgarrare con l’orario, non sono un eroe?

Faccio per mettermi le braghe quando sento un tonfo: il portafoglio è per terra. È rotolato fuori il mio portafortuna, il proiettile. Lo osservo con attenzione. Certo non ha funzionato molto come amuleto, visto che ho perso mano, moglie e, forse, anche i figli. Che diavolo ha questo maledetto proiettile che non mi abbandona mai? Chissà come l’ho trovato, magari l’ho raccolto durante una mia eggiata in campagna. Lo rimetto nel portafoglio. D’un tratto ho voglia di andare al lavoro, di ricevere gli onori, di stare in mezzo alla gente.

Martedì 14 agosto 1984

Marta sta meglio. Il dottore non si è ancora pronunciato, pare che non abbia ancora capito il problema. Sono seduto al fianco del letto, lei dorme. Per sgranchirmi mi alzo e vado alla finestra. Là fuori c’è l’afa estiva. Domani è Ferragosto, e che festa è? Cosa c’entra il ferro, me lo sono sempre chiesto. Mai stato patito per questa ricorrenza. La gente ora è a sguazzare in piscina, è al mare, in vacanza. Io mi ritrovo qui dentro, fresco di amputazione, con mia moglie ricoverata per chissà quale male; mio figlio mi odia, mia figlia mi guarda come se fossi un alieno che si è impadronito del corpo di suo padre. Se potessi portare la mia famiglia in piscina domani… Ma evidentemente non è possibile. Mi avvicino a Marta. Ha ripreso buona parte del suo colorito, respira silenziosamente. Quanto sei bella, amore. Ti ho amata dal primo momento che ti ho vista, senza nessuna riserva. E adesso guarda che casino. Sono stato io a farti finire qui, io fissato col lavoro, sempre più lontano da te. Le sfioro la guancia, le libero la fronte dai capelli. Ora che è addormentata non mi rivolge i suoi occhi pieni di indifferenza. Preferirei che urlasse, che mi picchiasse piuttosto che continuare nel suo atteggiamento. Quanto sei bella, Marta. Struccata, in vestaglia, per me non cambia. Sono ancora innamorato di te, nonostante tutto. Tu, invece? Ora si muove. Fa una risata nel sonno. Che starà sognando? Sarà sicuramente un bel sogno. Starà sognando me? Quanto sei stupido, Giovanni Franti, quanto sei ingenuo. La mano incomincia a farmi male. Mi sono dimenticato l’antidolorifico a casa,

dannazione. Tra poco sentirò una serie di fitte, una peggio dell’altra. Stringo i denti. Tra poco arriva Luigi a prendermi, posso resistere. Che dolore! Non lo sopporto, accidenti. Brucia da impazzire! Sono in un stramaledetto ospedale, ci sarà un antidolorifico qui dentro! Muoviti, va’ a chiedere. “Ti fa male?” Mi giro. Marta è sveglia, mi guarda con due occhi dolci. “Sì.” “Puoi andare a chiedere se ti danno un calmante.” “Adesso vado. Come stai?” “Meglio. I ragazzi?” “A casa. I Magri ci danno un occhio.” “Sono sempre gentili.” “Già. Riposa.” Mi dà retta e richiude gli occhi. Sento un macigno levarsi dal mio petto. Forse mi ha perdonato. Dei i lungo il corridoio. Spero sia il dottore, così gli chiedo se mi può dare quel calmante. “Luigi.” “Non hai una bella cera, capo.” “Ho dimenticato a casa le medicine.” “Bravo.”

“Portami a casa, così le prendo.” “Lei?” “Sta meglio.” “Ora andiamo. Sei bianco come un cencio.” Mi avvio con Luigi verso l’uscita. Ciao Marta. Domani sono qui ancora.

Sabato 11 luglio 2009

È notte ormai. Sono nel letto, immobile. Fisso il soffitto, non riesco a pensare. Devi riposare, Giovanni, oggi non c’è più niente da fare. Devi riposare, come te lo devo dire? Ho una paura folle. Mi sembra tutto così irreale, un incubo a occhi aperti. E questa mia testa che fa le bizze non è certo d’aiuto. Stringo la mano rimastami. No, non mi arrendo. Nemmeno ora. Non vedo la soluzione ma se mollo per Lella è finita. Chiudi gli occhi, dannazione, devi dormire qualche ora. Li chiudo, ma ci vedo ancora. Come è possibile? Rimani lucido, ti prego, almeno ancora per un po’. Che ci faccio in questo letto? Non sono a casa, dove diavolo sono? Lo sai dove sei, dannazione, lo sai, figuriamoci se non so dove sono. E allora dimmi dove sono, perché io credevo di essere a casa con Marta. C’è buio ma vedo distintamente il cassettone in fondo al letto con lo specchio. Riflesso c’è il viso di una persona ma non riesco a capire chi sia. Sei tu, Marta? Marta non c’è più, dannazione! Dormi, Giovanni, chiudi gli occhi e dormi. Ma vedo ancora, vedo ancora, intorno c’è tutta la mia famiglia, Marta, Massimo, Lella.

Salvami, papà. Cosa, Lella? Salvami. D’un tratto una luce si accende. È il cellulare. Lo prendo, questo sì che è vero. “Papà.” “Sì, Massimo.” “Come stai?” “Perché me lo chiedi?” “Il rapitore non si fa sentire.” Ah, già. “Si farà sentire.” “Cosa devo fare?” “Devi essere coraggioso.” “Non lo so se riesco a resistere. È tutto così pazzesco.” “Lo so.” “Chiamami se Luigi ha qualche novità.” “D’accordo.” “Ciao.” Massimo chiude la comunicazione. Chi è Luigi?

Venerdì 3 luglio 2009

Come sono felice! Bea mi ha perdonato! Mi ha perdonato! Ho voglia di urlarlo ai quattro venti. Cammino in punta di piedi, non so dove vado, non ha importanza la direzione. Ho voglia di godermi la vecchiaia, di svagarmi, di non pensare più a niente. Mi sento leggero come mai lo sono stato. Il pesce della foto torna prepotentemente alla mente, rovinandomi la festa. Voglio distrarmi però, ora. Non voglio pensarci, per poco non perdevo Bea per questo maledetto pesce. Faccio un giro. D’un tratto mi accorgo che in un anno non ho ancora visto tutto il residence. Al piano meno uno non ho messo più piede da quando l’ho visitato con Beatrice, tanto tempo fa. Sarà cresciuto bene il suo gatto, non me ne ha più parlato. Vado al piano di sopra. Non credo possano vietarmelo, dopotutto non disturbo. Prendo l’ascensore. Non so perché, mi viene la tentazione di pigiare il tasto sotto lo zero. Poi schiaccio il più uno. Con pazienza l’elevatore sale, si assesta un attimo, poi apre la sua porta scorrevole. Mi affaccio con curiosità e un pizzico di timore. C’è un silenzio strano, non che al piano terra ci sia rumore, ma qui è diverso. Non vola una mosca, tutto è ovattato. Gli ospiti qui non girano per il corridoio: trovo solo infermieri che entrano ed escono dalle camere, senza troppa premura. Non mi sento a mio agio; tuttavia la mia curiosità ha la meglio. Percorro il corridoio e guardo nelle stanze. I malati di Alzheimer sono tutti qui: i più sono a letto, qualcuno è seduto sulla sedia a rotelle, parcheggiato vicino a una finestra. Gli sguardi sono assenti, è come se non ci fossero sulla terra, come

se vivessero in un’altra realtà. Chissà cosa stanno vedendo, di certo non quello che vediamo noi. Forse un mondo ato, i fantasmi di persone conosciute nella giovinezza, luoghi che non esistono più. Per quanto ne so di questa malattia non si è ancora trovata la causa; quel che è certo è che si tratta di una degenerazione delle cellule celebrali che, mano a mano, va a estendersi a tutto il cervello. Ripenso alla visione di Marco e mi viene un brivido alla schiena. No, non è possibile. Io non ho l’Alzheimer, dannazione! Che diavolo mi è saltato in testa di venire qui? Torno all’ascensore. C’è un altro piano, quello dei non autosufficienti. Poi c’è la terrazza, me ne hanno sempre parlato, c’è una vista molto bella. Decido per la terrazza. Finora nessuno mi ha detto niente; l’esplorazione incomincia a eccitarmi: me ne vado in terrazza senza permesso. Nuovamente si apre l’ascensore. Questa volta non c’è un corridoio ma una porta in metallo. Faccio per aprirla ma è chiusa. Dannazione, hanno paura che qualcuno si butti giù? Sconsolato me ne torno giù. L’ascensore scende con la sua consueta calma, ma ci mette un po’ troppo stavolta. Quando si apre la porta scorrevole, capisco perché: distrattamente ho schiacciato il tasto meno uno. Rimango nell’ascensore. Noto che il neon sfarfallante è : magari è scesa Beatrice a dar da mangiare al gatto. Ma non ho il coraggio di andare a verificare. Sento l’inquietudine che avevo trovato un anno prima e che mi ha sempre tenuto lontano da questo posto. Decido di tornar su. Prima di salire l’occhio mi scappa su un mobile sulla parete destra del corridoio. Non mi ricordo di averlo visto l’altra volta. Lo noto perché ha una tinta verde smeraldo, una serie di tre cassetti lunghi. Sembra sia stato tolto da una vecchia cucina. Chissà, magari qui serviva per tenervi i medicinali.

Non ha un dito di polvere. La porta si chiude. L’ascensore ci pensa un attimo poi prende lo slancio per la breve salita. Mi rimane impressa l’immagine di quello strano mobile. Ho come un presentimento. Devo tornare giù, ma non oggi. Non vorrei che un’assenza eccessivamente prolungata destasse qualche sospetto. Ci andrò un altro giorno, magari con Beatrice. Per oggi l’esplorazione può bastare.

Sabato 12 luglio 2008

È tutto il giorno che me ne sto a letto. Sono riuscito ad alzarmi da solo a far pipì un paio di volte, ma fa ancora troppo male. A parte il dottore non è venuto più nessuno. Forse Giancarlo ha sparso la voce che sono di cattivo umore e che non voglio compagnia. Sono rimasto solo con il mio dolore. Il fatto è che il mal di schiena mi ha fatto dimenticare completamente la menomazione. Questa non ha mai cessato di farsi sentire nel corso di tutti questi anni: ho sempre provato un solletico fastidioso che, quando cambia il tempo, si trasforma in fitte più che fastidiose. Ora invece c’è il colpo della strega che tiene banco: prima ho appoggiato tutto il peso sul braccio destro per alzarmi, per poco non finivo ribaltato per terra. È sera. Sono stanco di televisione, è da ore che la guardo. Una giornata buttata nel cesso. Con tutte le cose che devi fare, eh, agente Giovanni Franti?

Venerdì 22 luglio 1997

“Agente Giovanni Franti.” Il sentir pronunciare il mio nome mi desta da uno stato di sonnolenza in cui sono caduto pochi minuti dopo l’inizio della cerimonia. Il direttore è soporifero a dir poco. Ora presumo che mi debba alzare e andare a ricevere la medaglia. E magari fare un discorso, e chi l’ha preparato il discorso, non ci ho proprio pensato. Senza che me ne renda conto, mi trovo davanti al pubblico di cui un istante prima facevo parte. Il direttore mi guarda con un filo di preoccupazione. Sembra dirmi con gli occhi “porca puttana, fai il tuo dannato discorso, che figura ci faccio a premiare un rincoglionito senza mano e in età di pensione che non sa dir niente?”. “Ecco…” Bene, dico due cazzate, così lo faccio contento. “Io…” Accidenti, sono imbarazzato. Questo non l’avevo previsto. Il direttore strabuzza gli occhi. “Grazie.” Torno alla mia sedia ignorando tutti. Luigi accanto a me sta per scoppiare. “Bel discorso, capo.” “Ti ci metti anche tu?” “No, è che mi aspettavo un fiume di parole da te.” “Falla finita.”

Per fortuna la cerimonia ha breve durata. Dopo di me vengono premiati i componenti della mia squadra insieme ad altri due agenti. Una medaglia per aver portato a casa la pelle. Per conto mio hanno fatto solo il loro dovere. Guardo la mia medaglia. E che me ne faccio? La metterò in un cassetto e la dimenticherò. Ora voglio solo andare in pensione e non pensare più a niente. “Andiamo a farci una bevuta?” “Come?” “Sì. Un brindisi a noi. Naturalmente paghi tu.” “Ma non possiamo.” “E via, fa’ uno strappo alla regola ogni tanto.” Ma sì. Dopo un istante siamo al bar dall’altra parte della strada. “Un… Cosa prendi?” “E che ne so. Quello che prendi tu.” “Allora un Jack Daniel’s per me e per il mio capo.” “Fermo, che fai? Vuoi che mi ubriachi in servizio?” “Allora che vuoi?” “Ehm… Un bicchiere di frizzantino.” “L’hai sentito il vecchietto? Un frizzantino per lui. E anche per me.” Luigi strizza l’occhio alla barista che diventa rossa e se la ride sotto i baffi. L’alcol mi mette di buonumore. Intanto il tempo a e mi dimentico di essere al lavoro. Il bar ha un arredamento un po’ antiquato, ma è pulito ed è frequentato da gente giovane.

Un vecchio brano di Phil Collins fa da sottofondo musicale. Un lento. Ricordi i nostri primi incontri, Marta? Senza che me ne accorga mi trovo proiettato in un mondo di fantasia, rivedo davanti a me la mia gioventù, i momenti felici, spensierati. Mi sento leggero, vorrei rimanere in questo bar per il resto della mia vita. “Ehi, sei dei nostri? Lo sapevo che non ti dovevo far bere. Sembri inebetito, che guardi?” “Ah, niente. È che mi sto rilassando.” “Adesso è meglio che rientriamo.” “Accidenti…” “A cosa?” “A te, maledizione.” “Che ti ho fatto?” Mi hai reso felice per dieci minuti, caro amico. Sei un’iniezione di vita per me. Ma non te lo dirò mai, lo so come sono fatto. “Mi fai perdere tempo, con tutto quello che ho da fare.” “Stai sorridendo. Ehi, guardate tutti, il mio capo sta sorridendo!” “Smettila, sciocco.” “Sciocco. Come sei sboccato, non ti riconosco. Che ti è successo?” “Andiamo. Per oggi si è festeggiato abbastanza.” “Se lo dici tu. Oggi non ho proprio voglia di far niente.” Neanche io. Stiamo ancora un poco, dai, Luigi. “Comunque la grana la tiri fuori tu.”

Dai, Gianni, offri un bis, stai un altro minuto qui dentro, non uscire da questo bar subito. “Un altro giro.” Ho parlato io così alla barista? Non ci credo. Luigi mi guarda esterrefatto. “Giovanni Franti che offre un altro giro? Questa è epocale.”

Venerdì 17 agosto 1984

In tutto questo tempo non sono riusciti a capire cosa abbia mia moglie. Lei sta sempre meglio, si è messa in piedi e continua a eggiare per la corsia. Ormai conosce quasi tutti gli occupanti delle camere, si annoia a morte. Non vede l’ora di tornare a casa. Massimo si è messo a parlare con me, non tanto ma c’è stato un piccolo progresso. Lella continua a guardarmi strano. Una sera siamo stati a cena dai Magri; un paio di volte ci hanno accompagnato da Marta. Sono gentili e premurosi, forse un po’ troppo. La mano continua a dolermi. L’altra notte l’ho ata in bianco. Forse oggi il dottore ci dà l’esito degli ultimi esami. Forse la dimettono. Io lo spero. Ora è dolce con me, da quando è in ospedale si è completamente trasformata nei miei confronti. Da una parte sono felice, dall’altra un tale repentino mutamento mi preoccupa. Non è normale, nella normalità dovrebbe nutrire ancora rancore nei miei confronti. C'è sotto un imbroglio? Continuo a scervellarmi ma non ci cavo un ragno dal buco. Non sono uno psicologo, io. Come faccio a capire cosa stia succedendo nella sua testa? Fra poco Luigi viene a prendermi. Pare che Barbara sia tornata e che tutto si sia appianato tra di loro. Meglio così. Ora mi serve lucido, perché io non credo di esserlo tanto. È tutto talmente assurdo, mi sembra di vivere un sogno. Solo il dolore all’altezza del polso destro mi mantiene ancorato alla realtà. A volte è veramente difficile da sopportare, ci sono momenti in cui mi sembra di impazzire. Poi a e sono di nuovo io, presente a me stesso più di prima. Ecco che è arrivato. In macchina c’è anche Barbara. Tra poco conosceremo il responso del medico. Chiamo Massimo e Lella, corrono giù dalle scale, non vedono l’ora di vedere la mamma.

“Ciao zio Luigi.” “Ciao Lella. Ciao Max.” “Ciao…” “Come stai Barbara?” “Bene. Ho saputo di tua moglie. Vedrai che non è niente.” “Lo spero.” “Vedrai, socio, stasera Marta è a casa.” “Questo dipende dal dottore. Hanno fatto delle altre analisi.” “Ancora? Ma quante ne ha fatte?” “Tante.” Luigi sospira e ingrana la marcia. Si concentra sulla strada e per un po’ non parla. Barbara gli posa la mano sul braccio. Lella guarda fuori dal finestrino con aria assente, Massimo occupa il posto centrale del sedile posteriore, vicino a me. Guarda avanti, silenzioso anche lui. Sembra che andiamo a fare una gita tutti insieme, solo che manca Marta e la macchina non è la nostra. C’è un po’ di traffico e rimaniamo imbottigliati. Che strano, eppure non sono nemmeno le due del pomeriggio. Le macchine non si muovono di un millimetro. Incomincio a innervosirmi. “Dannazione, Luigi, non potevi prendere la tangenziale?” “E chi lo sapeva che c’era questo ingorgo. Magari c’è stato un incidente.” Pian piano la fila incomincia a muoversi. Un incrocio più avanti scopriamo il motivo: un incidente, aveva ragione il mio socio. Due macchine si sono scontrate in prossimità dell’incrocio. I due proprietari stanno discutendo animatamente. “Ci voleva anche questa. Adesso arriviamo in ritardo.” La mano inizia a dolermi. Stavolta l’antidolorifico lo tengo in tasca. Ma non

voglio prenderlo subito, magari a. Ora non bado alla mia mano, ogni mia preoccupazione è tutta rivolta all’esito delle analisi di Marta. Non so cosa darei per essere già davanti al dottore.

Sabato 11 luglio 2009

Cosa vuoi che succeda, sei qui da solo nel buio, non ti succede niente. Niente che possa preoccupare. Non preoccuparti, adesso accendono la luce e vedrai. Certo che vedrai. Ora non vedi niente perché c’è buio, ma quando accenderanno la luce, ebbene sì che vedrai. Sento dei rumori, che stiano facendo la spesa qui fuori? La spesa, a quest’ora? È un po’ strano fare la spesa in mezzo alla notte. Luigi. Luigi, non mi dice niente. Chi è Luigi? Forse lo conosco? Perché questo nome che mi gira per la testa? Ma adesso è meglio dormire. Domani si lavora. Sono in missione, devo essere al pieno delle forze.

Venerdì 3 luglio 2009

Mentre ritorno alla mia stanza rivedo la cassettiera verde. Che ci fa là sotto? Di chi sarà stata? Mentre fantastico sulla provenienza del mobile non mi accorgo di aver superato l’ingresso della mia stanza. Sono due numeri più avanti. Torno indietro. Mi accorgo che non so che fare. La pancia brontola: mi sa che sta arrivando mezzogiorno. Ormai non mi serve l’orologio qui dentro per sapere che ora è. La televisione resta spenta: non voglio altre sorprese. Ma non ho alcuna intenzione di rimanere qui dentro, piuttosto vado dritto alla mensa e aspetto. Quanto tempo perso, accidenti! Per colpa di quella dannata sala multimediale chiusa. Non c’è nessuno, come previsto. Vado a sedermi al mio tavolo. Lo stomaco ormai brontola da un po’. Mangerei un bue, giuro. Lentamente inizia ad arrivare qualcuno. Bene, fra poco si mangia, non vedo l’ora. Fuori il tempo volge al peggio. Meglio: così rinfresca un po’. Le luci al neon si accendono. Fuori si è alzato il vento, squassa i rami degli alberi. Lo dicevano che il tempo cambiava, ma così rapidamente non me lo sarei aspettato. Gli ospiti non badano alla tormenta che sta scoppiando fuori, nessuno guarda verso le finestre. Attendono pazientemente il pranzo, come fanno sempre. Tuoni e lampi e vortici d’aria. Incomincio a preoccuparmi: magari si rompe una vetrata, può essere pericoloso. “Tutto bene, Gianni?” “Eh?”

“Fa un caldo cane, oggi. Avevano detto che pioveva, invece…” Metto a fuoco chi mi parla. È Massimo della mensa. Guardo fuori: il sole spacca le pietre. Le luci al neon della sala sono sempre state spente. Ancora. Che mi succede? Un moto di panico mi assale. No, non è possibile. Io non sono come quelli del piano di sopra, non ho niente, per dio! E allora come ti spieghi le visioni, come giustifichi il fatto che la memoria mano a mano se ne va? C’è un problema al livello della testa, un malfunzionamento del cervello, anche uno sciocco lo capirebbe, Giovanni. No, è solo stanchezza, vedrai che a tutto. E poi in ato non mi è mai capitato niente del genere. Ne sei sicuro? Non sono più sicuro di niente, dannazione! “Sì, tutto bene… Stavo pensando.” “Non pensi troppo, Gianni.” Massimo mi fa un sorriso, poi se ne torna in cucina. È proprio un bravo ragazzo. Ce lo vedo bene con Beatrice, farebbero una bella coppia. Il mio sguardo torna alla vetrata: il cielo è blu e senza una nuvola.

Sabato 12 luglio 2008

Magari piovesse come ieri sera, ne avrei proprio bisogno. Mi sembra di stare in questo letto da un’eternità. Non lo sopporto più, ma non ho alternativa. Pioggia, cadi, cadi anche stanotte, te ne prego. Niente. Stavolta non funziona, mi concentro ma non serve a nulla: là fuori nemmeno una goccia. La schiena dolorante m’impedisce di chiudere occhio. Non è venuto nemmeno Massimo a vedere cosa mi è successo, eppure lo avranno avvertito del mio incidente. Sarebbe bastato chiamarlo. Ma non me la sono sentita, e poi che viene a fare? Me la so cavare da solo, sono grande e vaccinato, no? Stanotte è tornata l’afa. Mi hanno l’aria condizionata, non mi piace. Ma non intendo alzarmi ora per disattivarla, figuriamoci, non voglio vedere le stelle ancora una volta. Per stanotte i. Sento il ronzio del motore, l’aria fresca che lambisce il mio corpo. È un’aria diversa da quella di ieri notte: questa sa di disinfettante. Ho l’impressione di stare dentro un macchinario, chiuso in una scatola isolata dal resto del mondo. Perché non cadi, pioggia? Almeno sentirei un rumore proveniente dall’esterno, mi farebbe sentire meno malato, meno solo, più vicino alle persone che vivono ancora in città, nelle proprie case. Ma non piove. È meglio che dormi, Giovanni Franti. Spera in un mattino migliore.

Venerdì 22 luglio 1997

Che giornata, quante scartoffie da sistemare. Eppure è volata, forse perché ero un po’ brillo. Sono davvero stanco. Tornare in prima linea è stato una scossa che mi ha riattivato dopo anni dietro una scrivania, ma la mancanza di allenamento si è fatta sentire. Il vecchietto senza mano ha catturato Solana. Non è cosa da poco. Per la prima volta mi accorgo della portata della nostra impresa: mi sento come qualcuno che abbia fatto un enorme favore all’umanità, togliendo di mezzo un trafficante assassino figlio di puttana. Allora sono ancora capace di fare il mio mestiere, allora sono ancora utile. In questo momento ho voglia di stracciare la mia domanda di pensionamento. In fondo ancora qualche annetto me lo potrei fare: fisicamente sto abbastanza bene, basta tenersi un minimo in esercizio. Poi ho sempre dalla mia un collega come Luigi di cui potermi fidare ciecamente. Chi me lo fa fare di andare in pensione? Posso tenere botta ancora per un po’. Continuo a fissare il muro. No, forse è meglio ritirarsi, mi sto illudendo, in realtà la squadra se la sarebbe cavata comunque senza di me. Io non ho fatto assolutamente nulla, sono i ragazzi che si meritano gli onori. Che cavolo ci faccio ancora seduto? A un certo punto mi sento come uno stupido adolescente che fantastica. Meglio andare dentro. Mi aspetta il brodino da scaldare, un film alla televisione e poi? E poi la solitudine. No, io non entro in casa, piuttosto me ne vado a fare un giro. Dopo qualche istante sto camminando per la città, senza una meta. Una parte di

me dice “che cavolo stai facendo?”. Ma non le do retta e proseguo, tra le luci della sera. Ho fame: decido di prendere un gelato. La gelateria Arcimboldi è a due isolati da dove mi trovo ora. Ci andavo sempre insieme a Marta e ai ragazzi. Accidenti, che errore che ho fatto a uscire. Adesso mi viene la nostalgia, e poi so cosa succede quando ho i brutti pensieri. Comunque ho fame: un gelato lo prendo. Meglio del brodino: perché mai in piena estate si deve cenare con un brodo caldo? È da quando è morta mia moglie che mi è venuta questa fissazione. La città è piena di persone che fanno l’aperitivo e che si preparano a una serata di divertimento. Arrivo e ordino un cono. Sono un po’ impacciato nell’operazione di estrarre le monete. La ragazza davanti a me sorride impaziente. Il gelato è abbondante: è la mia cena, quindi non ho badato a spese. Con il mio cono in mano inizio a camminare. Fa caldo, solo un filo d’aria lo rende sopportabile. È da una vita che non faccio una eggiata serale in centro, saranno anni. Non mi piace girare senza compagnia; allora portavo Marta a braccetto, aveva un senso. Fatto sta che ora mi trovo qui, tanto vale sgranchirmi un po’. La gente brulica per le strade. Sono festosi, spensierati. Li guardo in faccia e mi chiedo come facciano. Possibile non vi sia alcun indizio di un dramma nelle loro espressioni? Non è mai accaduto niente a loro? Provo invidia nei loro confronti. Voglio anch’io una vita normale, voglio anch’io are i giorni sperando solamente che arrivi il fine settimana per uscire con gli amici e fare una bevuta. D’un tratto mi accorgo che il gelato sta colando. Faccio in tempo ad allontanarlo

per evitare di sporcare le braghe. Inizio a mangiarlo. È buono. La famiglia Arcimboldi ha sempre fatto il gelato migliore della città. Mi dirigo verso la piazza del duomo. Mi è sempre piaciuto vedere la sua facciata illuminata. Quando sono in piazza ormai sto sgranocchiando l’ultimo pezzo di cialda. Ho la mano attaccaticcia: vado a sciacquarla alla fontanella sotto il portico. Poi mi metto ad ammirare la facciata della chiesa. Ha una forma semplice, pare disegnata da un bambino. Forse è per questo che mi è sempre piaciuta: la semplicità ne mette in risalto le dimensioni imponenti. Me la immagino staccarsi improvvisamente dal corpo della chiesa e cadere sulla piazza con un tonfo tremendo. Un brivido mi percorre la schiena al solo pensiero che ciò possa accadere. Mi siedo su una panchina. Sento della musica provenire da un bar vicino, il brusio dei clienti seduti ai tavolini che conversano vivacemente. A che serve fare tanto rumore? Non possono parlare piano? Sono forse tutti sordi? Ogni tanto arriva anche qualche risata sguaiata. Innervosito, mi alzo e mi dirigo altrove. Mi addentro nelle vie, le persone sono ovunque. Provo un crescente disagio, mi sento fuori luogo, ho l’impressione che tutti mi stiano guardando e giudicando. Che ci fa quel vecchio da solo in giro? Alla sua età non dovrebbe starsene a casa? Guarda che faccia che ha, sembra un cane bastonato. E poi, che impressione, gli manca una mano! Decido di tornare a casa. Ci metto circa mezz’ora abbondante: nell’intento di schivare l’umanità allungo la strada. Non penso a niente, voglio solo raggiungere il mio letto.

Lunedì 20 agosto 1984

Non ho creduto a nessuna delle parole che mi ha detto il dottore. Avrei voluto spaccargli la testa, dirgli “ma come si permette, come fa a sparare certe stupidaggini, ha fatto solo qualche analisi, come fa a essere così sicuro, non si vergogna a spaventare la gente in questo modo?”. Marta è tornata a casa, per ora non c’è più niente da fare in ospedale. Luigi ci ha accompagnato, con lui c’era Barbara: pare abbia preso a cuore il caso di mia moglie. Anche oggi è venuta da noi, ha detto che è pronta a darle una mano con i lavori di casa, intanto che si rimette. La signora Magri ci ha portato una torta di mele, quando le ho aperto aveva gli occhi arrossati, segno di un recente pianto. Ma perché? Per quale motivo? Mia moglie deve solo riposare un po’, poi starà meglio. Il mio moncherino continua a rivendicare la mano persa, in questi giorni più del solito. Ho quasi finito la scatola dell’antidolorifico, oggi ne ho assunta doppia dose, non ne potevo più. Ho cercato una nuova domestica a tempo pieno per aiutarci; quella che avevamo, Maria, non può tutto il giorno. È affidabile, ho fatto una scrupolosa ricerca prima di sceglierla. Comincerà domani, spero che i ragazzi l’accettino. Mi dispiace per Barbara, ma così ho deciso. Può sempre venire a farle compagnia. Bisogna sentire il parere di un altro medico, il più presto possibile. Non mi arrendo, non ora. Non mi sono mai arreso, figuriamoci se lo faccio adesso. Ho paura, per la prima volta ho davvero paura. Nemmeno quando ho deciso di farmi tagliare la mano ne ho avuta così tanta. Ho paura di perderti, amore, non lo sopporterei, non riuscirei a sopravvivere. Forse c’è una persona che può aiutarci.

“Pronto.”

“Pronto? È il dottor Spiller?” “Sì. Con chi parlo?” “Sono Giovanni Franti. Si ricorda di me?” “Franti… Ma sì. Come sta? La sua famiglia?” “È mia moglie. Non sta bene.” “Le fisso un appuntamento subito. Va bene mercoledì alle undici?” “Sì… Certo.” Come? Non vuole nemmeno sapere cos’ha? “Allora siamo lì alle undici.” “Undici di sera.” Cosa? “Pronto, Franti, è ancora lì?” “Sì… Allora alle undici di sera.” “Arrivederci, signor Franti.” “Grazie.”

Domenica 12 luglio 2009

“Qualcuno mi aiuti!” “Che succede, Beatrice?” “Non si sveglia!” “Calma, Bea, chi non si sveglia?” “Giovanni!” “Giovanni chi?” “Giovanni! Giovanni Franti!” “Chiama il dottore, vai.” “È morto! Gianni è morto!” “Allora, mi hai sentito? Vai a chiamare il dottore, subito! E datti una calmata.”

Venerdì 3 luglio 2009

Finisco di mangiare in fretta. Mando giù tutto, senza gustare. Voglio andarmene, ho il terrore di avere un’altra allucinazione. Non va bene, non va per niente bene. Andare dal dottore? Neanche per sogno, ma siamo matti? erà, è solo stress, dannazione, erà. eggio un po’, così mi va il sangue al cervello. Il pesce, il pesce, il pesce. Me lo ripeto fino alla nausea, per mantenermi concentrato sull’indagine. Lo faccio anche per distrarmi, per non pensare a quello che continuo a vedere e sentire. Sei ancora normale, Giovanni Franti, non hai perso la tua lucidità. Porta pazienza fino a domani: andrai alla sala multimediale, ti siederai al tuo computer e tornerai a essere l’uomo di un tempo. Almeno lo spero. Mi aggrappo a ogni cosa pur di dimostrare a me stesso che non sono malato. Mi ricordo una volta, chissà quanto tempo è ato, eravamo Marta e io, soli, in mezzo alla campagna. Si era ragazzi, allora facevamo spesso l’amore all’aperto. Ma che c’entra adesso? E cosa vai a dire in giro quello che facevamo in privato! Marta, fammi raccontare, per piacere. Insomma, a un certo punto mi sono accorto che dietro un cespuglio c’era un uomo. Sembrava non sapesse dove si trovasse. Aveva su per giù sessant’anni. Quando mi vide mi fece un sorriso, come un bambino. “Che facciamo, Gianni?” “Non lo so. Ma non possiamo lasciarlo qui.” Il vecchio era vestito solo con una canottiera. Niente braghe, niente mutande.

Avrò avuto diciotto anni, non tanti di più. Non sapevo proprio che fare. Eravamo in bicicletta, non potevamo portarlo con noi. Lo osservai: era come se gli occhi vedessero qualcos’altro, si muovevano in continuazione, seguivano chissà quali fantasmi. “Signore, signore. Mi sente?” Lo scossi un poco, ma era inutile: era come fosse in un mondo parallelo. “Per fortuna che lo avete trovato.” Ci girammo. C’era una giovane donna, un po’ sovrappeso. “Papà ogni tanto scappa. Meno male. Adesso fa’ il bravo, papà. Vieni con me che torniamo a casa.” La figlia prese il padre per mano e lo fece uscire dal cespuglio. Poi gli fece indossare un paio di braghe che teneva piegate sul braccio. Si diressero verso una cascina vicina. Mentre si allontanavano il vecchio salutava chissà chi, ora da una parte ora dall’altra, come se stesse attraversando una folla di amici. Forse quell’incontro non era stato casuale. Forse era una premonizione di quanto sarebbe successo a me. Basta. Smettila di fantasticare. Il punto è che me lo ricordo bene quel fatto, dopo tutti questi anni e nonostante la mia carenza di memoria. Come se fosse successo ieri. Raggiungo la mia stanza e vado davanti allo specchio del bagno. Scruto all’interno dei miei occhi: non c’è niente di strano, non sono come gli occhi di quel vecchio. Perché sorrido? Perché sorrido come un bambino? E togliti dalla faccia quel sorriso da ebete! Di scatto apro il rubinetto e mi sciacquo la faccia.

È il caldo. Oggi fa proprio caldo, chiunque uscirebbe di testa con questa temperatura. Non regge, Gianni. E lo sai benissimo: dentro il residence c’è l’aria condizionata in ogni ambiente. Il pesce, concentrati sulla teoria dello yacht. Telefona a Luigi, sentirlo ti farebbe bene, digli della tua teoria, anche se ti sembra ridicola. Raggiungo il cellulare. Per l’ennesima volta desisto.

Domenica 13 luglio 2008

Sto decisamente meglio. Stamattina mi sono svegliato presto, non ne potevo più di stare sul materasso. La schiena è ancora indolenzita, ma ha fatto un notevole progresso rispetto a ieri. Il cellulare trilla. Chi mi chiama a quest’ora? “Luigi?” “Sì, caro.” “Cosa è successo?” “Che cosa è successo a te.” “Chi te l’ha detto?” “L’uccellino.” Chi gliel’ha detto? Non riesco ad arrivarci. Guardo l’orologio: sono le sei e mezza. Fuori dalla finestra tutto sembra sospeso in un’atmosfera irreale, il silenzio è rotto solo dal cinguettio degli uccellini, per l’appunto. “Ti rendi conto di che ora è?” “Lo so. Non riuscivo a dormire. Allora? La schiena?” “Meglio. È stato il dottore a chiamarti?” “Sì… Gli ho dato il mio numero. Sai, se ti si rompe un femore e Massimo è da qualche altra parte…” “Allora il dottore non ha trovato Massimo al telefono.” “Lo ha chiamato diverse volte ma non rispondeva nessuno. Anch’io l’ho chiamato.”

Dove è finito, accidenti? “Sarà andato a are il fine settimana da qualche parte con la sua mogliettina. Magari si è dimenticato il cellulare a casa.” Impossibile. Il cellulare è per Massimo un prolungamento del proprio corpo. “Sta’ tranquillo, Gianni. Vedrai che ti chiama.” Lo spero. Dove diavolo è andato? Ecco quanto gli importa di me. Se ne va lui, si fa i suoi comodi intanto che io sto male. “Appena trovo un buco vengo a trovarti.” “Sì.” La linea cade, poi il mio cellulare muore: è finita la batteria. E adesso dov’è il cavetto di alimentazione? Come minimo è rimasto a casa. Sono isolato dal mondo esterno. Ciò che mi angoscia di più è dover chiedere a Massimo la prossima volta che viene se mi va a prendere il cavetto: dovrei mettere sotto i tacchi il mio orgoglio, ammettere implicitamente che ho bisogno di lui. Sempre che venga ancora a trovarmi. Forse qualcuno qui dentro ha il mio stesso cellulare, magari posso chiedere il cavetto in prestito. Ma che dico? Qui dentro non conosco nessuno, cosa faccio, mi metto a chiedere a ogni rimbambito che sta qui dentro se ha un cavo di alimentazione compatibile con il mio cellulare? Ah, eccolo. Era proprio sotto il mio naso. Lo collego e il telefonino si rianima. Adesso lo chiamo io e, se risponde, gliene dico quattro… Ma non sono neanche le sette… Non m’importa, così impara. Compongo il numero. Attendo.

L’utente selezionato è al momento assente. La preghiamo di chiamare più tardi.

Venerdì 22 luglio 1997

Basta. Adesso entro in casa, metto il brodino nel frigorifero e me ne vado a dormire. Mi accorgo che ho ancora meno voglia di prima di chiudermi tra queste pareti. E che faccio? Torno a vagare senza una meta? A malincuore tiro fuori la chiave di tasca e la infilo nella toppa. Rimango fermo per qualche secondo prima di girarla. In questo breve istante sono assalito da un’angoscia insopportabile: ho l’impressione che l’anima mi venga strappata, come se un ferro rovente mi bruciasse il cuore. Raccolgo tutto il coraggio che ho e faccio scattare la serratura. Entro. Buio. Ho una terribile voglia di piangere.

E tu chi sei? Sono la tua mano. La mia mano? Sì, non ti ricordi di me? Sai, mi trovavo in fondo al tuo braccio. Come fa una mano a parlare? E lo chiedi a me? Non mi sono mai accorta di avere una bocca e delle corde vocali. Perfino la lingua mi è spuntata, guarda un po’ qui che roba… Quanti anni ho? Non ho ancora capito. Continui a cambiare età. Deciditi. Perché mi hai abbandonato? Non ti ricordi? Il tuo amico Luigi ha faticato per recidere vasi, muscoli, tendini. Poi è arrivato all’osso. Non ti ricordi quando è arrivato all’osso? Perché sei tornata? Perché faccio parte del tuo corpo. Ho voglia di muovere ancora una volta le mie dita. Poi sparirò per sempre. Dov’è Marta? Marta? Ah, sì. Marta è morta. Questo lo so anch’io. E allora perché mi chiedi dov’è? Perché a volte parlo con lei, come se fosse ancora viva. Magari tu potevi sapere dov'è. È morta.

E allora con chi parlo? Con nessuno. E io? Dove mi trovo adesso? Sei nel tuo presente, nel tuo ato e nel tuo futuro. Ora però basta con le domande. Mostra il tuo polso destro, così mi attacco… Un momento. Che significa “nel tuo presente, nel tuo ato e nel tuo futuro”? Che sei in una bolla spazio-temporale, sciocco. Io voglio uscire di qui. Per andare dove? Da Marta. Allora devi morire. Per piacere, ora, se non ti dispiace… Potresti… Devo morire? Ma io non voglio morire. Allora apri gli occhi. Finché sei in tempo. Ma io ti vedo. Ho gli occhi aperti, per forza. Tu credi. Questo è un incubo. Sì, anche per me. Sei impossibile. Che ti costa allungare il tuo bel moncherino? Faccio in un attimo, poi ti lascio in pace. Tu non ci sei più. Io non ti voglio più. Fai come vuoi. Ma ricordati: hai perso un’occasione per riavermi. Non tornerò. Quanti anni ho? Abbastanza per ricordarti di me. Addio.

Allora te ne vai? Addio, ho detto. No, resta! Adesso devo restare? Non ci penso nemmeno. Addio, allora. Per sempre.

Mercoledì 22 agosto 1984

Ci mette una vita, accidenti. Quando esce da quella maledetta porta? È un’ora che sono su questa poltrona ad aspettare. Guardo l’orologio: è quasi mezzanotte. Certo è un tipo originale, ma pare che sia davvero in gamba. Ecco che la porta si apre. Il dottor Spiller ha un’aria pensierosa. La fronte rugosa è aggrottata, i suoi piccoli occhi azzurri guardano oltre me, come se le parole che ora mi deve dire fossero proiettate sul muro alle mie spalle. “È difficile…” “Difficile cosa, dottore?” “Capire quanto…” “Quanto cosa?” “Quanto tempo.” “Ma non si può trovare un modo per guarirla, dannazione? Sono venuto per niente nel bel mezzo della notte?” Vedo Marta fare capolino dalla stanza delle visite. Ha un’aria impaurita. Lo incalzo. “Allora, Spiller?” “Le posso prescrivere una cura. È una dieta, abbinata a un medicinale. Le scrivo il nome… Ecco. E questo… L’indirizzo dove deve andare per procurarselo. Non è legale, l’avverto.” “Guarirà allora?”

“Guadagnerà un po’ di anni.” “Un po’ di anni? No, non ci capiamo allora, dottore.” Il sangue mi va al cervello, il moncherino mi fa impazzire dal dolore ma non ci bado. “È la prima volta che mi trovo davanti a una situazione del genere. Non posso pronunciarmi più di tanto. Ma è un progresso: sei, sette anni, forse otto. Direi che è un bel o avanti rispetto a qualche mese.” “Mia moglie deve guarire! Ha capito o no?” “Basta, Gianni…” Incrocio il mio sguardo con quello di Marta. È pallidissima ma ha un’espressione determinata. “Seguiamo quello che ci dice. È l’unica cosa da fare, per ora.” “Ma…” “Portami a casa. Voglio riposare.” Un nodo mi stringe la gola. Mi sento impotente, vorrei piangere, urlare. Come è possibile? Il dottor Spiller mi appoggia una mano sulla spalla. “Intanto non bisogna arrendersi. Voglio vedere sua moglie tra, diciamo, due settimane. La medicina depurerà i vasi linfatici. Mi raccomando: la dieta va seguita in modo ferreo.” Ci congediamo dal dottore. Fuori ci attende Luigi. Ci ha dato un aggio e ora si è appisolato in macchina: a lui non è stato concesso di entrare. Solo parenti, ha detto Spiller, chissà perché. “Allora?” “Deve seguire una cura.”

“Una cura?” “Sì.” “Vedrai, starai meglio. Barbara ha detto che domani pomeriggio riesce a essere da te.” “Grazie.” Marta prende posto sul sedile anteriore. Delicatamente bacia Luigi sulla fronte, come fa con i nostri figli. Arriviamo a casa. Senza dir niente Marta esce dalla macchina. Ringrazio Luigi e la seguo. Come un automa si dirige in camera. Poi non si sente più nulla.

Domenica 12 luglio 2009

Giovanni è sdraiato, incosciente. Che dite, ce la farà? Morirà? Massimo sta arrivando a bordo della sua Volvo. Andrà dritto dal dottore, per essere messo al corrente della situazione. C’è poco da sapere: Giovanni non reagisce a nessuno stimolo, come se d’un tratto in lui si fosse staccata la corrente. Sta arrivando anche Luigi, porta delle notizie, le ha strappate a forza dallo struzzo. Ha dovuto quasi tiragli il collo. Luigi sta correndo per le vie della città. Non c’è nessuno per strada, sono ancora tutti a dormire, per fortuna. Viene a dire che Solana e Lella sono nel Residence La Quiete.

Venerdì 3 luglio 2009

Questa storia mi ha stancato. Stancato veramente. Appena torna quel mascalzone gli restituisco la chiavetta. Non ci sono con la testa, figuriamoci se posso aiutarlo in un’indagine. Adesso vado a trovare Pina. Cosa hai detto? Pina? Sì, vado da lei, ho voglia di parlarle. Non lo so, la odio a morte ma ora ho un desiderio irrefrenabile di fare una chiacchierata con lei. Mi metto a cercarla dappertutto, divento impaziente, dove cavolo si sarà cacciata? Ah, ecco. È là con Rosa. Rosa ha preso una cotta per me, è lampante. “Giovanni Franti. Hai chiesto scusa alla ragazzina? Perché se non lo hai fatto mi arrabbio, sai?” “Sì, l’ho fatto.” Che idea geniale. Adesso mi prende per i fondelli. “Oh, mi ha ascoltato! Rosa, hai sentito anche tu? Giovanni Franti che chiede scusa. Un miracolo, non credi?” Rosa si limita a sorridermi dolcemente. “Come mai questa visita?” “Ah, niente. avo di qui…” “avi di qui.” Pina scandisce le tre parole. Poi scoppia in una risata… Accidenti, se ride così le parte la dentiera. “Cara Rosa. Il signor Franti fa la corte a una di noi due.”

“A me, sicuramente.” “Allora Gianni, a chi fai la corte?” “Adesso basta. Mi sembra di essere all’asilo.” Le due donne rimangono ammutolite, non si aspettavano una mia presa di posizione così forte. “Ho bisogno di parlare con Pina, scusa, Rosa.” Rosa si oscura in volto, abbassa gli occhi e fa per andarsene. “No, Rosa, non andare. Stai anche tu…” Pina non riesce a trattenerla. Lentamente la sua amica si allontana. Mentre percorre il corridoio di tanto in tanto si appoggia al corrimano. “E bravo il nostro Giovanni Franti. Non ti smentisci mai, né?” “È che io volevo…” “C’è modo e modo. Forse tu questo non l’hai ancora capito. Non m’interessa quello che hai da dirmi. Adesso vado da Rosa. Non cercare di seguirmi.” Prima ho offeso Beatrice, adesso Pina e Rosa contemporaneamente. Non è una gran giornata per i rapporti con l’altro sesso, mi viene da pensare. Ma che avevo da dire di tanto urgente a Pina? Nemmeno lo so. Forse volevo confessarmi, dirle di mia moglie, dei miei figli, del mio lavoro, delle mie allucinazioni, che ne so. Non le ho mai detto niente di me in tutto questo tempo. Non ho detto mai niente a nessuno di me… Forse con Beatrice mi sono aperto un po'. Mi torna in mente l’insistenza di Giancarlo nel chiedermi che cosa ne sia stato della mia mano. La mia mano… Incomincia a farmi male, non è buon segno. Non lo è mai stato.

Domenica 13 luglio 2008

“Dov’eri?” “Il padre di Luisa è stato male. Ho dimenticato il cellulare a casa.” “Hai dimenticato il cellulare a casa?” “Sì.” “Lo sai che ho avuto un incidente?” “Sì. Come stai?” Mi va il sangue al cervello. Il tono di Massimo mostra assoluta indifferenza. “Non ti ha chiamato il dottore?” “Certo. Ha detto che stavi meglio. Oggi Luisa fa un salto da te. Io non posso.” Perché mai? Ma non glielo chiedo. “Riguardati. Oggi arriva Luisa.” Massimo riattacca. Forse è scocciato perché l’ho chiamato prima delle sette la domenica mattina. Beh, perlomeno oggi vedo Luisa: l’idea di vederla mi addolcisce. Non mi resta che attendere il suo arrivo. Intanto posso riposare ancora un po’: stamattina sono in anticipo sui tempi, la colazione sarà servita tra le sette e mezza e le otto… Apro gli occhi. Mi sono addormentato. La prima persona che vedo è proprio mia nuora. “Buongiorno!”

“Buongiorno…” “Allora? Come sta il mio suocero preferito?” Indossa un vestito verde che le aderisce al corpo. Tiene i capelli sciolti, mi sono sempre piaciuti i suoi capelli. “Che ore sono?” “Quasi le otto.” “Massimo?” “Ah, aveva da sbrigare non so quale faccenda, un cliente, sai, lavoro.” “La domenica? Così presto?” “Sì, non è la prima volta…” Si siede sul bordo del letto e accavalla le gambe di scatto, come per scacciare un pensiero. La gonna inevitabilmente si alza lasciando scoperta buona parte della coscia. “Cosa ha detto il dottore?” “Colpo della strega.” “Colpo della strega?” Pare divertita. “Che ti è saltato in mente di fare? Alla tua età bisogna smettere di fare le capriole!” “Mi sono chinato per prendere una ciabatta.” “Comunque adesso vado a parlargli…” “Oggi è domenica. Non c’è.” “Beh… Fa niente. Comunque ti vedo bene. Hai una bella cera. Vuoi mangiare?”

“Mi sa che tra poco è pronta la colazione.” “Te la faccio portare qui, magari mangio anch’io. Ho preso solo un caffè al volo.” Niente di meglio che fare colazione in camera con una bella donna. Come per incanto non sento più nessun dolore alla schiena. Ma sì, adesso mi al… “Ahi!” “Resta fermo, Gianni. Non devi muoverti, devi stare a riposo. Vado io. Cosa vuoi? Caffellatte? Brioche?” “Sì, va bene…” “Torno in un lampo.” I suoi tacchi martellano sul pavimento mentre esce per andare a cercare qualcuno. È una brava ragazza. Nemmeno le ho chiesto di suo padre. Possibile ci sia solo tu al centro dell’universo, Giovanni Franti? Eccola che torna. “Tuo padre? Massimo mi ha detto che non stava bene.” “Già… Il cuore. Forse devono operarlo.” “Operarlo?” “Sì, ma è un’operazione che dura mezz’ora… Gli allargano l’arteria… Si chiama…” “Angioplastica.” “Ecco, sì. Si chiama così…” “Hai trovato qualcuno per la colazione?” “Sì. Ha detto che non c’è problema se mi mangio anch'io una brioche.

Comunque te l’avrebbero portata in camera.” “Non serve che tu stia.” “Mi fa piacere. Tanto Massimo non c’è per tutta la mattina.” D’un tratto si avvicina a me e appoggia delicatamente la testa sulla mia spalla. Sento che piange. Le accarezzo i capelli. “È per Massimo. Non so più che fare, è intrattabile. Ogni giorno è sempre una discussione… Non so che fare…” Sono spiazzato. Che le dico? Che deve portare pazienza? Che Massimo ha vissuto dei momenti terribili in ato? Per colpa mia, per di più? Inizia a calmarsi. Si rialza e si sforza di sorridere. Il rimmel le cola lungo le guance. “Scusami… Non dovevo… Sono qui per tirarti su, non per raccontarti le mie disgrazie.” “Fa niente. Sfogati quanto vuoi.” “Basta. Vado un momento in bagno. Devo darmi una restaurata.” Ci mette un po’ a risistemare il trucco. Quando esce sembra non sia successo nulla. “Ah, quando arriva la colazione? Ho una fame…” Luisa mi sorride, io le sorrido. “Anch’io ho fame.”

Venerdì 22 luglio 1997

Mi sono guardato un po’ di televisione. Ora sono pronto ad andare a letto. Il gelato non mi ha riempito del tutto: la pancia brontola insistentemente. Apro il frigo: di certo non mi metto a scaldare il brodo. C’è una fetta di formaggio che si nasconde dietro la bottiglia della ata. La prendo e do un morso. Poi mi verso un bicchiere di latte, lo trangugio in un attimo. Me ne vado in camera. Che caldo che fa anche stanotte. Inserisco nella presa il fornello per le zanzare; lentamente la piastrina azzurra si scalda ed emana odore. Secondo le istruzioni si dovrebbe areare il locale prima di soggiornarvi, ma mi corico ugualmente sul letto. Tanto la finestra è spalancata; attraverso di essa si fanno strada i rumori della notte. Domani è sabato. Domani prendo su e me ne vado da qualche parte, che so, in montagna, al lago. Ho bisogno di svagarmi, credo che sfrutterò fino in fondo la mia licenza premio. Che ne dici, amore? Non è una buona idea partire per una vacanza? Lasciamo i figli a casa e andiamo via solo noi due. Perché non dici niente? Sei arrabbiata? Ho capito, hai sonno. Ne riparliamo domattina. Buonanotte, Marta. Mi sa che stai già dormendo, allora non ti disturbo più. Vedrai come ci divertiamo domani… Vedrai…

Giovedì 23 agosto 1984

Sono disteso sul divano e guardo il soffitto. Non c’è niente che possa fare. Mi sento impotente. È una sensazione terribile. Gli occhi mi si chiudono ma la coscienza mi tiene sveglio. Non posso dormire, prima devo trovare una soluzione! Il corpo intanto si lascia andare, mi sento debole, sarà anche l’effetto dell’antidolorifico, unito alle poche ore di sonno. Forse è meglio che dorma; la notte porta consiglio, almeno così si dice. “Sveglia, che fai, dormi?” “Marta?” Rimango impietrito. Marta è davanti a me, in piedi. La intravedo nel buio, sembra un fantasma. Ma non dormiva? “Svegliati, devi salvare Lella.” “Lella? Salvare? Lella è in camera… Cosa dici, amore?” “È stata rapita.” Lo dice con una calma estrema. La sua voce è profonda, quasi non sembra lei a parlare. “Rapita? Ma che dici?” Senza rispondermi lentamente prende la via delle scale e torna in camera, lasciandomi agghiacciato. Non avrei mai creduto che mia moglie potesse soffrire di sonnambulismo. Sarà lo stress, sarà tutto questo casino, sarà per via della visita notturna dal dottor Spiller. La casa torna nel silenzio più assoluto. Mi aspetto che Marta torni giù e si metta a parlare nuovamente di cose senza senso. Per fortuna se ne rimane in camera; non ho nemmeno il coraggio di andare a vedere se sia veramente tornata a letto.

ano i minuti, le ore. Ormai sarà dura che mi addormenti prima dell’alba. Tra l’altro la mano destra non smette di bruciare. Continuano a scorrere nella mia mente le parole di Marta: che vuol dire? Forse il suo inconscio teme che nostra figlia possa correre qualche pericolo? Fuori un uccellino inizia a cinguettare. Poi un altro. Un nuovo giorno sta per arrivare senza che io possa aver chiuso occhio. Premo la fronte contro lo schienale del divano e stringo le palpebre esasperato. Potessi dormire almeno un’ora.

Domenica 12 luglio 2009

“Dov’è Giovanni Franti?” “Lei chi è? Ah, il suo amico.” “Dov’è? Devo parlargli subito.” “Credo non sia possibile…” “Perché mai?” “Non sta bene. Ha perso i sensi.” “E cosa aspettate a svegliarlo?” “Non lo so… Deve parlare col dottore…” “Dov’è il dottore?” “È in ambulatorio. Il signor Franti lo teniamo là, intanto che arriva l’ambulanza.” “Ecco, dovete portarlo via di qui, e subito.” “Sì, certo. Appena arriva l’ambulanza.” “E quando arriva questa maledetta ambulanza?” “Tra poco… Non so…” “Nessuno sa niente in questo posto di merda!” “Se ne stia calmo se no chiamo la sicurezza.” “La chiami pure la sicurezza!” “Che succede?”

“Ah, signora Tiraboschi…” “Signorina. C’è qualche problema?” “Il signore è qui per Giovanni Franti.” “È in pericolo. Tutti sono in pericolo.” “Ma che dice?” “Devo andare da lui.” “Cosa vuol dire che tutti sono in pericolo?” “Chiamo la polizia, signorina?” “La prego. Mi porti da lui, per piacere.” “Non sta bene. Non può parlarle… Forse non gli resta molto.” “La prego…” “D’accordo. Mi segua. Ma si comporti in modo civile, se no la faccio sbattere fuori.”

Venerdì 3 luglio 2009

Finalmente sono davanti a un computer. Inserisco la chiavetta e il file Solana si apre. Il computer? Come ho fatto a procurarmene uno? Ma Beatrice, naturalmente. Mi ha anche dato il filo di alimentazione, così stanotte posso starmene bello tranquillo in camera a farmi i miei comodi. A un certo punto mi stufo. Non riesco a cavare un ragno dal buco. Decido di connettermi: ovviamente questo super ospizio permette un collegamento Internet Wi-Fi. Traffico un po’ col macinino fino a che riesco a stabilire la connessione. Filmati pubblicitari si aprono in continuazione, riesco a chiuderli tutti non senza un po’ di fatica. Quante stupidate. Mi viene voglia di chiudere tutto e di andare a nanna. Poi, di punto in bianco, mi torna alla memoria un oggetto. La pallottola che tengo nel portafoglio. Credevo fosse un messaggio di minaccia, ma è ato talmente tanto tempo che ormai non credo succeda più niente… La tiro fuori e la osservo alla luce dello schermo. Chissà chi avrà ucciso... Ormai è tutta arrugginita; in tutti questi anni potevo gettarla, ma non l’ho mai fatto. Risale alla prima guerra mondiale, mi è stato detto. Era dentro il bauletto della Vespa di Massimo, adesso ricordo. Ricordo la chiave, l’uomo misterioso, il successivo ritrovamento di ciò che ho in mano. Possibile che ci sia una mente così malata? Forse magari è solo suggestione. Ma la chiave apriva quel bauletto, accidenti. E perché questo individuo ha poi cessato di farmi trovare altri oggetti? A rigor di logica il successivo sarebbe dovuto essere un fucile della Grande Guerra, ma evidentemente il tizio si è dimenticato, oppure è andato all’altro mondo, ipotesi per la quale propendo maggiormente.

Vado a ricercare “pallottole fucili prima guerra mondiale”. Dopo una breve ricerca eccolo lì. Ingrandisco la foto: è proprio lui, solo che quello sullo schermo è meglio conservato. Dopo poco ho trovato anche l’arma: un fucile, il Moschetto ’91. Ingrandisco anche questo e lo osservo: certo andare in guerra con una ferraglia del genere non deve essere stato facile per i nostri soldati. Sento dei rumori. Chi è a quest’ora? Esco dalla pagina Internet, poi rimango in attesa. No, niente, l’ho solo immaginato. Ritorno alla mia indagine… Come mai non trovo più la pagina? Questa è bella… Dopo qualche tentativo mi stufo. Cancello i dati dalla cronologia e spengo il computer. Dov’è finito il proiettile? Ce l’avevo in mano un minuto fa… Accidenti. Sotto il letto, forse. Dov’è? Possibile che perda tutto? Ah, eccolo: è accanto alla tastiera. Dove può nascondersi un fucile? Sì, un vecchio fucile arrugginito, dove può trovarsi in questo ospizio? Perché mi viene da pensare a una sciocchezza del genere? Forse perché sono alla fine della mia vita e suppongo che i tempi siano ormai maturi perché venga allo scoperto l’oggetto mancante di questa assurda caccia al tesoro. È meglio andare a dormire. Come al solito sto pensando a una stupidaggine dopo l’altra. Un fucile… Se lo trovassi proprio qui… Sarebbe forte…

Domenica 13 luglio 2008

Luisa è stata con me per circa un’ora e poi se ne è andata. Non ha più voluto dirmi niente dopo lo sfogo: è come se col trucco avesse risistemato l’intera faccenda. Io poi non ho detto nulla, neppure ho fatto un tentativo per farla parlare, per aver più chiara la situazione. Alla fine ha preso su la borsetta, mi ha dato un bacio sulla guancia e se ne è andata ancheggiando. Che posso fare io per loro? Forse devo parlare con mio figlio, convincerlo a trattarla bene, che ne so? Ho assolutamente bisogno di una consulenza. Ho bisogno di una persona con esperienza, uno psicologo, magari. Potrei chiamare Massimo e parlargli. Sì, e cosa gli dico? Oppure aspetto che i a trovarmi, così intanto ci medito su. Sono proprio incastrato, stavolta. Proprio a me tocca fare da paciere. Sono di nuovo solo. La schiena fa sempre male e non mi arrischio a muovermi. Chiudo per un istante gli occhi. “Ehi, sei già morto?” Li apro e davanti c’è Pina. “No… Non ancora. Ti farebbe piacere?” “Ma non si può dir niente con te. Chi era la sventola?” “Quale… Ah, sì, mia nuora.” “L’ho vista uscire un minuto fa. Cosa le hai fatto?” “Perché?” “Aveva un’aria così triste…”

“Cosa le avrei dovuto fare… Ah!” “Ti conviene stare fermo. Ho sentito del tuo incidente.” Maledizione, io questa l’ammazzo. “Non ho avuto nessun incidente.” “Allora perché sei bloccato a letto?” “Un problema alla schiena.” “Già. Questo l’ho capito… Allora, cosa le hai fatto?” “A chi?” “Alla sventola.” “Niente, io. È mio figlio.” Zitto, Giovanni. Che diavolo fai? “La tratta male, vero?” Questa qui mi legge nel pensiero. “Sì.” “Dagli una strigliata a tuo figlio, che aspetti?” “Non ci parliamo molto…” “Cosa vuol dire? Hai paura di sgridare il tuo bambino?” “Non è più… Ma che, sono forse affari tuoi?” “No di certo. Adesso me ne vado…” “No, aspetta… Cosa gli…” “Cosa gli puoi dire?”

Che disastro che sono. Che figura che sto facendo. “Che tu non hai mai trattato tua moglie così.” “Beh…” “Beh? Vuol dire che anche tu ti comportavi male con tua moglie? Allora arrangiati. Non voglio sentire più una parola sull’argomento.” “No, io non…” “Tutti uguali gli uomini. Ti saluto.” “Aspetta… Ah!” Ennesima fitta alla schiena. Ho fatto per alzarmi dal materasso per trattenerla e ho visto le stelle. Di nuovo solo. Rifletto su ciò che mi ha detto Pina: in effetti io non ricordo di aver mai alzato le mani o la voce con Marta… Forse la voce sì, ma si trattava di normali litigi. Come un flash mi sovviene il ricordo di quei giorni terribili successivi al mio ritorno senza mano. Me li ricordo perfettamente, ora. Per anni li ho rimossi dalla memoria: le notti sul divano, l’odio di Massimo nei miei confronti, la paura di Lella, lo sfinimento di Marta. Forse si è ammalata per causa mia, magari sono stato io, con il mio comportamento, a portarla alla morte. Basta. È inutile rivangare il ato, mi dico nel vano tentativo di non pensarci più. Ma è inutile: pian piano iniziano a riaffiorare alla memoria le mie continue e prolungate assenze per lavoro, le mie missioni, i rischi che correvo, incurante di ciò che i miei familiari potessero provare. Accidenti a te, Pina. Perché ti ho parlato del mio problema? E poi, come fai a sapere che mia moglie è morta? Al colmo della disperazione prendo in mano il cellulare. La linea è libera: Massimo ha il suo. Tra un istante risponde. Che gli dico?

“Pronto, papà?” “Ciao…” “Come stai? È venuta Luisa?” “Sì. È stata qui… Senti…” “Cosa?” “Devo dirti…” “Cosa, papà?” “Che devi…” “Devo fare cosa?” Accidenti. Non trovo le parole. “Allora, papà?” “Niente.” “Allora se non ti dispiace devo finire di sbrigare una faccenda. Giovedì ti vengo a trovare.” “Fai gli straordinari?” “Sì. Faccio gli straordinari.” “Di domenica?” “Sì, di domenica. Prendi le medicine e ascolta quello che ti dice il dottore. Io o giovedì.” “Va bene.” “Ciao.” “Ciao.”

La comunicazione s’interrompe. Accidenti. Ho paura di mio figlio. Come è possibile? Ma che, sei scimunito? Appena mi capita a tiro lo sistemo io, l’avvocato.

Domenica 12 luglio 2009

Dove sono? Ho dormito? Mi ritrovo sdraiato su un letto, ma non è la mia stanza. Sono debole, debolissimo. Dove sono tutti? Perché non c’è nessuno? Tento di muovermi. Che succede? Non riesco ad alzare un dito. La testa mi sta scoppiando. Il polso destro mi brucia. Sta entrando qualcuno. Chi è? Indossa una tuta blu. Ha una cicatrice sul volto. È insieme ad altre persone. “Buongiorno capitano. Ne è ato di tempo.” Chi diavolo è? Che intende fare? “Allora, sei pronto?” “Pronto?” “Sì, pronto. Per la mia vendetta.” “Vendetta?” Quale vendetta? È uno squilibrato questo qui… Un momento. Solana Rodriguez. È lui. È un’altra allucinazione allora. Me lo sto immaginando, non esiste, come l’altro giorno. Tra poco sparisce con tutti gli altri. Ecco, sta sparendo. No, è ancora davanti a me. Giancarlo, Giancarlo, dove sei? “Giancarlo? Chi è? Sì, chiamalo, capitano, che sistemo anche lui.” Non è vero, non è reale… Adesso che mi fanno? Mi stanno caricando su una sedia a rotelle, non voglio! Che fate?

“Andiamo giù all’inferno, capitano. All’inferno.” Uno di loro mi lega alla sedia a rotelle. Non riesco a opporre alcuna resistenza. Ho una paura tremenda. Mi vuole uccidere, non c’è dubbio. Solana vuole togliermi di mezzo, ma perché? “Adesso guai a te se parli, se chiedi aiuto faccio una strage, intesi?” “Non puoi cavartela…” A un certo punto entra Marco con il suo camice d’ordinanza. “Ben arrivato.” “Ho avuto un problema.” “Sempre a farti aspettare, tu. Portalo giù, forza. Noi arriviamo tra poco.” Giù? Allora vado proprio all’inferno. Marco mi conduce fuori, nel corridoio. Si dirige verso l’ascensore. Intorno nessuno nota che è in corso un rapimento: è normale che un infermiere porti in giro un vecchietto con la sedia a rotelle. Mi fa entrare nell’ascensore, si volta verso di me e mi fa un sorriso. Preme il bottone meno uno. Scendiamo. La porta si apre. Riconosco il neon sfarfallante. Chi c’è qui sotto? Non appena fuori dall’ascensore la porta si richiude: evidentemente è stato richiamato. Sta arrivando anche Solana. “Andiamo a trovare qualcuno, signor Franti.” “Chi?” “Una persona che conosce molto bene…”

Percorriamo l’intero corridoio e giungiamo a una porta di vetro. Intanto dietro di noi l’ascensore si riapre. Sento la voce di qualcuno che si lamenta. “Lasciatemi… Cosa volete? Vi porto alla cassaforte… Non fatemi del male…” Non riesco a girarmi per vedere chi sia. Non ne ho le forze, e poi sono inchiodato su questa maledetta sedia a rotelle. Entriamo in una sala. Doveva essere una biblioteca, è piena di scaffali. Seduta per terra, con un pezzo di nastro argentato sulla bocca, legata mani e piedi, una ragazza. Chi è? Non è proprio un’adolescente. Ha i capelli lunghi fino alla spalla, castani. Rivolge il volto dall’altra parte, non riesco a vederle gli occhi. Poi si gira. “Lella!” “Ah, vi conoscete. Ma pensa!” Marco sghignazza dietro di me. Mi parcheggia attaccato al bancone della biblioteca. Mi mette di schiena rispetto a Lella. Faccio uno sforzo enorme per voltarmi a vederla. Intanto arriva anche Solana. “Ecco, ci siamo tutti. Si può iniziare, allora, che ne dite, ragazzi?” Solana tiene in braccio un gatto nero con una macchia bianca di pelo in mezzo alla fronte. Mentre parla non smette di fissarmi; cammina avanti e indietro, come per cercare un’ispirazione. Poi si ferma e si avvicina a me. “Allora, capitano, me lo fai quel lavoretto?” “Quale lavoretto?”

“Ma sì, quello che hai lasciato in sospeso. Non ricordi?” Proprio non ricordo. Questo è pazzo. Cosa dovrei ricordare? E che ci fa Lella qui? Forse è tutta un’allucinazione. Sì, è così, se no non avrebbe senso: questo posto, Solana, Lella, Marco, sono frutto della mia mente malata. Adesso mi sveglio e… Ah! “Fa male, vero, capitano?” Come faccio a provare dolore? Allora è tutto vero? Non capisco più niente. La mia mano destra è stata ferita. Una lama è penetrata nella sua carne, questo lo sento fin troppo bene. Ma non ho visto nessun coltello… Poi mi accorgo che la mano mi è stata tagliata. Dio mio, non ho più la mano! “Perché ti scaldi, capitano? Non ho ancora iniziato…” Ora Solana si avvicina. I suoi occhi neri mi scrutano, inespressivi. Sento il suo respiro. Vorrei morire. Continuo a dirmi che tra un attimo mi sveglierò e mi troverò a casa, nel letto, con Marta accanto. Solo un brutto sogno, solo un brutto sogno, Gianni. Solo un brutto sogno… Che dolore! Solana mi stringe il braccio destro, proprio all’altezza del polso. Mi guarda sempre dritto negli occhi, non smette un istante di fissarmi, il maledetto. Sono ancora convinto che sia tutta una messinscena della mia mente, deve essere per forza così. Dove sei, Giancarlo? “Sono qui, Gianni.” “Ci sei anche tu…” Giancarlo ha un aspetto diverso dal solito: pare ringiovanito di trent’anni. È accanto a Solana, che non si cura della sua presenza. Il viso di Giancarlo non ha più nulla di odioso: ha uno sguardo determinato, penetrante.

“Aiutami, Giancarlo… Vedo ancora quello là dell’altra notte…” “Non devi preoccuparti. Adesso ci sono io, Gianni. Dammi la mano, ti riporto in stanza.” Giancarlo mi invita allungando il braccio verso di me. Il suo braccio a attraverso l’addome di Solana, poi svanisce nel nulla. È come se l’illusione fosse diventata reale, la realtà un’illusione. Guardo la stanza: è piena di scaffalature. Tra di esse un lungo corridoio si perde nella penombra: i neon non arrivano a illuminare il grande salone per intero. Intanto Solana non cessa di stringermi il polso. Ma ora non bado a lui. C’è qualcuno che si sta avvicinando furtivamente, avanzando tra uno scaffale e l’altro. Non riesco a riconoscerlo. Forse è lui. La speranza si riaccende in me.

Sabato 4 luglio 2009

Stamattina mi sento meglio. Sono leggero: ieri ho fatto pace con Bea. Di riflesso rivolgo lo sguardo verso il portatile sul comodino. Mi vuole bene, non c’è dubbio. Noto che la chiavetta è ancora collegata. Subito vado a staccarla: non vorrei che succedessero altri incidenti. La ripongo in fondo al cassetto. Sarà prestissimo: non sento anima viva. Ma non voglio guardare l’orologio. Vorrei riaddormentarmi, dormire ancora un po’… Fare la colazione tardi, poi fare quattro i per la campagna. Quale campagna? Sei al Residence La Quiete, non te lo ricordi? Mi giro dall’altra parte, sperando ancora di poter fare quella eggiata. Ora sto camminando. Sono appena uscito di casa e porto una vistosa fasciatura al polso destro. Intorno a me i campi, sono coperti dalla neve; la cosa mi sembra strana, poi alla fine mi convinco che, in fondo, è normale. Sono in braghe corte ma non ho freddo. Marta è rimasta a casa, non stava bene. Vai pure tu, mi ha detto, io riposo un po’. La vedo che vomita sangue in bagno. La neve si tinge di rosso. Distolgo lo sguardo. Continuo la mia eggiata. Sulla mia destra ora c’è un campo di calcio. È deserto, no, un momento. C’è Massimo, avrà su per giù diciotto anni. È al centrocampo, ed è a bordo della sua Vespa gialla. Faccio per salutarlo e lui si volta dall’altra parte. Incomincio a essere stanco. La neve cade, sempre più insistente. Che idea uscire con un tempo del genere. Poi ecco che incontro mia figlia. È davanti a me, in mezzo alla strada. Non riesco a vedere il suo volto. Che ci fai fuori di casa? Torna a casa, guarda che tempaccio.

Ha una benda sugli occhi. Gliela tolgo e scopro che è Beatrice. “Disturbo?” “Bea…” “Dormivi. Scusa, non volevo svegliarti. È che mi servirebbe il mio portatile. Posso riprenderlo?” “Ma certo…” Faccio in tempo a lanciare un occhio… Sì, la chiavetta è al sicuro, che stupido, l’ho staccata prima. Si allunga sopra di me per prendere il suo computer. Sento un profumo di vaniglia. “Grazie…” “Di che. Ci si vede dopo.” Lo spero con tutto me stesso.

Domenica 13 luglio 2008

Lo sistemo io, davvero. Ricompongo il suo numero, deciso a imporgli il rispetto per il padre. Attendo in silenzio che il collegamento avvenga. Il cellulare ora è spento: evidentemente dopo la mia chiamata Massimo ha deciso bene di evitare altri scocciatori. Rimango sconcertato. Scaravento il cellulare per terra, la batteria si stacca e schizza direttamente in corridoio. Adesso di certo arriva qualcuno. Che hai combinato, Giovanni? “Problemi col cellulare?” È il dottore. Ma non ci dovrebbe essere la domenica. Tiene in mano la batteria. Entra e raccoglie anche il telefonino. Traffica un po’ per ricongiungere i pezzi poi appoggia il risultato sul comodino. “A volte serve incazzarsi. La saluto, signor Franti. Vado a fare il mio giro. Se ha bisogno mi faccia chiamare, oggi sono qui, almeno fino all’una.” “Come mai, dottore?” “Ah, straordinari. Si dice così, no?” “Già.” Guastaldi mi è piaciuto dal primo momento che l’ho visto. Chissà che ci fa qui; probabilmente qualche problema di salute di un ospite. Magari l’ospite ci ha lasciato anche le penne. Possibile, viste le cere che ho visto qui dentro. Mi giro verso la finestra, pensieroso. Mio figlio non si deve permettere. Non deve più accadere che mi tratti così. Vediamo se adesso lo ha ri. Gli parlerò con sincerità, lo farò ragionare. Vinco la paura e mi volto nuovamente per raggiungere il cellulare sul… Dov’è?

È ancora per terra, la batteria è più in là. Si è staccata quando ha toccato il pavimento.

Domenica 12 luglio 2009

“Salve.” “Ah, l’amico di Gianni…” “Beatrice, accompagna il signore dal dottore. Vuole sapere come sta Franti… Vuole vederlo.” “Sì, certo…” “Ah, Bea. Se il signore si comporta male avverti subito la sottoscritta. Siamo d’accordo?” “D’accordo. Andiamo. La porto da Gianni.” “Che gli succede?” “Sta morendo.” “Non può morire…” “Se lo dice lei…” “Hai visto facce strane in questi giorni?” “Facce strane? Perché?” “Siete tutti in pericolo.” “In pericolo?” “Sì.” “Che vuol dire?” “Andiamo da Gianni.”

“Ho chiesto che vuol dire che siamo tutti in pericolo.” “Accidenti a te, ragazzina, mi porti o no da Gianni?” “Sì…” “Allora andiamo.” “Che maniere sono?” “Cosa?” “Ha sentito, maleducato. Come fa a essere amico di Gianni una persona così…” “La vuoi capire biondina che non c’è tempo da perdere?” “Lei si comporta male. Adesso torno dalla signorina Tiraboschi e riferisco.”

Luigi ora stringe con energia il braccio paffuto di Beatrice. Lei si divincola e fugge.

“Accidenti a te! Me lo trovo da solo il mio socio!”

Luigi si mette a cercare l’ambulatorio. Gira a vuoto per un po’; alla fine lo trova. Entra ma non c’è nessuno. Per cinque minuti non ha incrociato Solana che usciva con i suoi uomini e l’ostaggio. Esce e va in cerca di Gianni. Percorre ogni corridoio, guarda in ogni stanza. È sempre più preoccupato. Dove diavolo è finito? Alla fine decide di cambiare piano. Si dirige verso l’ascensore. Preme il pulsante di chiamata. Ecco, la porta si apre. Una volta dentro osserva la pulsantiera. Pigia il tasto meno uno. L’ascensore inizia la discesa con la consueta calma, poi si ferma, ci pensa un po’, infine apre la porta.

A Luigi si presentano il neon sfarfallante, il corridoio polveroso. C’è qualcuno. In fondo a esso scorge dei movimenti. Bravo, si dice, il tuo istinto ti ha guidato bene anche stavolta. È certo: là in fondo c’è Gianni. Estrae la Glock e in silenzio avanza, rasentando il muro. Si avvicina. Inizia a distinguere le voci. Sente un pianto debole, una voce di donna. Si ferma. Tiene la canna della Glock a un centimetro dal proprio naso. Non sa che fare, lui è da solo, loro possono essere tanti. E poi c’è Gianni, e probabilmente Lella. Sì, perché ne è quasi sicuro: c’è anche lei. Torna a muoversi. Avanza lentamente, inizia a vedere. Quanti uomini saranno? Tre, quattro? Dieci? Che disastro… Come si fa adesso, gli viene da pensare. Sono da solo, dovrei chiamare qualcuno. Ma non c’è tempo, bisogna agire, ora e subito. Solana non ci pensa un attimo a far fuori padre e figlia e questo lui lo sa. Intanto Solana ha preso un coltello, è bello grosso. Lo fa roteare davanti al volto di Gianni. Poi va da Lella e glielo appoggia al collo.

“Torniamo a noi, capitano. Adesso se tu non finisci quello che hai iniziato tanto tempo fa io taglio il collo a lei.”

Marco ora sposta la sedia a rotelle in modo tale che Gianni possa fare il servizio a Solana, che intanto tiene il coltello sulla carotide di Lella. Poi pare che non sia molto convinto: Gianni non è più il ragazzo prestante di una volta, è un ottantenne pieno di rughe. Resta per un po’ incerto sul da farsi, poi prende una decisione. Toglie il nastro dalla bocca di Lella.

“Ora guarda com’è brava tua figlia, poi vi ammazzo tutti e due. Ti piace il programma?” “Brutto bastardo, qualsiasi cosa mi metti in bocca la perdi, ricord… Ah!” “Vuoi stare zitta, puttana? Tu muori, come è morta mia figlia, come è morto mio figlio, come è morta mia moglie. Tu muori, oggi! Forza, ora datti da fare, se no tuo padre muore prima di te.” “Allora se moriamo comunque che c’è da perdere?” “Basta, Lella…” “E tu, paparino? Che hai da dire? Guarda, guarda che hai combinato, hai distrutto una famiglia, hai ucciso la mamma! Che hai da dire ancora? Mi dici di stare zitta? Come il tuo amico qui?” “Ti prego…” “Tra poco andiamo all’altro mondo tutti quanti, tanto vale dirti tutto quello che penso. La mamma è morta per la disperazione, lo sai? E tu? Quante volte l’hai tradita? Eh, bastardo, dimmelo!” “Oh, litigio in famiglia. Ma adesso tu metti in bocca questo. Non ho tempo da perdere, mi aspettano. Forza, bambina…”

Solana estrae dai pantaloni un pene raggrinzito e lo sventola davanti a Lella; intanto tiene il coltello sul collo di Gianni. Lella non ci pensa nemmeno, gira la testa dall’altra parte. Marco con forza gliela rimette dritta. Intanto Luigi vede e sente tutto. Aspetta, si dice. Non è ancora il momento. Cerca di capire quanti sono. Gli tocca avanzare ancora un po’, deve individuare i bersagli, non può permettersi di sbagliare, lui è solo, loro in tanti. Con cautela allunga in o. Il suo piede incontra un ostacolo: il rumore attira l'attenzione.

“Capo, c’è qualcuno.” “Allora che aspetti? Vai a vedere.” “E se è armato?” “Idiota! Anche tu sei armato. Vai a vedere!” “Va bene, capo.”

Luigi impreca: ha appena urtato uno stetoscopio. Che diavolo ci fa uno stetoscopio per terra? Torna indietro di un o, ma dove può nascondersi? È andato troppo avanti e lo scagnozzo di Solana va dritto verso di lui. Intanto Beatrice è corsa dalla Tiraboschi. Riprende fiato e le spiega l’accaduto. La direttrice non esita un momento: prende il telefono e chiama la polizia. La situazione precipita. Tra poco il Residence La Quiete rischia di diventare famoso. Me lo vedo già il titolo di cronaca, “Scontro a fuoco in casa di riposo” potrebbe essere. Titolo bizzarro, non c’è che dire. E chi mai va a pensare che in un ospizio possa avvenire una sparatoria? Intanto il dito di Luigi accarezza nervosamente il grilletto della Glock mentre aspetta che l’altro si avvicini. Lo colpirà tra gli occhi, ormai ha deciso. Poi si butterà a capofitto, ormai non ha alternativa. Si concentra, deve mettere a segno ogni colpo, Un solo errore ed è finita. Ricorda l’insegnamento del tuo socio, Luigi. La lentezza.

Domenica 13 luglio 2008

Che mi succede? Ho le allucinazioni? Osservo le parti del cellulare ancora per terra. Non mi è mai successo prima. Forse stavo ancora dormendo, forse ero in dormiveglia e ho sognato il dottore. Perché ho lanciato il cellulare? Ah, sì. Mi sono arrabbiato perché Massimo ha spento il suo. Ti mollerei un ceffone, sciocco d’un figlio. Ti farei girare la testa dall’altra parte. Forse ho sbagliato a essere troppo buono. Non ti ho mai punito, neanche quando mi rispondevi sgarbato, e lo hai fatto tante volte. Non credo abbia riattivato la linea. Tanto vale attendere giovedì. Così penso bene alle parole da dirgli. Massimo, Massimo, Massimo… Che mi combini? Fa caldo stamattina, più del solito. È meglio che non mi agiti troppo. Adesso devo badare a me stesso. Mi alzo con cautela dal letto: sembra che la schiena mi conceda una tregua. Riesco a recuperare il cellulare e la batteria, poi, sempre lentamente, me ne ritorno a letto. Giusto in tempo, perché subito dopo una tenaglia rovente torna a schiacciarmi la schiena. Stringo i denti. Noto che il condizionatore è spento. Mi asciugo il sudore sulla fronte. Perché mai hanno spento l’aria condizionata? E come faccio a riaccenderla? Io dal letto non mi muovo un’altra volta, il quadro è troppo lontano. Devo chiamare qualcuno, qui dentro si muore dal caldo. Sto sudando vistosamente, come mai me ne accorgo solo adesso? Suono il camlo e attendo. Mi si gela il sangue: si presenta l’infermiera Sabbia Nelle Mutande. Pare alquanto scocciata. Se lo sapevo che veniva lei mi facevo volentieri ancora un po’ di sauna. “Ebbene, signor Franti? Qual è il problema?” “L’aria condizionata. È spenta.”

“Basta schiacciare qui, non lo sa?” Eh, sì che ho visto, stronza, ma sai, ho un piccolo problema fisico in questo momento. “Se ne deve rimanere a riposo, quindi non si agiti e resti a letto.” Senza alcun cenno di saluto esce dalla stanza, con l’aria di una che ha compiti ben più importanti che attivarmi il condizionatore. Ma sì, verrà il momento anche per te in cui ti pentirai di esserti comportata male. Verrà, non preoccuparti, frigida, acida, stupida infermiera.

Domenica 12 luglio 2009

“Che cosa fate? Vi prego, smettetela. Vi porto alla cassaforte, ho detto, vi prego!” È la voce di una donna, una voce stridula, che conosco bene. Ho imparato a odiarla in tutto il tempo in cui sono stato qui. “E tu, Marco? Non mi difendi? O è stata tutta una sceneggiata la tua?” “Ma smettila, donna.” Dalla mia nuova posizione ora riesco a vedere chi è l’ostaggio. L’infermiera acida, la nemica di Beatrice, la stronza, insomma. Che posso fare? Solana si è tirato fuori il pisello e lo sventola davanti a questa ragazza… Ma è Lella! Che diavolo intende fare? Scruto di nuovo nella penombra degli scaffali: non vedo più nessuno. Nessuno verrà ad aiutarci. Credevo stesse arrivando qualcuno… Sì! L’ho intravisto nuovamente! Adesso si è fatto più vicino, si nasconde dietro al secondo… al terzo scaffale. Mi riscuote un urlo. Lella ora è per terra. Le cola il sangue dal naso. “Maledetta! Uguale al padre! Maledetta testa dura!” “Io ti ammazzo, Solana! Giuro che ti ammazzo se tocchi ancora mia figlia!” “Ah, sì? E come fai, capitano coraggioso? Dimmi, come fai?” Mi si avvicina a un centimetro dal naso, ha disegnato sul volto un ghigno che forse è un sorriso. Gli occhi sono sempre gli stessi, penetranti, indecifrabili. “Sai? La mia famiglia scappava sotto terra, ma ha sbagliato strada. Se non c’eri tu, capitano, non succedeva niente.” “La tua famiglia? Ma di che diavolo parli?”

“Non ricordi? La vecchiaia… La vecchiaia fa brutti scherzi alla mente…” Fa un lungo sospiro e, per un attimo chiude gli occhi. Quando li riapre hanno una luce strana. “Mi sono stancato. Niente pompino, allora si uccide tutti e si torna a casa.” È la fine. Questo ci ammazza tutti. Devo reagire. Sono inchiodato su questa maledetta sedia a rotelle, vecchio e rincoglionito, ma se non reagisco è finita. “Un momento.” “Sì, capitano?” “Ecco… io…” “Allora, capitano?” “Ho un’idea.” “Un’idea?” “Uccidi prima mia figlia. La voglio vedere morta.” “Oh… E perché mai, caro il mio capitano?” “In tutti questi anni non è mai venuta a trovarmi, mi ha odiato con tutte le sue forze. Adesso io non provo più niente per lei. Ammazzala pure.” “Ma… Papà… Cosa dici?” Lella si rialza e appoggia nuovamente la schiena contro il muro. È impietrita. Solana pare spiazzato. Come tanti anni fa, quando gli avevo fatto la proposta indecente. Così prendo tempo. Così ano minuti preziosi. Così la squadra riesce ad arrivare. “E va bene.”

Prende la pistola da un suo scagnozzo e ne infila la canna con forza nella bocca di Lella. Dio mio, che ho fatto? Un colpo di pistola? Ma Solana non ha sparato, Solana non ha ucciso mia figlia. Chi ha sparato, allora? Solana si è abbassato dietro al bancone, lo stesso hanno fatto i suoi uomini. L’infermiera è rimasta in piedi e urla come un’ossessa. Marco le molla un cazzotto e lei cade come una pera. Io resto seduto sulla sedia, non ho alternativa. Da questa posizione spunto con metà busto fuori dal bancone e posso vedere quello che succede. “Chi cazzo è?” “Non lo so, capo. Nessuno sapeva niente.” “Nessuno sapeva niente? Che cazzo dici, brutto ebete?” Marco diventa rosso mentre gli arrivano addosso le parole del capo. “Ehi, mi senti? Adesso ammazzo tutti, hai capito?” Dall’altra parte nessuno risponde. “Hai capito? Vieni fuori e non ti uccido…” “Non mi uccidi? Ti conosco bene, sai, Solana?” Ma… Questa voce… Luigi! Come ha fatto? E la squadra? Sarà con lui? No, Luigi vuole sempre fare da solo, è una gran testa dura. “Lasciali liberi, e forse ti risparmio la vita.” “Chi cazzo sei? Eh? Chi sei tu, che minacci Solana Rodriguez?” “Una vecchia conoscenza. Ora fai uscire gli ostaggi.”

“Oh, oh. Fa la voce grossa, lui. Noi siamo in tanti, abbiamo pistole, coltelli. Ora fa’ il bravo…” Dall’altra parte torna il silenzio. Solana inizia a scaldarsi. “Andate a prenderlo, forza!” “Ma capo…” “È un ordine! Uscite di qui e portatemi la sua testa!” Rassegnati, i suoi uomini escono dal bancone tenendosi bassi. Uno dopo l’altro scompaiono dall’altra parte della porta a vetri. Anche Marco fa parte della spedizione. Si è tolto il camice, indossa una canottiera. Noto solo adesso che è pieno di tatuaggi. Mi giro verso la biblioteca vuota. Una persona con un impermeabile e un cappello calcato sulla fronte mi guarda tenendo il dito indice sulla bocca. È proprio lui, me lo ricordo perfettamente mentre si allontanava nella notte. E ora eccolo qui, il volto ancora nascosto dalla larga falda del cappello. Silenzio, vuole dirmi. Fai finta di non avermi visto. Dentro me cresce una folle speranza, forse questo tizio mi può aiutare, forse c’è ancora una possibilità di salvarmi. È il mio angelo custode, ora capisco. Uno sparo. Mi volto verso l’ingresso della biblioteca. Un altro sparo. Un altro ancora. Mi giro di nuovo verso gli scaffali, sperando di vedere intervenire l’uomo misterioso: non c’è più. Solana ora tiene mia figlia in piedi, davanti a sé, la pistola puntata sulla sua tempia. Attende che Luigi entri. Devo aiutare il mio socio. Prima di tutto ho bisogno di staccarmi da questa maledetta sedia a rotelle. E come faccio? Con una mano sola non c’è possibilità. “Ti serve una mano?” Rimango costernato. A un o da me c’è l’uomo con l’impermeabile. Non

vedo il suo volto ma ho l’impressione che sia divertito. “Magari. Potresti renderti utile, che dici?” “Beh, per essere una tua allucinazione tu pretendi un po’ troppo da me.” “Allucinazione? Ma allora chi era quella persona che si era presentata a casa mia? Il camlo lo ha sentito anche mia moglie.” “Ne sei sicuro?” “Accidenti, non sono più sicuro di niente.” “Ti posso aiutare.” “E come?” “Ti tolgo i lacci.” “E come fai? Sei solo frutto del mio pensiero…” “Uomo di poca fede. Guarda…” Non so come sia successo ma non sono più legato. “Mi sembra che il tuo amico ora sia un po’ distratto. Forse è meglio che ti dia da fare.” “E che faccio?” “Sei tu l’agente segreto addestrato per le missioni più pericolose. Lo vieni a chiedere a me?” D’un tratto mi pare di scorgere i suoi occhi da sotto il cappello. Due luci fioche, che scompaiono non appena mi è sembrato di vederle. Che devo fare? Sono debolissimo, non riuscirei nemmeno a stare in piedi… Vediamo… Magari… Con uno sforzo… Sono in piedi. Barcollo un po’. Solana è voltato, attento a ciò che sta succedendo nel corridoio. Con estrema lentezza muovo un o, poi un altro. Mi devo

appoggiare al bancone, non riesco a respirare. Meglio che mi fermi. Chiudo gli occhi per un momento. Aspetto che i una fitta al polso destro. Ora sto un po’ meglio. Devo cercare un’arma. Mi guardo intorno: non c’è nulla che possa aiutarmi. Maledizione, mi basterebbe un fermacarte. Sento Lella che piagnucola. Ha paura. La mia piccola, la mia bambina ha paura.

Solana punta la pistola contro un pannello elettrico vicino all’entrata. Spara.

Domenica 12 luglio 2009 (Dall’altra parte della porta a vetri)

Due li ho seccati… Ne arriva un altro... Secco. Fatti fuori tutti. Devo entrare in quella stanza. Non posso nemmeno mettermi dietro la porta, è di vetro. Mi vede subito, appena mi avvicino. Rimani freddo, Luigi. Forse ce la fai a portare a casa la pellaccia. Un colpo di pistola. La luce ora è spenta. Calma, Luigi: ha sparato per fare buio. E bravo Solana, ma nemmeno tu ora ci vedi. Magari però hai un visore a infrarossi, se ti conosco bene dovresti essere ben equipaggiato. E poi, se c’è qualche altro tuo scagnozzo lì dentro insieme a te? Questo non posso saperlo. Stai pensando troppo, Luigi. E non c’è tempo per pensare. Entra in quella maledetta stanza, poi improvviserai… Che problema c’è? Quando mai ho avuto un piano? Vecchio mio, che mi tocca fare per te. Uno… due… e…

Domenica 12 luglio 2009 (Un piano sopra)

Anche Massimo giunge al Residence La Quiete. Ha avuto un contrattempo: una gomma forata. Proprio non ci voleva, in questo momento. In tutto ha perso mezz’ora di tempo a montare il ruotino di scorta. Gli tremavano le mani, tanto era agitato. Per un pelo non si feriva col cric. Ora si dirige a grandi i verso la stanza di Gianni. Forse spera che sia migliorato, che sia tornato nella sua stanza e che ora stia solo riposando. Vorrebbe parlargli col cuore in mano, si è preparato addirittura un discorso, per come si è comportato verso di lui dopo la morte della madre, che in realtà non voleva, che una volta salvata Lella tutto sarebbe cambiato, lo avrebbero rispettato, lui e sua sorella, trattato amorevolmente come dovrebbero fare i figli verso i genitori anziani. Dentro di sé è un fiume in piena, in cuor suo spera di poter parlargli ancora una volta. Ma suo padre non è nella sua stanza. Non è nemmeno nell’ambulatorio, come noi sappiamo. Massimo ora cerca qualcuno che gli dica dov’è Gianni. Per sua fortuna incontra proprio il giovane dottore. Ha un’aria sconvolta, del sangue gli esce dal naso, ha un occhio nero. Per muoversi si appoggia al corrimano, come fanno gli ospiti che fanno fatica a camminare.

“Che le è successo? Dov’è mio padre?” “Non lo so… In ambulatorio non c’è… Qualcuno mi ha colpito… Ero uscito un minuto… Lo hanno rapito… Bisogna trovarlo…”

“Stia calmo e mi dica con precisione che è successo.” “Erano tre, quattro, non so…Credevo fossero delle pulizie…” “Accidenti, che diavolo succede stamattina?” “Signorina Tiraboschi… Chiami la polizia…” “L’ho già fatto. Chi è stato a ridurla così? Forse lo so. Beatrice, chiama Ugo e Michele. Quell’uomo è pericoloso.” “Quale uomo?” “Quello che dice di essere un amico di Giovanni Franti. È arrivato dieci minuti fa. Per dio, se venisse coinvolto qualcuno dei nostri ospiti non me la perdonerei mai. Beatrice, fai in modo che nessuno esca dalle proprie stanze, intanto che arriva la polizia. Su, datti da fare, non stare lì impalata!” “Ma sono tanti… Come faccio?” “Chiama i tuoi colleghi, inventati un modo, ma nessuno degli ospiti deve mettere piede fuori dalla propria stanza. Forza!” “Va bene, capo.” “Signor Franti. Lei per piacere mi dia una mano ad accompagnare il dottore nel mio ufficio. Attenderemo là l’arrivo della polizia.” “Ma… L’amico di Giovanni… È Luigi. È una brava persona.” “Erano tre o quattro, signorina Tiraboschi. Non è stato lui.” “Allora chi, accidenti! Cosa sta succedendo qui dentro? C’è qualcuno che gentilmente vuole spiegarmelo?” “Forse… Forse so chi ha preso mio padre. È pazzesco… È arrivato fin qui... Allora c’è anche…” “Chi è arrivato fin qui, signor Franti!” “Una persona pericolosa.”

“Ne ho abbastanza. Forza, mi dia una mano, andiamo in ufficio. Con lei intendo fare una chiacchierata. Io sono la responsabile di questa struttura, lei mi deve una spiegazione, non crede?” “Gliela darò.”

Si sente un’esplosione lontana. Poi un’altra e un’altra ancora. È la Glock di Luigi che rimbomba nel corridoio del piano meno uno.

“Dio mio! E ora che succede? Veniva da dove? Forza, porti il dottore in ufficio, io devo andare a vedere.” “Signorina, non lo faccia. È pericoloso, quella gente può uccidere.” “I miei ospiti sono in pericolo. Io devo andare.”

La signorina Tiraboschi si dirige verso l’ascensore. Massimo non sa che fare. Prima che possa dire altro alla donna, è già scomparsa dalla sua vista.

Domenica 12 luglio 2009 (Un piano sotto)

Dove diavolo è la mia Beretta? Possibile non si trovi mai una pistola quando serve? Vediamo… Qui no, neanche qui sotto. Accidenti! Fra poco quello lì si gira e io che faccio? Che caldo che fa qui dentro… Sto grondando. Insomma, la pistola non la trovo. Devo cercare un oggetto bello pesante da spaccargli in testa, se no la ragazza è spacciata. Non vedo quasi niente. Che sia notte? Che ora è? Ah, ecco. Ci o sopra la mano… È un monitor di computer, uno di quelli vecchi. Lo prendo… Se è grosso... Cerco di afferrarlo anche con la destra ma non riesco a sentire le dita. Si saranno intorpidite. Ecco. Vedo l’ombra della sua testa, riesco a distinguerla nell’oscurità. Forza Giovanni Franti. Un lancio deciso. Uno, due e

Domenica 12 luglio 2009 (Dall’altra parte della porta a vetri… non per molto)

Tre. No. Aspetta un attimo. La lentezza, ricorda. Aspetta ancora un attimo. Che è successo là dentro? Ho sentito un rumore, come un tonfo. Che sarà mai? Ora devo proprio entrare. No. Ancora un momento. Studia meglio la situazione, sta’ ad ascoltare ancora un po’. Solana non ucciderà subito Gianni, per il semplice fatto che gli serve come ostaggio, ora che è messo alle strette. Almeno spero sia così. Ho sentito un lamento, ma non è Gianni. Gianni lo riconoscerei, Gianni non si lamenterebbe a quel modo. È qualcun altro, forse è Solana… Forse Gianni lo ha messo fuori uso... Ma come è possibile? Non può essere possibile, dannazione, Luigi! Datti una calmata, ora. Forse è proprio così. Gianni è sempre stato il migliore… Ma come avrebbe fatto? Ha più di ottant’anni, e poi non stava morendo? Non quadra. Sto pensando a una sciocchezza dietro l’altra. Penso troppo. Basta, Luigi. Bisogna entrare, subito. Forse questo è il momento buono. Forza, diamoci una mossa. È come buttarsi in piscina, Luigi. Buttati.

Di colpo Luigi apre la porta e rotola per terra, la Glock puntata davanti a sé. Rimane fermo, pronto a sparare. C’è un silenzio strano. Nella penombra, dietro il bancone c’è una persona in piedi. Sta per fare fuoco quando nota che un braccio è privo della mano. È Gianni. Per poco non gli viene un colpo. Vorrebbe chiamarlo ma la voce gli muore dentro. Poi si riscuote, si alza e cammina verso l’amico. Giunto al

bancone si accorge che c’è un uomo per terra. Accanto alla testa dell’uomo un vecchio monitor di computer, ha lo schermo frantumato ed è sporco di sangue. Allunga la mano sinistra e la appoggia delicatamente sulla spalla di Gianni, che ha un sussulto.

“Gianni, sono io, Luigi. È finita.” “Cosa è finita? Luigi? E la squadra, dov’è la squadra?” “Sono da solo, socio. Non c’è nessuna squadra.” “Annullo la missione, è troppo pericoloso. Guarda, ci è scappato il morto.” “Non c’è nessuna missione, Gianni. Sei stato preso da Solana… Lella!” “Luigi…” “Lella, stai bene?” “Sì… Ti prego, liberami.” “Ti ha ferito?” “Poteva fare di peggio. Quell’uomo è pazzo.” “Pazzo? Chi è pazzo?” “Papà, perché parli così?” “Parlo come? E tu chi sei?” “Sono Lella, dio mio, sono tua figlia!” Santo cielo, ho una figlia.

Domenica 12 luglio 2009 (Un piano sopra… non per molto)

Ma che faccio? Devo seguirla, devo cercare mio padre. “Dottore, non posso stare qui con lei. Ce la fa?” “Non si preoccupi per me. Vada, vada con la Tiraboschi. Io sto bene.” “D’accordo.” “Vada, stia attento, però. Guardi come mi hanno ridotto. Forse mi hanno creduto morto, è per quello che sono ancora vivo.”

In un attimo Massimo raggiunge la signorina Tiraboschi.

“È pericoloso, non può andare a cercare quelli là da sola. Se ne rende conto?” “Lei deve farmi un favore. Finito tutto questo, voglio che trasferisca suo padre, non voglio vedervi più nei paraggi, le è chiaro il concetto?” “Certo… Chiaro. Ora però bisogna trovarlo. Spero solo che la polizia arrivi alla svelta.” “M’immagino la pubblicità per la nostra casa di riposo. Saremo su tutti i giornali.”

La signorina Tiraboschi manda un lungo sospiro guardando in alto, come per invocare un qualche santo in cielo che la possa aiutare.

“Bisogna trovare suo padre, signor Franti. Su questo siamo tutti d’accordo. C’è

solo un problema. Se troviamo lui troviamo anche quelli che hanno massacrato il dottore.” “Lo so. Dove intende andare?” “Gli spari venivano da sotto.” “Non ha un’arma?” “Un’arma?” “Signora Tiraboschi!” “Signorina. Ah, ecco quelli della sicurezza. Forza, venite con me e il signor Franti. Andiamo a cercarli. Seguitemi.” “Cercare chi, signorina?” “Hanno rapito un ospite, nessuno vi ha detto niente, maledizione? Ora seguitemi.” “Nell’ascensore?” “Sì, nell’ascensore. Andiamo giù.” “Giù? Perché di sotto? Non può essere che siano usciti dalla casa di riposo? Pensa che siano ancora qui dentro?” “Ma con chi ho a che fare io? Non avete sentito proprio niente? Sono al piano interrato, sono ancora là, sicuro. Almeno bisogna trattenerli fino all’arrivo della polizia.” “E come?” “Non lo so… Forza, andiamo.” “Forse è meglio aspettare, signorina…” “Accidenti a voi! Non avete una pistola?” “Sì… Ma…”

“Allora suppongo la sappiate anche usare. Entrate in ascensore. Lei, signor Franti, che vuole fare?” “Vengo anch’io.” “D’accordo. Che dio ce la mandi buona.”

La piccola compagnia entra nell’ascensore. La signorina Tiraboschi preme il tasto meno uno e incominciano a scendere. In pochi secondi sono al livello inferiore. Si apre la porta scorrevole, subito appare il corridoio a stento illuminato dal neon sfarfallante. A terra, in fondo, nella penombra, dei corpi. Fanno in tempo a scorgere la sagoma di Luigi che entra nella biblioteca. Tutti quanti rimangono impietriti alla vista dei cadaveri. L’ascensore torna a richiudersi. Quasi tutti sono d’accordo che si risalga su, tranne uno. Massimo allunga la mano per metterla sulla fotocellula. La porta si riapre, esce ma nessuno lo segue. Hanno visto i morti, sono atterriti. È assurdo che si continui. Ma Massimo vuole trovare suo padre, a ogni costo. Ripetute sono le esortazioni silenziose della Tiraboschi e delle due guardie di risalire. Lui resta giù. Dallo sguardo sembra non abbia paura, i suoi occhi esprimono determinazione. D’un colpo ha scoperto in sé un coraggio che mai avrebbe pensato di poter avere.

Domenica 12 luglio 2009

“Gianni, non mi riconosci?” “Chi… sei?” “Dio mio, Gianni, guardami! Sono Luigi, Luigi! Che ti sta succedendo?” “Che mi sta succedendo? Ma dove sono? Perché quell’uomo è a terra?” “Lo hai steso tu, non ricordi?” “Ah, sì, certo…” Ma chi è questo qui? Eppure mi è familiare. “Adesso andiamo via. Lella, aiuta tuo padre, mettilo sulla sedia a rotelle. Lo portiamo su.” “Va bene. Papà, siediti qui, da bravo…” “Io non mi siedo da nessuna parte! Che volete da me voi due?” “Ti portiamo via da qui. Ti portiamo a casa, vecchio mio.” “A casa? Sì, a casa. Portatemi a casa.” A casa, finalmente a casa. Non ne potevo più di questa missione. Sono sfinito. A casa, da te, amore. “Ecco, sì, così. Siediti, così io ti spingo. Non ti lascio più papà, sono qui con te adesso.” “Fermi. Ho sentito un rumore là fuori. Qualcuno sta arrivando, porca miseria ce n’è un altro. Adesso vado fuori a vedere. Tu, Lella, rimani con tuo padre.” “Stai attento. Vuoi sempre fare di testa tua, tu. Non puoi andare da solo.”

“Cosa? Allora sai chi sono, vecchio brontolone.” “Chi sei?” “Come non detto. State giù, dietro il bancone.” “Forza, papà, vieni giù, ecco, così, bravo.” “Dov’è la mamma?” “È al sicuro, papà.” “E tuo fratello? Hai visto com’è contento della sua Vespa?” “Sì, certo, è contentissimo. Ora però bisogna stare in silenzio.” “Che sta succedendo?” “Niente. Adesso Luigi va a controllare. Noi però non dobbiamo fare rumore.”

Con estrema cautela Luigi si avvicina alla porta a vetri. Intravede dall’altra parte l’ombra di un uomo. Attende che si sia avvicinato abbastanza, poi di scatto apre spianando la sua Glock a braccia tese.

“Non muoverti o ti ammaz… Massimo?” “Luigi, che intendi fare? Ficcarmi una pallottola in testa?” “Tuo padre sta bene… C’è anche Lella. Sono liberi.” “E chi li ha liberati?” “Gianni. Ha steso Solana.” “Solana? Così si chiama?” “A dire il vero non ho controllato se sia morto… Comunque per un po’ non darà

fastidio.” “Quelli per terra?” “Sono i suoi uomini. Li ho fatti fuori io.” “Ah.” “Ora vai da tuo padre. Ha bisogno di te. Io sto qui a controllare che non ci sia nessun altro.” “Non c’è nessun altro, Luigi.” “Vai da Gianni. Io sto qui di guardia. Non si sa mai.” E questo da dove viene? Sembra un damerino, con quella cravatta. Viene da me. “Papà. Stai bene?” “Sì…” “Lella!” “Massimo.” Perché si abbracciano? Si conoscono bene, allora. “Ti hanno fatto del male?” “Adesso sto bene, fratellone.” “Questo qui per terra chi è?” “È lui che mi ha rapito. Aveva un conto in sospeso con nostro padre, voleva ucciderci tutti. Lo ha steso papà, sai?” “E come?” “Con quel monitor.” “Dove avrà trovato la forza?”

“Non lo so, ma l’ha fatto.” “Dobbiamo stare con papà, d’ora in poi. Ha bisogno di noi.” “Lo so, fratellone, lo so.” Cosa si stanno dicendo? Ma sono Massimo e Lella, i nostri figli. “Papà, ora ce ne andiamo da qui. Siediti sulla sedia a rotelle. C’è una donna, un’infermiera. Si sta riprendendo, dobbiamo portar su anche lei. La direttrice ha chiamato la polizia. Ci penseranno loro a questo farabutto. Dai, papà…” “Bado io a lei. Siediti, papà, Massimo ti porta su.” Devo fidarmi? Sono i miei figli, perché non devo fidarmi? Solana non è più un problema. Eccolo lì, stecchito per terra. Hai avuto la fine che ti meritavi, gran bastardo. Ora voglio solo tornare a casa. “La mamma è a casa?” “La mamma?” “Sì. Dov’è la mamma?” “È a casa. Ti sta aspettando.” “Ah, bene. Allora portami da lei. Io non mi reggo in piedi.” Non vedo l’ora di rivederti, amore. “Ora muoviamoci. Lei sta bene?” “Sì… Ma chi è lei? Dov’è Marco?” “Riesce a camminare con le sue gambe? Se no mia sorella le dà una mano.” “Ma certo che riesco a camminare. Non sono handicappata.” “Bene, visto che non lo è si arrangi.” “Ma come si permette…”

“Forza, Lella, andiamo.” “E questo qui per terra?” “Resta lì. Lo preleverà la polizia. O vuole assisterlo?”

L’infermiera non risponde. Diventa rossa come un peperone, stringe i pugni. Nessuno ora fa caso a lei.

“Ah, ecco, ci siete?” “Sì, Luigi, portiamo mio padre al sicuro.” “Con molto piacere. Qui per ora è tutto tranquillo. Vado avanti io. Socio, stai tranquillo. Vedrai, ti tornerà la memoria, vedrai…” “Marco! Nooo! Marco! Cosa gli avete fatto?”

L’infermiera si getta sul corpo dell’amato. Si sporca il camice del suo sangue, piange senza ritegno. Massimo la prende delicatamente per un braccio per alzarla, lei si divincola e torna sul cadavere dello slavo. Luigi si avvicina.

“Era armato. Se non sparavo, mi uccideva lui.” “Tutte balle! Lo hai ammazzato, brutto bastardo, ammazzato!” “Non avevo scelta… Mi avrebbe ucciso…” “Non devi giustificarti.” “Gianni?” “Sei il mio uomo migliore. Tu non hai sbagliato.”

“Gianni… Allora mi riconosci. Sono io, sono il tuo socio, il tuo compagno di missione, sono Luigi!” “Luigi?” “E va bene, vecchio mio. Ti erà, vedrai che ti erà tutto. Se lei vuole rimanere qui con… Marco può farlo. Ma poi venga su.”

L’infermiera non dà ascolto a Luigi. Seguita a piangere, chinata su di lui, Marco, l’unica persona che al mondo le abbia addolcito il cuore. Piange ininterrottamente, non trova pace, stringe con forza la canottiera insanguinata, come se gliela volesse strappare di dosso insieme alla morte.

“Forza, andiamo. Lei stia un po’ qui. Poi vengo a prenderla.”

La famiglia Franti e Luigi percorrono il corridoio fino all’ascensore.

“Un momento, capitano. Con te non è finita.”

Si voltano. Solana è in piedi, appoggiato allo stipite della porta a vetri della biblioteca. È armato, punta la pistola verso l’infermiera. Là dov’era la cicatrice ora c’è una fontana di sangue, ma non se ne cura. Gli cola sulla faccia, sembra un demonio. I suoi occhi neri prendono fuoco a ogni sfarfallio del neon.

“Non fare sciocchezze, Solana.” “Tu sei quello che parla sempre troppo. Mi ricordo di te.” “Ormai sei da solo, non hai alternativa. Tra poco arriva la polizia. Non fare

sciocchezze.” “Da solo? Ne sei sicuro? Sei finito, lingua lunga. Tu e il capitano siete finiti.” Ma che succede? Perché tutti sono girati? Chi sta parlando dietro di me? Non riesco a vedere. “Te lo dico io chi è. Solana Rodriguez. Si è rialzato e adesso punta la pistola alla tua amica infermiera.” “Ehi, tu. Non credi faccia caldo per rimanere con quell’impermeabile addosso? Il cappello, poi, dovresti toglierlo, almeno per educazione.” “Sono qui per aiutarti ancora. O vuoi che me ne vada? Sono tentato, sai?” “Vattene pure. Non ho bisogno di te.” “Prima mi è parso di sì, quando ti ho liberato dai lacci.” “Beh, insomma… Cosa vuoi adesso?” “Lo vedi quel mobile verde alla tua sinistra?” “Sì, lo vedo.” “Apri il cassetto verde, lì dentro c’è la salvezza. Te le ricordi queste parole?” “Perché dovrei ricordarmi una frase così assurda?” “L’hai sentita tanto tempo fa, in sogno. Ora il cassetto verde ce l’hai. Non ti resta che aprirlo.” “Sei pazzo, tu.” “Mai come te che mi dai ascolto. Io non esisto, ma tu continui a parlarmi.” “Allora la smetto. Io non sono pazzo.” “Quello che ti dovevo dire l’ho detto. Addio, Giovanni Franti. Non credo ci rivedremo più.”

“Aspetta, non credere di cavartela così.” “Ho detto addio. E sii meno stronzo se ti riesce.” “Ma come ti permetti…” “Datti da fare. Hanno bisogno di te, ora.” Il cassetto verde? La salvezza? Ma che cavolo vuole dire? Forse sto dormendo, questo è ancora un sogno. Un sogno… Eppure mi ricordo. Una notte, a casa, avevo Massimo in braccio, era piccolo, davvero piccolo. Come se fosse stato ieri. Cosa c’entra Massimo? “Ehi, capitano?” Chi urla dietro di me? “Allora, scappi, vigliacco?” Io non sono un vigliacco. Adesso mi giro e… Niente. Non riesco. Non ne ho la forza. Sono bloccato dallo schienale. “Lui non scappa, e nemmeno io. Ora posa la pistola.” “Non ci penso nemmeno.” Devo scendere da questa sedia a rotelle, dai, un piccolo sforzo… Ah! Diavolo, che male! Sono per terra. Che idea brillante che ho avuto. “Papà, che fai?” Ma che vuole questo qui? E chi l’ha mai visto? E perché continua a chiamarmi papà? “Forza, puttana, alzati. Mi servi, ora esco da qui con te.” “Lasciami, no! Non voglio!”

“Solana, che intendi fare? Da qui non esci vivo, lo capisci?” “Vuol dire che tutti voi mi seguirete all’inferno.” Ho sentito uno sparo. Che succede? La giovane donna vicino a me si è messa a urlare. Anche l’uomo con la cravatta ora è in piedi. Ho davanti a me una selva di gambe. Tra di esse scorgo una persona con una pistola in mano, dalla pistola esce fumo. Ha il volto color rosso vermiglio. Il cassetto verde. Quale dei tre? Decido di aprire quello più vicino a me, il più basso. Non c’è niente dentro. Devo fare uno sforzo, devo riuscire a mettermi seduto… Ecco. Ora sono all’altezza giusta per aprire il secondo: che delusione, nemmeno qui c’è nulla. Mi metto in ginocchio, così arrivo al terzo cassetto, il più alto… Ecco fatto. È più faticoso aprire questo: dentro c’è sicuramente un oggetto pesante. Fatto. Che c’è in questa sacca lunga di pelle? La forma mi è familiare. Non credo ai miei occhi.

La situazione precipita. Solana ora punta direttamente la canna della pistola sul gruppetto in fuga. L’infermiera giace sul corpo del suo amato Marco, svenuta. Solana ha sparato un colpo di avvertimento, il proiettile è penetrato nel cadavere ai suoi piedi. Luigi è l’unico ad avere un’arma a difesa della famiglia Franti. Tiene puntata la sua Glock sul nemico in fondo al corridoio. Potrebbe sparare, la sua mira è sempre stata infallibile, ma in questo momento la sua sicurezza vacilla: forse perché sa che davanti a lui non ha un essere umano ma una fredda macchina omicida.

“Allora, uomo che parla troppo, mi vuoi dare la tua bella pistola?” “Se no che fai, eh? Dimmi, che fai?”

“Ammazzo questa qui, che domanda. Vuoi sacrificare lei per il tuo amico capitano?” “Se tu la uccidi io ti uccido.” “Se io la uccido poi uccido te, il capitano e la sua famiglia.” “Non ne avresti il tempo, non sei abbastanza veloce, ti faccio secco subito, brutto bastardo!”

La voce di Luigi trema. L’unico baluardo in difesa della famiglia Franti sta perdendo i nervi. Non adesso, accidenti, adesso ci servi lucido, Luigi. Non puoi lasciarti spaventare da questo mostro. Bang. Gli scappa il dito sul grilletto: la pallottola parte e va a conficcarsi nel muro dietro Solana, che rimane imibile.

“Oh, fuori allenamento. Prova ancora, lingua lunga, dai.”

Ora Luigi è pallido come un cencio. Suda vistosamente, la mano gli trema sempre di più. Massimo e Lella lo guardano impauriti, consapevoli che se lui cede per loro è finita. Bang. Spara ancora. Di nuovo sbaglia di molto il bersaglio. Che ti succede, Luigi? Forse per la prima volta nella tua vita hai davvero paura. La tua spavalderia di fronte al pericolo è svanita del tutto. Forse pensi ai tuoi figli, al fatto che ora un tuo errore potrebbe portare alla morte di persone a te care. Bang. Spara di nuovo. Stavolta il proiettile sfiora la guancia di Solana, che non si muove di un millimetro. Non è possibile, si dice. Poi in lui cala la disperazione: in canna ha un ultimo

proiettile, un'ultima possibilità di salvezza. Sprecata questa, li aspetta la morte sicura.

Ma che diavolo ha da sparare questo qui? Fa troppo baccano per i miei gusti. È proprio bello questo fucile. Una volta ne avevo uno così, sì, proprio così. Sembra anche tenuto bene, oliato a puntino, pronto a essere usato, si direbbe. Pesa un quintale, vediamo se riesco a tirarlo fuori… Se potessi trovare la mia mano destra farei la metà della fatica… Ecco. Lo appoggio per terra. Ora rimane solo da recuperare le munizioni. Mi andrebbe sul serio di provarlo. Un momento. Che ho in tasca? Un proiettile. Ed è anche del calibro giusto, che fortuna. Io so come funziona questo affare: tiro indietro questo, infilo il proiettile, lui scatta così et voilà, pronto a sparare. Mi sento come un bambino, non vedo l’ora di fare fuoco, finalmente.

Luigi si prepara. Stringe gli occhi, si bilancia sulle gambe come ha imparato in accademia, impugna aiutandosi con entrambe le mani. Solana sembra divertito. Sta a guardare, nemmeno punta più la sua pistola. Poi inizia a ridere, ride di gusto, quasi ti verrebbe da ridere con lui se non sapessi chi è e non vedessi il suo volto spaventoso. Ha capito.

“Ultimo proiettile, eh, lingua lunga? Forza, io sono qui. Che aspetti?”

Per provocarlo infila la propria rivoltella nella cintola e indica con entrambe le mani l’obiettivo da colpire, in mezzo alla propria fronte.

“Qui, mira qui. Sei capace, lingua lunga?”

Luigi quasi piagnucola, i suoi nervi hanno ceduto di schianto. Sta semplicemente in piedi, in quella posizione da film americano, ma dentro è vuoto, il suo spirito è stato risucchiato dal diavolo in fondo al corridoio. Dietro di lui Massimo e Lella si stringono, sanno che anche per loro tra poco sarà tutto finito. Un’esplosione violentissima rimbomba lungo tutto il corridoio. Il volto di Solana d’un tratto diventa una poltiglia di carne e sangue. Il suo corpo rimane su per un istante, poi si accascia al suolo come una marionetta a cui sono stati recisi i fili che la sostengono.

“Beccato.”

Massimo, Lella e Luigi si voltano. Giovanni sta a malapena in piedi, si appoggia a una cassettiera verde per non cadere. Con la sinistra tiene un’arma, al primo momento non riescono a capire cosa sia; poi realizzano. L’agente Franti è soddisfatto. Ha portato a termine la missione e sorride felice.

Lunedì 13 luglio 2009 (A casa di Massimo e Luisa)

“Come sta tuo padre?” “Meglio. Perlomeno fisicamente.” “Dio mio, non posso crederci. Mi sembra tutto così pazzesco.” “Lo so amore, lo so.” “Se non avessi vomitato l’anima ieri sarei potuta esserci anch’io con voi.” “Lo so.” “Sono incinta.” “Lo so.” “E smettila di dire ‘lo so’. Ma come sai che aspetto un bambino?” “L’ho capito.” “Sei felice?” “Tanto… Sai, mamma ci raccontava che appena si erano conosciuti lui faceva sempre tardi all’appuntamento perché doveva pulire un vecchio fucile. Era di nonno Claudio. Il nonno l’aveva ereditato dal bisnonno che era andato in guerra come sottotenente Era sopravvissuto alla trincea e se lo era portato a casa come ricordo. Lui aveva insegnato al nonno come fare, il nonno lo ha insegnato a papà. Un atempo non proprio adatto per un ragazzino di quindici anni, non credi?” “Lo puliva ogni giorno?” “Era strano, sì. Lui aveva chiesto di farlo. Era come ossessionato da quel fucile. Mamma aveva paura che si fe del male e cercava di dissuaderlo, senza riuscirci.

Poi di punto in bianco papà ha smesso di pulirlo. Lei non l’aveva più visto quel cimelio, scomparso nel nulla da un giorno all’altro. Sperava che il nonno l’avesse venduto, ma non osava chiedere: temeva che ricomparisse di nuovo e che papà ricominciasse. La mamma ci ha sempre raccomandato di non parlare della faccenda del fucile con papà; chissà, le era rimasta la paura.” “Ma non è illegale tenere in casa un fucile della prima guerra mondiale?” “Già. Il nonno non lo ha mai fatto sapere a nessuno, sarebbe potuto andare nei guai. Forse l’ha fatto sparire per questo motivo.” “Dici che quello che Gianni ha usato sia quel fucile? “Non lo so… Può essere… Come è possibile? Dopo tutti questi anni?” “Come ha fatto a finire al residence?” “Non ne ho la più pallida idea. Forse se l’è fatto portare da qualcuno, che ne so… Continuo a cercare una spiegazione razionale ma non la trovo.” “Stringimi.” “Perché?” “Stringimi e basta.” “Credo che lo trasferiscano al piano di sopra. Non so, domani, dopodomani. Questione di poco tempo, si sta liberando un posto. La signorina Tiraboschi è molto disponibile. È contenta che papà rimanga, ora.” “Dov’è adesso tua sorella?” “È da lui.” “Come sta?” “Lella è sempre stata forte. Supererà anche questo.” “Sai, ho deciso come chiameremo nostro figlio.” “Perché, credi che sia un maschio?”

“Se lo fosse, lo vorrei chiamare come il nonno.” “Giovanni?” “Sì, amore. Tuo padre se lo merita.” “E se è femmina?” “Mah…” “Mi piacerebbe Giulia.” “E vada per Giulia. Ma sarà un maschietto, mi dispiace.”

Lunedì 13 luglio 2009 (Al Residence La Quiete)

“Papà, come stai?” “Bene.” “Hai fame, vuoi mangiare?” “Sì…” “Cosa vuoi, papà?” “Cosa voglio?” “Sì, ti ho chiesto cosa vuoi da mangiare.” “Sì, ho fame.” “Accidenti, papà, che ti succede? Sono Lella, non mi riconosci?” “Lella? Lella chi?” “Devi aver pazienza, cara.” “Lei chi è?” “Sono un’amica di Gianni. Ne ho visti tanti nella sua condizione. Credimi, non c’è niente da fare.” “Come si chiama?” “Pina. E tu?” “Lella. Ha conosciuto mio padre, allora.” “Sì. È un uomo meraviglioso, un po’ scorbutico, ma buono.” “Strano, non l’avrei mai detto.”

“In un anno che è qui non ti ho mai vista. Vero, Gianni, che non è mai venuta?” “Cosa?” “Ho un lavoro che mi obbliga a viaggiare all’estero. E poi…” “E poi?” “E poi niente.” Ma chi è questa qui che non si fa gli affaracci suoi? Quanto la odio, vecchia impicciona. “Che hai contro tuo padre?” “Cosa? Io?” “Puoi dirlo a me. Lui tanto non ti sta a sentire adesso.” “Non sono affari suoi.” “Oh, sì che lo sono. Io ho sopportato i modi di tuo padre per tutto questo tempo. Adesso voglio sapere perché ce l’aveva col mondo.” “Perché usa il ato? Papà non è morto.” “Hai ragione, cara. Non è morto, ma non tornerà più da te, né da me.” “Papà è solo malato. Guarirà, vedrà.” “Non è una malattia da cui si guarisce, purtroppo. La cura non è stata ancora trovata. Devi rassegnarti, cara, e guardare tuo padre d’ora in poi con occhi diversi.” “Non è vero… Si rimetterà…” “Lo sai benissimo che non sarà così. Dimmi, allora, perché ce l’hai con tuo padre?” “Ora basta. L’ho sopportata abbastanza. Se ne vada, per cortesia. Voglio stare sola con lui.”

“Come preferisci, mia cara. Sei proprio uguale a tuo padre, scorbutica allo stesso modo. Arrivederci Lella. Io sono nei paraggi se vuoi parlarmi.”

Martedì 14 luglio 2009

“Come stai, Ernesto? Sei sempre più bello, il mio gattino.” “Beatrice, tutto bene?” “Sì, più o meno…” “Hai finito il turno?” “Sì. Lo porto con me, il padrone di casa mi ha dato il permesso di tenerlo.” “Sono contenta.” “Signorina Tiraboschi…” “Sì, cara?” “No, niente.” “Pensi al signor Franti?” “Sì.” “Tra poco sarà in buone mani. Il nostro reparto Alzheimer è il migliore della provincia.” “È che vorrei parlargli ancora una volta, dirgli…” “Lui sa che gli vuoi bene. Adesso va’ a casa. Domani devi essere qui presto, se non sbaglio.” “Ha ragione, capo. Me ne vado.” “Ieri ne sono successe di tutti i colori… Come previsto, siamo sulle pagine di tutti i giornali, ormai il Residence La Quiete è sulla bocca di tutti. Spero solo che tutta questa ressa di poliziotti e giornalisti finisca. Sono stanca di tutto questo andirivieni.”

“Già.” “Beh, se non altro ci farà un po’ di pubblicità. Ora torna a casa. A domani. E vai piano. Ho visto come guidi la tua macchinina.” “Andrò piano. Promesso.”

Giovedì 16 luglio 2009

“Allora, papà, cosa vuoi per cena?” “Ehm… Per cena? Non ha preparato la cena la mamma?” “La mamma è morta, papà. Tanto tempo fa.” “Marta, vieni qui. C’è Lella che ti chiama. Vuole mangiare…” “Insomma, papà, guardami!” “Cosa?” “Guardami, maledizione! Sono qui, qui! Davanti a te, porca puttana!” “Chi ti ha insegnato a parlare così?” “Ti prego, torna in te, te ne prego…” “Chi sei tu? Dov’è Lella? Tra poco devo partire, mi aspetta una missione… Luigi, hai preparato tutto?” “Luigi non c’è… Ti prego, papà, torna in te, io non sopporto un minuto di più questa situazione…” “Adesso ne vuoi parlare?”

Sulla porta c’è Pina. Lella è in lacrime, al colmo della disperazione. Si alza dal letto del padre su cui era seduta e si getta tra le braccia della vecchia. Piange a dirotto, la vecchia le accarezza i capelli.

“È difficile la vita. Non sai quanto. Sfogati, bambina. Sfogati pure.”

“Non è giusto… Niente è giusto…” “Lo so, cara.”

È arrivato anche Massimo, oggi è giovedì, ma stavolta non è servito che una suoneria del suo cellulare gli ricordasse di andare a trovare suo padre. Giusto in tempo per assistere alla scena.

“Lella, che hai?” “Tu sei il figlio di Gianni. Tutto uguale al papà.” “Lei chi è?” “Un’amica di vostro padre. Abbiamo fatto tante eggiate insieme, sai? Ah, vedo che abbiamo compagnia…”

C’è anche Luisa. Con la scusa di doversi risistemare il trucco è rimasta un attimo indietro. Dentro di sé ha avuto un’esitazione: ha paura di vedere Gianni ridotto così. Il suo arrivo è preannunciato dal rumore dei tacchi che nervosamente battono sul pavimento. Senza dir nulla punta dritta dal suocero e lo bacia sulla fronte. Poi va dal marito e si stringe a lui.

“Buonasera. Lei allora è la nuora.” “Sì. Piacere, Luisa.” “Gianni è pieno di persone che gli vogliono bene. È un uomo fortunato. Mi chiamo Pina, sono un’amica di suo suocero. Un’ amica… Ora su, ragazza. Un po’ di coraggio, tuo padre non vorrebbe che tu fi così. Cosa penserebbero poi tuo fratello e tua cognata?”

“Devo scusarmi con lei… L’altro giorno sono stata un po’ brusca.” “Non preoccuparti. Acqua ata. Vai a vedere se è pronta la cena per tuo padre.” “La stanno portando.” “Allora vai a fare due i. Poi torna quando sei tranquilla.” “D’accordo. Grazie…” “Di cosa? Se non ci si consola a vicenda in questo mondo…”

Lella esce dalla stanza lentamente, quasi strascicando i piedi e asciugandosi gli occhi con il dorso di una mano. Rimangono Pina, Luisa, Massimo. Gianni osserva incuriosito ciò che sta succedendo dietro la testiera del letto.

“Ehi… Qui c’è qualcuno… Si nasconde… Dov’è la mia Beretta?” “Papà, non c’è nessuno lì dietro. Adesso arriva da mangiare. Sei alla casa di riposo, non ricordi?” Il tizio con la cravatta, solo che stavolta non la indossa. Che vuole ancora da me? “Alla casa di riposo…” “Sì, papà, ricordi?” “Sì. E… tu chi sei?” “Non lo so più. Credevo di essere tuo figlio ma non mi consideri più tale.” “Tuo figlio? Sono tuo figlio?” “È inutile che insisti, Massimo.” “Come può essere, maledizione? L’altro giorno mi riconosceva. Come è

successo che da un momento all’altro sia diventato così?” “Vallo a sapere come funziona il cervello. Non puoi più parlargli normalmente. È in un altro mondo, con un altro linguaggio.” “Lei se ne intende?” “Ne vedo tanti.” “Amore, è arrivata la cena per Gianni.”

Luisa va incontro all’inserviente in camice bianco che porta un vassoio con sopra minestra, formaggino, purè e prosciutto. Glielo prende e lo porta dal suocero. Dopo aver appoggiato il vassoio sul comodino si siede sul letto e inizia a dargli la minestra. Gli sorride mentre gli porge una prima cucchiaiata.

“Su, è buona. Mangia, Gianni. Apri la bocca. L’ho fatta io, sai?” Però, che sventola! Perché mi vuole dar da mangiare questo brodino schifoso? Ma sì, ho fame. “Ecco, così, bravo. Vedi, amore? Tuo padre è tornato bambino.” “È pazzesco...” “Tua moglie è una brava donna. Sei stato fortunato ad averla conosciuta.” “È stato mio suocero a farci incontrare, lo sa?” “E come?” “Mi ha dato lui il numero di telefono di Massimo. A quei tempi mi serviva un avvocato per il divorzio e così… Buona la pappa, vero? Dai, ancora un cucchiaio.” Ma che, mi tratti come un bebè? Ma io ti voglio portare a letto, bella signora.

“Ora devo andare. Tra poco ceno anch’io. Verrò ancora a trovare tuo padre, Massimo.” “Certo… Certo, signora. Credo che a lui faccia piacere.” “Questo non lo so, ma verrò comunque. Se a voi non dispiace…” “Perché dovrebbe dispiacerci?” “Già. Arrivederci. Arrivederci Luisa.” “Spero di trovarla ancora. Arrivederci, Pina. Su, dai, ancora uno…” “Gli stai dando la cena?” “Lella, sei tornata. Sì. Vuoi dargliela tu?

Luisa lascia il posto a Lella.

“Ecco, papà. Apri la bocca… Così, bravo.”

Venerdì 17 luglio 2009

Che giorno. Venerdì diciassette. Era meglio che non mi svegliassi stamattina. Io sono scaramantico, è più forte di me. E se andando al lavoro mi cadesse un pianoforte in testa? Se ne ho ancora uno di lavoro. Con lo scandalo che è scoppiato col caso Solana non si può escludere nemmeno che l’agenzia chiuda i battenti. Così si servivano di lui come sicario, quando c’era da sporcarsi le mani, Solana Rodriguez era la persona giusta. L’agenzia ha fatto fuori un sacco di persone in giro per il mondo, torturate in chissà quali modi dal nostro amico e dal suo seguito. Anche oggi fa un caldo cane. Stanotte non ho chiuso occhio, me la sono vista brutta là sotto. Ancora una volta il vecchio mi ha tolto dai guai. Dio mio, Gianni, se sono vivo è grazie a te. Ma ora dove sei? Che fine ha fatto Giovanni Franti? In che dimensione è stato catapultato? Magari un giorno tornerà in sé. Chi lo sa, magari mi riconoscerà e si arrabbierà ancora con me. Lo spero. Devo prepararmi la colazione. Stamattina la faccio in casa, non posso permettermi di andare sempre al bar. Non ho ancora imparato a vivere da solo, non ci riesco a svegliarmi la mattina e farmi la barba, riempire e montare la caffettiera, scaldare il latte, preparare la tovaglietta da single per poi mangiare fissando il lavabo pieno di piatti sporchi. Sono ancora vivo. È questo che conta. Solana è stato protetto nel corso degli anni; quando stava per essere scoperto da qualche agente zelante in un modo o nell’altro lo si faceva sparire, lo si copriva, gli si dava ogni informazione necessaria perché potesse prevedere le mosse di chi era sulle sue orme. E farlo secco. Con Gianni e con me questo giochetto non è riuscito, già.

Quasi quasi non mi presento nemmeno all’agenzia, stamani. Vado a trovare il socio direttamente… Ma che vado a fare, continua a vedere fantasmi, non si ricorda neppure chi sono. Rassegnati Luigi, Gianni è come se fosse morto, non c’è più e non tornerà più. Ora fai il bravo e vai al lavoro, che devi pagare gli alimenti. I miei ragazzi, ormai sono grandi. Marietto e Stefano, sono sempre a litigare quei due. Forse è perché è mancata l’autorità paterna; io poi mi sono sempre comportato con loro come un amico. E ho sbagliato. Forse mia moglie non ha avuto tutti i torti a lasciarmi, forse sono ancora un bambinone troppo cresciuto. Ormai sono quasi tre anni, ma mi sembra sia successo ieri. Ora basta. Devo spicciarmi se no arrivo in ritardo. C’è ancora in ballo l’inchiesta interna. Mi interrogheranno di nuovo? Ieri almeno un’ora intera, come se fossi un delinquente a cui bisogna estorcere la verità. Li manderei tutti a… Suonano alla porta. E chi sarà mai? “Sì? Chi è?” “Barbara.” Barbara? Che vuoi a quest’ora? Mancano ancora due settimane alla fine del mese. Vuoi per caso un anticipo degli alimenti, sanguisuga? “Ho saputo cosa è successo. Volevo sapere come stavi.” “Sto bene. Come mai a quest’ora?” “Ah, sono in giro per uffici, un po’ di scartoffie di qua e di là… Così sono partita presto, e visto che avo da queste parti…” Scusa pietosa. Ormai ti conosco, bambina. So capire quando dici una balla solo sentendo la tua voce. Del resto fa parte del mio mestiere, chiamala deformazione professionale.

“Vuoi entrare?” “Sì, se non ti dispiace, e se…” “Non c’è nessuno, non preoccuparti.” “Ah… Bene. Allora entro.” “Stai bene vestita così.” “Grazie. Ho messo la prima cosa che mi è capitata tra le mani.” Certo non indossa un abito da sera ma noto una certa cura nella scelta dei vestiti: calze, scarpette di vernice bianche col tacco, eleganti; indossa una gonna variopinta su un body bianco che mette in mostra le spalle e il collo. I capelli biondi li tiene raccolti con un fermaglio. Come se volesse fare colpo su qualcuno. Su di me? “Sto facendo colazione, tra poco vado al lavoro.” “Lo so… Hai un po’ di caffè?” “Sì. Te lo devo fare.” “Ah, se non ti è di disturbo, se no non importa…” “Nessun disturbo. Entra.” Dalla borsa le spunta una busta piena di documenti. Forse deve davvero andare per uffici. Sentiamo che ha da dire. “Allora? Come sta Gianni?” “Bene, perlomeno fisicamente.” “Chi era quell’uomo?” “Una nostra vecchia conoscenza. Adesso non nuoce più a nessuno, grazie a Gianni. Lo ha ucciso lui, sai? Con un fucile antico.” “Che vuoi dire un fucile antico?”

“Quello che ho detto. Sembra risalga alla prima guerra mondiale. Come stanno i ragazzi?” “Bene. Domani ano.” “Lo so. Ho intenzione di portarli al poligono, se non hai nulla in contrario. Vuoi venire anche tu?” “Lo sai come la penso sulle armi.” Cosa vuoi, maledizione? Sputa il rospo. “Piuttosto… Mi chiedevo… Se invece si andasse tutti insieme a pranzo da qualche parte?” “A pranzo?” “Sì. In un locale carino, così si sta un po' insieme.” Che novità è questa? Al ristorante? Cosa bolle in pentola? “Per me va bene.” “Grandioso. Così parliamo.” “Di cosa?” “Beh, dell’università. Mario si è iscritto a Ingegneria, l’anno prossimo suo fratello vuole studiare letteratura. Non ti hanno detto niente?” Letteratura? Stefano? Questa è bella. “Sì, Mario credo che me l'abbia detto.” “Insomma, bisogna pagare le rette universitarie, per tutti e due.” “Le pagherò.” Sei venuta per questo, allora? Per chiedermi di aumentare l’assegno mensile? “E poi è da un sacco che non stiamo tutti insieme.”

“Forse è perché siamo divorziati. O non te lo ricordi?” “Perché fai sempre il sarcastico? È più forte di te, devi infilare sempre nel discorso una battuta acida.” “Sei venuta per litigare?” “Sono venuta per invitarti a pranzo, tutto qua. Perché… avevo voglia di farlo.” “Adesso ti faccio il caffè. Tra poco devo uscire.” “Possibile non lo capisci? I tuoi figli ti vogliono bene e soffrono per questa situazione.” “Sei tu che mi hai lasciato.” “Non ce la facevo più. Sempre con l’angoscia che non tornassi vivo, sempre col pensiero di diventare vedova. E non c’eri mai…” “Ora ci sono.” “Cosa vuol dire?” “Che chiederò di essere spostato alla gestione dati. Niente più missioni.” “Non lo so… Mi hai detto tante cose in tutti questi anni.” “Stavolta è vero. Ho deciso.” “Non lo so…” “Ti preparo il caffè. Hai pazienza per cinque minuti?” “Sì.” “Stai bene vestita così.” “Grazie. Me l’hai già detto.” “Voglio il meglio per i nostri figli.”

“Anch’io, Luigi.” “A… che ora domani?” “All’una. i a casa?” “Perfetto.” “E…Vorrei andare a trovarlo. Quando si può?” “Prima delle due, poi la sera alle sei, prima della cena, la domenica anche tutto il giorno.” “Ah, bene.” “Non è più il Gianni che conoscevi, ti avverto.” “Che gli è successo?” “Dicono sia Alzheimer. Ma non era così qualche giorno fa.” “Per quanto ne so io è una malattia che si manifesta progressivamente.” “Anch’io credevo funzionasse così. Per Gianni invece è stato da un momento all’altro. Sei sicura di volerci andare?” “Sì. Tu quando vai?” “Se finisco presto anche stasera. Vuoi…” “Stasera ho un impegno.” “Ah, va bene. Un minuto e il caffè è pronto. Non ho nient’altro da offrirti. Devo fare la spesa.” “Fa niente.” “Stai bene con i capelli raccolti.” “Grazie.”

Ma come sei imbranato, Luigi. Sembro un pappagallo: stai bene di qua, stai bene di là… È che stamattina mi ha preso in contropiede. Non me l’aspettavo la sua visita, proprio per niente. Questo dannato caffè non sale e io non ho più argomenti di conversazione. Come si fa a essere imbarazzati con la propria moglie… ex moglie? E poi, che sarà mai questo impegno di stasera? “Tu sei sempre uguale, invece.” “È un complimento, spero.” “Intendo… sei in forma.” “Sai, ho avuto tempo da dedicare alla palestra in questi ultimi anni. Tu che fai, invece? Giochi ancora a tennis?” “Una volta al mese, se va bene. Vado con Monica. Te la ricordi Monica?” “Sì, certo.” Sono ati così pochi anni, come faccio a dimenticarmi la migliore amica di Barbara? Le mollerei un ceffone, mi dà l’impressione che stia parlando con un estraneo. Forse anche lei è impacciata e non sa quel che dice. Sii buono. “Bene… Ora vado.” “E il caffè?” “Ah, sì, il caffè.” “Ancora un attimo e bolle.” “Sì, certo.” “Che impegno hai stasera, se non sono troppo indiscreto?” “No, figurati. Mi vedo con una persona.” “Una persona?”

“Un amico.” “Ho capito.” “Non è come intendi tu.” “A ogni modo che problema c’è? Noi siamo separati, sei libera di fare quello che vuoi.” “Non è come credi.” “E cosa devo pensare allora?” “Devo chiarire delle cose…” “Capisco.” “Controlla il caffè, forse sta salendo.” “È presto.” “Guarda che esce fuori.” “L’ho appena messo sul fuoco, ci vuole il suo tempo.” “E… tu non hai una storia?” “L’ho avuta. È durata poco… Mi conosci.” “Già. Non eri molto presente. Ho indovinato?” “Indovinato.” Colpito e affondato. “Non voglio farti perdere tempo. Bevo il caffè e scappo. Ho una mattinata piena di impegni, mi faranno male i piedi quando sarò di ritorno.” “Cosa devi fare?” “Vado dal commercialista per l’ufficio, poi… Poi… Dove ho messo il

promemoria… L’avevo in borsa… Dopo lo cerco… Insomma, tra un minuto devo andare.” “Allora rimaniamo d’accordo per il pranzo.” “Sì. Saranno contenti i ragazzi, quando ti vedranno.” “Certo…” “Voglio che siano sereni, sei d’accordo?” “Certo.” “Vedo che non ti fai mancare niente, hai un appartamento molto accogliente.” “Ti piace?” “Sì che mi piace. Chi ti ha aiutato ad arredarlo?” “Ho fatto tutto da solo.” “Sul serio?” “Sul serio.” “Beh, non ho parole.” “Ecco, adesso spengo il fuoco. Il caffè è pronto. Vuoi sempre un cucchiaino di zucchero?” “Un cucchiaino, sì, grazie.”

Lunedì 20 luglio 2009

“Grazie… Grazie Pancrazi. Sì, cercherò di rimettermi in forma al più presto. Fammi sapere se ci sono problemi… D’accordo. Chiamami quando vuoi, non avere riguardo, per ogni dubbio.” Mi fido del mio collega, so che i miei pazienti sono in buone mani con Giorgio. Giovanni Franti è stato trasferito da poco al piano di sopra. È completamente assente, mi ha detto Pancrazi al cellulare. In tutta la mia carriera non ho mai visto un caso simile. Mai. Un crollo così improvviso della mente in un anziano non mi è mai capitato. E quel collasso… Come spiegarlo? Se non è Alzheimer allora di che diavolo si tratta? Ah… Non devo agitarmi, appena muovo un dito vedo le stelle. Chi erano quei delinquenti? Non posso nemmeno respirare dal male che ho. Le tre costole rotte si fanno sentire, per non parlare di tutto il resto. Quei maledetti. Ho saputo che qualcuno li ha ammazzati tutti. Che storia incredibile. Vorrei sapere di più, al telegiornale non dicono più niente. Probabilmente è stato imposto il silenzio, credo che siano in gioco grossi interessi. Chi lo sa; intanto posso solo ringraziare dio per essere ancora a questo mondo. Cosa c’entra il signor Franti con tutto questo? Mi sembra una persona a modo, non lo credo capace di azioni criminali, tantomeno me lo immagino coinvolto in delitti e uccisioni. Eppure tutto questo è successo. Lo volevano morto, perché mai? Non ci capisco niente. Ho la sensazione che in qualche modo c’entri anche quella mano mozzata.

Ho sempre trovato curioso che un dottore venga ricoverato in ospedale. Mi hanno conciato proprio per le feste, sono tutto pieno di lividi. Quest’occhio poi non accenna a sgonfiarsi. Non ce la faccio più a stare qui dentro. Forse anche il signor Franti si sentiva così, intrappolato in un posto che in teoria dovrebbe portare benessere fisico e serenità. Non ho mai pensato a come debbano sentirsi gli anziani del residence, perlomeno quelli ancora lucidi. Sempre la stessa stanza. Sempre lo stesso edificio. Per il resto dei propri anni. Dev’essere tremendo, umanamente insopportabile. Basta pensare. Qui dentro penso troppo, e intanto è ata una settimana. Spero che al massimo tra due o tre di giorni mi dimettano. Voglio tornare al mio ufficio, accendere il computer, rivedere i miei appunti, i video sui pazienti che ho girato nel corso degli ultimi cinque anni. Voglio capire di più su quello che è successo nella testa di Giovanni Franti. Magari nel suo caso si può ancora trovare una cura. In fondo non si è ancora sperimentato tutto… Mi è capitato di leggere di una terapia… Ma sì, dove l’ho letto? Sperimentazione americana… Si potrebbe fare… Chissà come lo trovo… Devo sentire… Che sonno che m’è venuto… Quel dannato tranquillante, l’ho detto che non lo vole…

Quasi un anno dopo

Come sono vecchio. Mi guardo allo specchio e trovo un nonno con la barba e gli occhiali. È proprio bella la mia nipotina, è appena stata qui con sua madre. Come si chiama? Su, sforzati, ricorda… Lo sai cosa ti ha detto il dottore… Devi tener esercitato il cervello. Ah, ecco: Giulia. Ha sempre il sorriso, tranne che per questo particolare è tutta suo padre… Massimo. Ancora faccio fatica a tenere a mente i nomi. Ma questo è il meno. Poco fa è venuto a trovarmi un uomo con una vistosa cicatrice sulla tempia. Ha bussato educatamente alla porta ed è entrato. Era senza faccia ma riuscivo a distinguere lo stesso i suoi occhi neri e profondi. Poi è svanito, semplicemente non c’era più. Nemmeno mi ha salutato. Ogni tanto anche un infermiere slavo è della compagnia, mi minaccia un po’, poi diventa paonazzo, fa schiuma dalla bocca e cade a un o da me. Non è piacevole, ma so che è tutto nella mia testa. Così supero il momento. La mia è una forma rara di schizofrenia. Così mi è stato detto. Bene, ho pensato, sono contento come una pasqua. Sono un raro esemplare di paziente schizofrenico. Non so come ma mi sono risvegliato da una specie di sonno. Non ricordo nulla del mio ato recente, mi è stato raccontato che ho rischiato davvero la pelle e che sono stato eroico… Eroico? Pian piano però risalgono a galla frammenti della memoria. Per ora sono solo immagini sfocate che si materializzano davanti agli occhi per un breve istante. Sono fiducioso: pian piano ricostruirò il mio ato. Ma non ho poi così tanta fretta. Sono solo in questa stanza, la solitudine però non mi disturba. Sto bene, sento solo un pizzicore fastidioso in fondo al braccio destro ma non ci faccio caso.

Stamattina c’è fresco. È ato un inverno piuttosto rigido, almeno da quello che mi hanno riferito, perché io non me lo ricordo. Ora la primavera sta bussando alle porte ed è un piacere uscire a fare due i prima della colazione. Non ho fretta di andare a sedermi al tavolo, tanto so che Pina mi terrà il posto. È una donna piena di energia e mi piace. iamo insieme tanto tempo, eggiamo, balliamo, facciamo all’amore. Il suo nome non faccio fatica a ricordarmelo. Viene sempre a trovarmi una persona che dice di essere un mio ex collega. È un chiacchierone, mi sta simpatico. Pare si sia riconciliato con la moglie, erano separati da un pezzo, mi ha detto. E io in qualche modo sono stato il motivo del loro riavvicinamento. Si chiama… Lu… Lu… Per quanto mi sforzi, non me lo ricordo. Quando mi parla fingo di rammentare i fatti e gli avvenimenti di cui mi racconta; a volte ho un flash, ma è solo un attimo. Sostiene che io sia stato un agente segreto: come è possibile? Io, una spia armata fino ai denti mandata nei posti più remoti della Terra a sovvertire governi e ad ammazzare persone? Sinceramente non mi ci vedo. Mi starà prendendo in giro, è un mattacchione quello lì. Quando dormo sogno di avere tra le mani un vecchio fucile. Lo smonto, lo ingrasso e lo rimonto. Le mie mani sono quelle di un ragazzino, candide, piccole. È un sogno ricorrente, a volte è talmente realistico che non mi pare nemmeno di star dormendo. Lo racconto sempre a un altro dottore che praticamente ogni giorno viene a trovarmi: mi visita e poi si mette a farmi un sacco di domande. Mentre io parlo lui prende appunti. Che cavolo sono, una cavia da laboratorio? Più o meno sì. Questo dottore, un giovanotto dalla calvizie precoce di cui naturalmente non ricordo il nome, mi ha detto che probabilmente si tratta di un trauma del ato mai del tutto superato. Ma quale trauma, gli vorrei rispondere io, a me fa piacere fare questo sogno. Non vorrei mai svegliarmi. Mentre traffico con l’arma, mio padre (è mio padre?) assiste e mi guarda soddisfatto. Insomma eccomi qui, uscito da una dimensione parallela, ma non del tutto. Tra le persone che periodicamente vengono a trovarmi, c’è anche un’infermiera ragazzina dallo sguardo dolce e dai capelli biondi e un signore anziano. Con quest’ultimo e con altri Pina e io iamo interi pomeriggi a giocare a carte.

Facciamo puntate in denaro, in squadra con Pina ho fatto un bel po’ di grana. Questo tizio non mi è molto simpatico ma è premuroso e gentile con me. Così sopporto i suoi monologhi fiume e lui mi dà un po’ di nozioni sull’uso del computer. È piuttosto bravo nel suo campo, questo lo devo ammettere. Lella, mia figlia, mi viene a trovare quasi ogni giorno. Mi ha detto di aver conosciuto una persona, proprio qui, in questo posto. Non ha voluto svelarmi subito chi è. Mi sono guardato intorno per un’intera settimana, cercando di indovinare chi potesse essere. Ha messo in me una curiosità tale che quasi non ci ho dormito la notte. Poi un giorno arriva con lui e me lo presenta. Rimango di stucco: è il dottorino con la calvizie precoce che mi fa un sacco di domande. Hanno avuto modo di vedersi spesso quest’inverno, quando ero, per così dire, assente. Alla fine sono stato io la causa del loro incontro e la cosa, tutto sommato, non mi dispiace. Tra poco a la biondina a portarmi la medicina. Farà come sempre: mi sussurrerà parole dolci e poi se ne andrà lasciandomi all’asciutto. La devo prendere tre volte al giorno, tutti i giorni… la medicina intendo. Mi fa venire un’emicrania tremenda, ne farei volentieri a meno ma, mi è stato detto, è l’unico rimedio alla mia patologia, e devo essere veramente fortunato se un rimedio è stato trovato. Sembra un siluro, ha una forma oblunga, è trasparente e lucida. La mando giù d’un colpo senza pensarci tanto. Ho la memoria che fa acqua da tutte le parti, ogni tanto vedo persone che non ci sono, non riesco ad afferrare nulla con la destra senza che mi cada, ho la testa che a volte sembra scoppiarmi letteralmente ma, per il resto, sono sereno. In fondo i ricordi che ho mi bastano; soprattutto so di avere una famiglia che mi sta vicino e a cui non rinuncerei per niente al mondo. Come sono vecchio. E come sono felice, di poter parlare ancora con le persone, di poter ancora respirare l’aria fresca della mattina, di poter ancora amare. Mi guardo allo specchio e sorrido. Vecchio barbone rincoglionito.

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