Che Te Ne Fai Di Un Cielo Senza Stelle? 6w639

Alessio Poeta

Che te ne fai di un cielo senza stelle?

CHE TE NE FAI DI UN CIELO SENZA STELLE?

Che cosa diavolo fai se scopri che il tuo fidanzato va a letto con un altro uomo conosciuto in palestra?

E cosa pensi di quelli che ti chiedono rispetto mentre “WhatsAppano” con altri uomini?

E’ giusto, nella vita, non dare seconde chance a nessuno?

Questi sono i dubbi di Valerio. Valerio Falabella, un ragazzo romano che dal giorno alla notte perde tutto. Ma proprio tutto. Tranne la dignità, le sue dieci (assurde) regole per affrontare la vita e una mamma di troppo. Non si arrende e, per dimenticare il grande amore, cambia città, lavoro e amici. Nel frattempo twitta, chatta e a il resto dei suoi giorni a cercare un “nuovo” grande amore. consapevole che oramai in amore non vince più chi fugge, ma chi è online su WhatsApp e non risponde. Riuscirà Valerio a sfruttare la preziosa combinazione di bella presenza e faccia da culo per rimettersi in gioco nel mondo del lavoro, evitando di finire a letto con le persone sbagliate?

Alessio Poeta, dopo aver scritto per alcune riviste di costume e cronaca rosa, tenta il colpaccio con il suo primo romanzo “fuxia”. Nato nel 1986, vive a Roma da solo e a il resto dei suoi giorni a cercare uomini, disposti a mantenerlo senza nulla in cambio.

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CHE TE NE FAI DI UN CIELO SENZA STELLE?

ALESSIO POETA

Prima edizione digitale 2014 Le vicende narrate in questo romanzo sono pura finzione, frutto dell’immaginazione dell’autore. I riferimenti a persone, luoghi, eventi, aziende, istituzioni esistenti sono da considerarsi esclusivamente occasioni narrative, e vengono qui utilizzati in maniera fittizia solo in quanto repertorio di un immaginario condiviso.

A Michele, perché se non mi avesse lasciato, forse non avrei mai avuto il coraggio di scriverlo davvero.

1 CONFESSIONI

Sbababam. Suona il citofono. E, come da copione, ogni volta che qualcuno citofona, mi cade la cornetta. Da sola. «Chi è?» esclamo ad alta voce, mentre con tutte e due le mani cerco di recuperare la cornetta suicida. «Siamo noi!» Che poi: che glielo chiedo a fare? Il mio amministratore ha fatto spendere duecento euro a famiglia per un videocitofono che farebbe invidia anche a Paola Ferrari. «Salite. Primo piano a sinistra». Particolari che potrei anche evitare di dire a chiunque. Soprattutto quando dietro quel «siamo noi» si nascondono: Marco, Gaya, Alex, Monica e Pamela. I miei migliori amici. I miei compagni di sventura. Le mie certezze a qualsiasi ora della giornata. Apro la porta ed entrano uno alla volta, come soldatini, con delle facce da funerale. «Scusate, ma quello tradito non sarei io?» «Si, ma a noi dispiace. Chissà come starà anche Michele. Noi, in fondo, gli vogliamo bene». Ecco. Questo è Marco. Il mio migliore amico di sempre, che non perde mai occasione per stare zitto. Che poi nella vita di tutti i giorni lui non parla mai. Ma appena parla, sbaglia. Almeno con me. Gaya, per evitare che io potessi ucciderlo con il maneki neko senza pile, ne approfitta subito per fare un appunto sul mio angolo cottura. «Come fai ad avere la cucina sempre così pulita? Guardate che lavello luminoso». «Gaya, ti risulta che c'è mai una sera che io mangio a casa?»

«Si lo so, ma magari Michele mangiava a casa». «Si Gaya. Mangiava a casa mia, ma non con me a quanto pare». «Scusami, non volevo». Non capisco perché continuano tutti a nominare il suo nome invano. Io quel nome non lo voglio sentire. Quel cognome da ieri non lo voglio più leggere neanche sulle etichette dell'omonima birra. Ma a quanto pare dovrò ancora aspettare un bel po’. «L’hai detto a tua madre?» mi domanda Monica. «Si. Ma era meglio se non lo facevo». «Come mai?» «Perché mia madre, anche davanti l'evidenza, pur di non dare ragione a me la da agli altri. Dice che se lui mi ha tradito avrà avuto i suoi buoni motivi, e mi ha anche detto che secondo lei io sono poco ionale. Capite? Quella che sta parlando non è quel pachiderma della mia vicina, ma mia madre».

«Ma sai com'è fatta. In fondo ti vuole bene» mi ricorda un silenzioso Alex. «Si Alex, ma proprio in fondo in fondo». Per spezzare quel clima da fine del mondo provo ad offrire un caffè. «Chi prende un caffè Nespresso?» «Io». «Io». «Io» «Io». «Io» Ecco: in questi momenti un disgraziato come me vuole morire. Il totale economico di cinque caffè Nespresso mi avrebbe permesso di comprare due terzi della Polinesia. Ma si sa: "ostentare benessere anche quando sei un poraccio" rientra tra le mie dieci regole. E quella dell'ostentazione batte pure quella di “mai carboidrati dopo le 21.” Che è di gran lunga più originale rispetto a quelli che dicono fino alle 18. «Posso farli io i caffè? Vi prego!» chiede Pamela, mentre si diverte a frugare tra le capsule colorate. «Che cialda volete?» «Pamela non si chiamano cialde. Si chiamano capsule» precisa subito Alex. «Va beh, chi se ne frega. Scelgo io per tutte: oro come George Clooney». «Volluto» precisa Alex. «Che fai l'esperto? Per me è oro». «Sai, lavoro proprio per la multinazionale che ti sta permettendo di poter scegliere quale tra i duemila caffè fare».

Mentre le due prime donne, una vera e l'altra quasi, battibeccano, io ho un unico pensiero: come cazzo faccio a dimenticarlo? Si, dimenticarlo. Perché io non voglio fargli la guerra. Non voglio fargli le macumbe come ho fatto al mio ex direttore. Io voglio scordarmi di lui, di quello che ha fatto e di quello che non mi ha mai fatto ma che io speravo mi fe. A placare i miei pensieri uno strillo. È Pamela. «Oddio, ho rotto la macchinetta» «Macchina, si chiama macchina!» ribadisce Sapientino junior. Io invece voglio morire. Di nuovo. Oltre al cuore, pure la macchina del caffè si è rotta. Che poi, prima che ritroverò lo scontrino per la garanzia, quest'ultima scadrà senza troppi dubbi. Ma in parte tiro pure un sospiro di sollievo. Posso tirare fuori la moca con il caffè dell'Eurospin. In questa casa tra il mio ex, qualche suo amante e i vari pellegrini alla ricerca di benedizione, tutti volevano il caffè. Mai una volta che qualcuno diceva: «No, preferirei dell'acqua» Mai. Oddio l'ho detto. Ho detto quello che mai avrei voluto dire. L'ho chiamato come non avrei mai voluto chiamarlo. EX. «Ed ora cosa faccio?» chiede Pamela ancora incredula del grave danno fatto.

«Lascia stare Pamela ci penso poi io». «E il caffè?» «E il caffè ve lo prendete poi al bar. Non siete venuti qui per consolarmi?» Pamela è forse la mia migliore amica. Ha trentotto anni ma per tutto il silicone che si è messa qua e la ne dimostra almeno quarantotto. È un’ ex letterina ed oggi si spaccia come fashion blogger per andare ogni tanto in qualche salotto pomeridiano. Non si arrende. Ed è per questo che io la amo. Non la pagano e lei continua ad andare. Imperterrita. È l'amante di un senatore di centrodestra che le promette da una vita un programma tutto suo. Peccato che il programma servirebbe prima al suo partito, ma questa è tutta un'altra storia. Lui ovviamente è sposato con una nota giornalista di mamma Rai che non lascerà né ora né mai. Soprattutto per Pamela. Ci sediamo tutti e cinque sui due divani di Ikea. Entrambi due Klippan. Tanto carini quanto scomodi. Ma costavano talmente tanto poco che erano così perfetti per iniziare ad arredare casa. Mentre su Canale5 inizia una nuova puntata di “Uomini e donne”, io inizio a parlare di quello che è successo realmente l'altra sera. Lui era uscito per andare in palestra come ogni sacrosanta sera. Di norma ci restavo male, perché lui andava non appena io rientravo a casa. Era sempre la stessa storia: io entravo e lui usciva. Ma poco importa. In fondo io ci resto male per ogni cosa. Volevo farmi una doccia rilassante e allora mi sono diretto in camera da letto. Li c’è il dolby surround accompagnato da un filo lungo e nero che, se inserito nell'iPhone, riproduce la mia musica. La mia libreria musicale. Era una cosa che facevo sempre. Mentre avo il folletto, mentre cucinavo e mentre facevo l'amore. Si, perché io, da romantico ionale quale sono, non accendevo le candele ma almeno alla musica non ho mai detto no. Spaziavo a seconda dell'entusiasmo della serata. avo dalla musica classica ai disco remix di Amanda Lear. Quella sera però vicino al solito filo lungo e nero, c'era l'iPod. Quello che mi costò un sacco di soldi quando glielo regalai. Volevo fare lo splendido in un giorno come tanti. Gli piaceva. Ero con lui. Disse «quanto lo vorrei» ed io, avendo letto il prezzo, ovviamente sbagliato, glielo presi. Peccato che al momento del pagamento stavo per lasciarci le penne. Per la cronaca avevo letto il prezzo di un mp3 nano che era intorno a 19,90€ contro i 190€ da me

sborsati. Vedendo quell'iPod pensai: «magari stavolta cambio musica e ascolto qualcosa di nuovo». Non sono mai stato democratico con il prossimo sulla scelta delle playlist. Ma quella sera avevo bisogno di cambiare e di sentire realmente qualcosa di nuovo. Tolsi velocemente il blocco tastiera e mi si aprì la stessa home di un’iPhone. Non capivo bene. Non ci avevo mai smanettato e onestamente mi sembrava così strano che ci fossero le stesse icone del mio cellulare. Ho anche improvvisamente giustificato tutti quei soldi spesi. Peccato che prima di cliccare l'app in basso a destra, quella con scritto “Musica”, il mio dito si fermò sulla prima applicazione , quella dei “Messaggi”. C'è da sapere che sempre, tra le mie dieci regole, alla numero quattro spunta quella del “FATTI I CAZZI TUOI PERCHÉ POI COME SEMPRE CI RIMETTI TU”. Ma in quel momento le mie regole, i miei comandamenti e i miei credo si erano andati tutti allegramente a farsi fottere. Mi batteva forte il cuore. Come se stessi facendo qualcosa di proibito. La più grande trasgressione dell'ultimo secolo. Come se lo stessi tradendo. E in effetti lo stavo facendo. Avrei tradito la sua fiducia. Ma, in fondo, la cartella messaggi poteva essere anche vuota. Che ne sapevo di cosa avrei potuto trovare? È pur vero che sull'app c'era riportato un 1. In rosso. Come ad indicare un messaggio da leggere, ma magari poteva essere un normale avvertimento del gestore della scheda. Che poi mi chiesi: ma quale scheda? Questo non è un cellulare. È un finto iPhone che deve solo ed esclusivamente riprodurre musica. Senza se e senza ma. Tutto sudato mi alzai e andai a chiudere la porta del salone con due mandate. Così, se fosse rientrato per sbaglio, avrei avuto il tutto il tempo per bloccare di nuovo la tastiera. Tornai vicino a quell’iPod e a quel maledetto filo lungo nero. Cliccai su messaggi e mi si aprì un mondo. C'era tutto. Ma proprio tutto. Tutto quello che non avrei mai voluto vedere. Nomi di uomini. Tanti. Troppi. Quasi tutti sconosciuti e poi c'era anche il mio nome. Ma quasi in fondo. Perché con me non usava mai IMESSAGE ma solo WhatsApp. In quel momento, ancor prima di trovare il coraggio di aprire il contenuto di quegli sms, ho pensato che forse sarebbe stato il caso di chiudere l'acqua della doccia. Erano dieci minuti buoni che usciva acqua bollente e i vapori erano arrivati fino a casa della vicina che, stranamente, ancora non si era sentita. Il primo nome delle lista era Mattia. Dopo il nome c'era una strana emoticon gialla. Una bocca col sorriso stretto e cucito. Ci cliccai sopra e dal basso verso l'alto lessi: «Amore mio, arrivo. Aspetto lui, saluto e ti raggiungo»

Li mi prese un colpo. Non tanto per l'amore mio. Perché noi gay riusciremmo a chiamare “amore” anche Benito Mussolini. Mi prese un colpo per quell’ «ASPETTO LUI». Lui chi? Io ho un nome. Un cognome e sono pure il suo compagno, nonché il suo convivente. Il messaggio che lo precedeva veniva da Mattia. Gli chiedeva se doveva aspettarlo stasera al “solito posto”. E nella cronologia dei loro sms il solito posto veniva nominato spesso. Quale sarà mai stato questo solito posto? Chi è Mattia? Perché non l'ha mai portato a casa? Perché non me l'hai mai nominato? Salgo nella cronologia e ci sono infiniti messaggi di buongiorno. Duemila botta e risposta a suon di dolce notte. Roba che a me non mi ha mai inviato neanche nei primi mesi di love story. “Ciao amore mio ti penso.” “Ciao amore mio vado a fare la spesa.” “Ciao amore ti aspetto a casa.” Ecco, quando ho letto “ti aspetto a casa” sono ufficialmente crollato. Ho ato venti minuti a capire se quel messaggio l'aveva inviato Michele piuttosto che Mattia. Sfondo grigio o sfondo blu? Il blu è Mattia? O è Michele? Non potevano esserci da una parte quelle inviati e da una parte quelli ricevuti? Un po’ come si faceva con il buon Nokia 3210, no?

Spulciai tutto e lessi attentamente ogni singolo messaggio. Ed io non ero mai nominato. Anzi si. Ecco che il mio nome spuntò fuori. «Lui è andato a farsi i capelli dalla mamma. Starà fuori un'ora. Ce la fai a are a casa?». Precisiamo una cosa: così o pure da sfigato. Mia mamma ha lavorato per anni da Aldo Coppola, e non fa i capelli a casa se non al qui presente. In più mia madre mi rasa solo i capelli avendo una "boccia" perfetta. Ma quello che mi uccise in quel momento fu la risposta di Mattia. «Cinque minuti e sono da te». Il cuore mi batteva forte. Pensavo di svenire e di collassare con l'iPod in mano. Sudavo. Mi veniva da vomitare. L'aria mi mancava, ma quella era tutta colpa dei vapori. Non solo mi tradisce con Mattia, ma pure dentro casa mia? No. No. Vorrei buttarmi dal mio balcone, ma sono al primo piano e male che vada, mi romperei un piede ed ora quel piede mi servirà come minimo per prenderlo a calci nel culo. È finita la cronologia dei messaggi con Mattia e dietro gli altri nomi di maschi sconosciuti ci sono messaggi semplici, con le solite domande e con le solite risposte secche. «A che ora ti alleni?», «vieni in palestra oggi?» La risposta era quasi sempre la stessa: «dalle 20 in poi». Per lui la palestra era un chiodo fisso. Io non mi capacitavo. Sudare e faticare erano due cose alle quali non poteva rinunciare. E lo credo bene. Io, in piedi, piego almeno 8 ore no stop maglie, jeans e camice da Zara. Lui sta tutto il giorno seduto in ufficio con l'aria condizionata e con Facebook aperto dalle 09 alle 18. Pure nell'ora di pausa pranzo resta davanti al pc. In sintesi, gestisce i contratti di alcune soubrette della tv e si preoccupa della loro retribuzione. Finiti gli sms non sapevo cosa pensare. Dopo quattro anni era come se mi fosse caduto il mondo addosso. Avrei voluto lanciare l'iPod e far finta che non fosse successo niente. Ma non potevo. Quelle erano le uniche prove che mi restavano per poterlo denigrare e per poterlo mandare a fanculo. Avrei potuto chiedergli spiegazioni, ma di cosa? Li non c'era altro da aggiungere. Avrei potuto chiedere di questo Mattia, e di conseguenza anche di tutti gli altri nomi a me estranei. Ma cosa mi sarebbe cambiato? Lui mi tradiva. Lui scopava con altri. Lui amava un altro. Perché su quei messaggi qualche ti amo di troppo c'era. Non volevo

ammetterlo neanche a me stesso. Speravo che fossero quelli che Mattia inviava a Michele. Invece no. Era il contrario. Gaya con le lacrime agli occhi mi guarda e esclama: «Io non ci credo. Non ci voglio credere. Ma Michele non era così. Non ci credo». «Gaya, devi crederci purtroppo. Michele è un uomo come tutti i tuoi ex. E' un uomo anche se ama prenderlo nel culo» rispondo in un momento di rabbia. Si, rabbia, perché mentre ne parlo lo vorrei vedere stramazzato al suolo. Ma purtroppo se penso a dove sarà non posso non immaginarlo a casa di Mattia. O peggio ancora a casa con Mattia.

Gaya è una cara amica sin dai tempi del liceo. Stesso banco per cinque anni. È sentimentale. È dolce. Un po' sfigata in amore e terribilmente frociarola. Frequenta solo omosessuali e bisessuali. Ma i secondi solamente perché non li riconosce. Prima ci finisce a letto e poi ci diventa amica. «E poi non hai trovato nient'altro?» mi chiede Gaya. «Beh. Se per nient'altro intendiamo foto di scopate, cazzi, baci, pomiciate e leccate, allora stiamo a posto». «Cooooosa?» esclamò tutto incuriosito Marco. Lui appena sente parlare di cazzi o giù di li impazzisce. Perde la ragione. Mentre parlavo neanche mi sentiva perché era tutto intento a leggere il labiale, visto il volume muto della tv, di Tina Cipollari. «Si, Marco. Sono andato poi su immagini e li c'erano tutte le foto sincronizzate dal computer e dall'iPhone. Più quelle scattate dall’iPod e quelle scaricate da WhatsApp. La cosa peggiore era che nelle foto si vedeva e riconosceva benissimo il nostro letto. Le mie coperte ghepardate, prese a Maison du monde e i cuscini di Mediashopping. E per finire in bellezza: avete presente il telecomando? Questo qui? Beh, Mattia amava metterglielo nel culo!» Nessuno parlò più. Tutti restarono senza parole. Avevano paura di dire la cosa sbagliata. Monica disse a mezza voce «Sono schifata». Gaya piangeva. Alex messaggiava con il nuovo tipo. Pamela si limava le unghie in un modo nervosissimo e Marco cercava di capire cosa la Cipollari stesse urlando. «E poi cos'è successo?» chiese Pamela. «Niente di così straordinario. Nella vita ho sempre pensato che se un giorno avessi scoperto un tradimento avrei fatto e avrei detto talmente tante cose, che non ho fatto nulla di quello che potevate immaginare. Ho pianto. Tanto. Pensavo a cosa avessi fatto di così tanto sbagliato per meritarmi questo. Gli sono stato sempre vicino. Quando dovevo ma anche quando non dovevo. Quando morì morta la mamma, io e la mia famiglia l'abbiamo trattato come un figlio. Come uno di noi. Come un fratello. Come uno di casa». «Ed è forse qui che hai sbagliato» disse Pamela mentre si ava il solito smalto color fango.

«Scusa, e cosa avrei fatto di tanto sbagliato io?». «Ancora non hai capito che gli uomini non li devi mai trattare bene? Non devono mai sentirsi tranquilli. Devono stare sempre sul pronto chi va la». «Ha parlato lei, che di uomini se ne intende. Stai bruciando la tua vita dietro ad un uomo che da te vuole solo una cosa: il culo», disse con un tono poco amichevole Alex. «Tu fatti i cazzi tuoi. Che almeno lui ha voluto il mio di culo e non il tuo». «Grazie ragazzi. Menomale che ci siete voi che portate fuoristrada la mia tragedia». «Scusalo, prosegui».

Nonostante tutto, a me questi siparietti facevano tornare il sorriso. Alex e Pamela si vogliono un bene dell'anima ma sono troppo protagoniste per essere troppo amiche. «Niente, io ho fatto il signore. L'ho chiamato in lacrime. Gli ho detto “Stronzo”. “Sei una merda”. “Mi fai schifo”. “Ho visto tutto”. “Ho letto tutto”. “Voglio morire”. “Ti sputtanerò”. “Ti rovinerò”. Ed ho attaccato». «E lui?» chiesero tutti insieme all'unisono. «E lui non mi ha né richiamato, né cercato, né citofonato, né chiesto scusa. Niente. Il problema è che lui non ha dietro le chiavi di casa e qui lui ha tutto. Quindi, a meno che non voglia regalarmi l'intera cabina armadio, prima o poi dovrà farsi vivo». «Giurami che ti ha lasciato il MacBook Pro» chiese Pamela. «Certo. E ieri notte l'ho anche . Ed ho scoperto che con Mattia era proprio partito. Vi ricordate qualche settimana fa quando vi dissi: “Andiamo dall'indiano che tanto Michele non c'è”? Beh, io credevo che fosse andato dalla famiglia in Puglia. O meglio, io sapevo e credevo che lui fosse andato li. Invece, grazie al MacBook, ho trovato i biglietti salvati della Ryanair che lo vedevano in viaggio verso Parigi con Mattia. Io, dopo quei biglietti, gli ho mandato una mail lunghissima. Perché dietro la mail ho trovato il coraggio di dirgli tutto quello che pensavo. Tutto quello che guardandolo negli occhi non avrei mai avuto il coraggio di dirgli». «E ti ha risposto?» chiesero di nuovo all'unisono come il coro dell'Antoniano. «Si. Quasi subito, ma con una mail vuota». «Amico mio, io te lo dico con il cuore in mano. Neanche fossi Barbara D'Urso. Ma tu devi ricominciare a vivere. A sognare. Ad essere il Valerio che conoscevo io. Che conoscevamo noi. Dietro a questa storia ti sei logorato a sufficienza. Hai annullato la tua vita per quattro fottutissimi anni. Noi non esistevamo più. Per te c'era solo lui. Ti ricordi cosa hai fatto al mio compleanno?» disse un Marco stranamente esagitato. «Mmm no».

«Ecco, te lo ricordo io. Non sei venuto. E sai perché? perché Michele aveva un influenza intestinale. Manco avesse avuto bisogno di te per pulirsi il culo. Anzi, sincerità per sincerità, tu il culo gliel'hai pulito sempre. Lo dipingevi come quello che non era. Come l'intellettuale di questo cazzo. Invece è come tutti. Vive di social. Sta sempre su Facebook a controllarsi i mi piace. Uno per uno. T’immagini cosa potresti trovare nella sua posta in arrivo di Fb?». «A questo punto non lo voglio neanche sapere. Sto male Marco. E sto ancora più male dopo queste parole. Ho sbagliato tutto. Credevo che l'amore fosse questo. Fosse stare insieme h24. Invece no. Scusatemi». E in questo momento mi abbracciarono tutti, tranne Pamela, ancora intenta a stendersi lo smalto che si è ritrovata magicamente nella shopper, senza pagare, alla Coin di via Cola di Rienzo.

«E' ora di rinascere. Ora ti presento io qualcuno» disse Alex. «Allora stai a cazzo dritto amico mio. Alex ti presenterà qualche suo avanzo. O qualcuno che a lui non piace così da poter dire: "lo vedi che sono generoso e non geloso"?» disse Pamela. «Neanche ti rispondo, succhia cazzi». Ed è in quel momento che ho deciso di ricominciare. Di non fermarmi a piangere e di smettermela di pensare a quello che mi era successo. Era arrivata finalmente l'ora di riprendere in mano la mia vita. Di cambiare vita e, perché no, anche città. Si, perché ho sempre creduto che Roma fosse un po' troppo vecchia per me. Avevo bisogno di sognare. Avevo bisogno di città contemporanee. Sognavo Berlino. Da tanto.

2 PAOLO FOX TI ODIO

SAGITTARIO: Oggi è il grande giorno. Grandi cambiamenti in atto: Saturno è dalla tua parte e Giove ti guarda sorridendo. Agisci e non rispondere. Diciamo che Paolo Fox, a forza di parlare di cambiamenti, prima o poi ci doveva pur prendere. Ma da oggi voglio provare a voltare pagina davvero e non come dicevo ogni volta che lo leggevo. Voglio scrivere un nuovo progetto come dico io e non come dicono gli altri. Voglio stravolgere la mia vita e per prima cosa non voglio tornare a lavoro. Che scusa mi è rimasta per non andare? Mmmm, vediamo. Le malattie le ho usate tutte. Interventi immaginari? Pure. Cancelli elettronici rotti? Pure. Chiavi sparite? Anche. Lavastoviglie straripanti? Vecchissima. Ok, vado a lavoro. Vado promettendomi di non ammorbare tutti i miei colleghi sull'evoluzione della mia vita privata. Non faccio in tempo a metabolizzare tutte queste promesse che mi cade l'occhio sull'orologio in salone. Cazzo è tardi. Tardissimo. Mi lavo, mi vesto e mi metto la solita crema della Vichy antisudore. Esco, corro in garage, prendo la macchina, chiudo il box, apro il cancello e mi metto nel traffico. Possibile che, pure con le scuole chiuse, tutta Roma è per strada? Non ci si crede. Ogni mattina la stessa storia. Alla radio trasmettono la canzone del Re Leone "Can you feel the night," cantata da Elton John e penso subito a quando vedevo il cartone con Michele prima di addormentarmi. OK SONO UN TESTA DI CAZZO, SONO UN TESTA DI CAZZO E SONO UN TESTA DI CAZZO. Mi ero ripromesso di non pensarci, eppure basta una canzone per resettare tutto quello che mi ero imposto. Arrivo alla metro, timbro il biglietto e faccio appena in tempo ad entrare prima che le porte si chiudano. Ovviamente in un vagone nato per cento persone, siamo come minimo in trecento. Tutti vicini. Faranno ottanta gradi e i vetri, come sempre, sono chiusi. Ma possibile che nessuno senta mai caldo? Provo ad aprire un vetro e la signora seduta sotto, con Famiglia Cristiana in mano, mi guarda come se le avessi buttato il settimanale tra le rotaie. Mentre cerco di trovare la posizione giusta per non travolgere i miei vicini, mi ricordo di non essermi lavato i denti. E di non aver lo spazzolino dietro. Ed ecco

manifestarsi il primo accenno di cambiamento: sto diventando uno zozzone. Si alza il ragazzo bengalese seduto davanti a me e ne approfitto per sedermi. Che fortuna. Nella mia borsa c'è il nuovo romanzo della Mazzantini e non vedo l'ora d'iniziarlo. Non faccio in tempo a tirare fuori il libro che sento subito un qualcuno, di sesso non del tutto maschile, che esclama: «Amoooooooore!». Ecco, in quei casi, quell'”amore” potrebbe essere rivolto a tutti e a nessuno. Ma io, vittima di protagonismo da sempre, già so che è diretto a me. Infatti non mi sbagliavo. E' Simone. Un mio caro amico. Un ragazzo tanto buono, quanto poco discreto. Conosce benissimo Michele. Sono della stessa città e sicuramente conoscerà bene anche tutte le sue avventure extra sentimentali.

«Ma Michele come sta? E’ un sacco di tempo che non lo vedo. L'ho incontrato un giorno con un suo amico verso Via Cola di Rienzo». Vorrei dirgli che mi sono lasciato, ma non credo ce ne sia bisogno perché lui già sa tutto. E' uno di quei gay che finge di non sapere. Cerca solo conferme. E allora io, più infame che mai, gli rispondo depistandolo. «Michele? Michele sta benissimo. Stanotte abbiamo festeggiato il nostro anniversario. Un sogno. Mi ha anche regalato la fedina di Tiffany. Guarda». Nel suo sguardo vedo il buio. Il dubbio. E allo stesso tempo la cattiveria di quelle persone che soffrono nel non vederti crepare. Ma io, in cuor mio, crepo, eccome se crepo. Ma farlo vedere pure a lui NO, non ci sto. Rimetto a posto il libro. E' scientificamente provato che quando vuoi leggere qualcosa in pace, incontri sempre quel qualcuno che non avresti mai voluto incontrare. Arriviamo alla fermata Spagna. Saluto in fretta Simone e mi avvio verso Palazzo Zara, consapevole che nel giro di venti minuti Simone s'informerà subito sulla mia situazione con Michele. Inoltre sono certo che tutti i commessi del centro sapranno che stamattina mi puzzava l'alito e quindi, di riflesso, d'ora in poi mi puzzerà per sempre. Me ne frego. Il cambiamento è nell'aria. Lo sento. Lo vivo. Arrivo stranamente in anticipo e vado subito a cambiarmi. Entro dalla porta principale e noto che tutti mi guardano con l'aria di chi ha fatto qualcosa ma che ancora non lo sa. Una volta cambiato raggiungo la direzione per timbrare. Ed ecco che, dopo aver strisciato l'entrata, mi trovo davanti Bunny, la direttrice. «Buongiorno Falabella». «Buongiorno Direttrice» «Prego, si segga un attimo». Mi sto per sedere con un'unica certezza: la mia vita privata va a rotoli, il lavoro non ancora. «Ho bisogno di parlarle di una cosa molto grave che è accaduta venerdì sera». «Mi dica».

«Ha prezzato la borsa di pelle in edizione limitata con il prezzo delle cinture di gomma per bambine». «Oh cavolo. Mi scusi, mi dispiace. Mi devo esser sicuramente confuso: con tutti i codici che mi giravano per le mani!». «Mi scusi? Ha fatto pagare a trenta persone una borsa non in saldo, dal valore commerciale di 500€, 4,99€. Quindi, anziché incassare 15,000.00€ ne abbiamo incassati 149,70€. Ora: secondo lei quei 14.850€ da dove li dobbiamo prendere?». «Io non ne ho idea. Neanche a dire che potrei rimetterceli perché le assicuro che io 15,000.00€ non li vedo neanche in un anno». «Non è una risposta valida. Ha solo una soluzione».

«E sarebbe?» «Quella di firmarmi in questo istante una lettera di dimissioni spontanea». «Lei mi sta chiedendo di licenziarmi?» «Esattamente» «Ma io…» «Ma lei ha sbagliato. E chi sbaglia paga. Può ripagare la cifra persa? No. E allora le dico anche che io sono per la meritocrazia e la meritocrazia vuole che vadano avanti solo le persone professionali. Lei non è risultato professionale ed ha così creato un grave problema all'azienda e a me che sono la direttrice». In questo momento sto pensando che Fox è un gran cazzaro. E che io sono veramente uno sfigato di merda. Provo a raccontare le mie tragedie a Bunny, ma a lei della mia vita e delle mie sciagure non importa niente. Firmo quel foglio e mi avvicino per l'ultima volta a quell'armadietto grigio. Tolgo tutte le mie cose: le penne, le medicine da supermercato, qualche bigliettino, le mie foto con i colleghi e le cartoline di Pamela per gli amici che volevano un suo autografo. Lascio la divisa, che per ironia della sorte avevo appena lavato dopo due giorni di riposo. Non saluto nessuno ed esco come se dovessi rientrare da li a poco. Ma la verità è che io in quel posto non sarei mai più tornato. Sono per strada, in tutti i sensi aggiungerei. In questo momento avrei chiamato una sola persona. Ma forse è meglio che mi fermo alla M di mamma. Squilla. Squilla. Squilla. «Pronto?» «Mamma ciao». «Che ti serve?» «Sempre dolce mamma. No, in realtà avevo bisogno di parlarti». «Ora non ho tempo. Ti richiamo» e mette giù.

Ecco questa è mia madre. Una donna unica. Totalmente incentrata su se stessa. Ha due figli. Oltre a me c'è Ludovica. Mio padre è morto quando io ero molto piccolo e mia madre non ha perso tempo per rifarsi una vita con quello che doveva essere già il suo amante: Arturo. Lui, guarda caso, era il nostro ex amministratore di condominio quando ancora c'era papà. Questi dettagli non è che io me li sia proprio andati a cercare. E' stato il dirimpettaio, Tullio, che me li raccontò dopo aver litigato con mia madre per il troppo rumore durante le ore notturne. Ludovica, mia sorella, lavora nel call center di Media Shopping. E' una di quelle persone senza ambizioni. Senza sogni. Insomma, il mio esatto opposto. Riprendo la metro direzione casa, senza riaprire il libro. Stavolta il mio migliore amico è l’iPhone. Creo subito un gruppo dal titolo: PD. Il mio PD, per la cronaca, non sta ad indicare un inno al partito

democratico. Inserisco i magnifici cinque e inizio a scrivere. «Amici miei: ho perso l'uomo ma ho perso anche il lavoro, per un errore gravissimo di prezzatura. Bunny mi ha costretto a licenziarmi e se non l'avessi fatto io, l'avrebbe fatto lei. Ci vediamo a cena? Vi prego».

3 LA CINA SI AVVICINA

Mi devo iniziare a preparare. Ho gli occhi stanchi, la pelle secca e un gran giramento di coglioni che neanche Fox avrebbe mai previsto. Speravo di addormentarmi e di svegliarmi felice, innamorato e occupato. Invece non mi sono mai addormentato e sono infelicemente solo come un cane. Il tempo di una doccia al volo e raggiungo gli altri da Giada. Che poi perché "da Giada" e non al ristorante cinese? Vedete, in questo mondo c'è una cosa veramente assurda che va oltre il fatto che io sia stato lasciato per uno che si chiama Mattia, e che va oltre il fatto che io abbia perso il lavoro. Sto parlando di questa omologazione mondiale che prevede l’assidua frequentazione dei gay nei ristoranti cinesi. Che poi, a so coi tempi, non si sa più neanche di che nazionalità sono, sia loro che i piatti. Vai dal cinese e ti propongono una barca di sushimi misto. Vai dal giapponese e non sei nessuno se non ordini gli involtini vietnamiti. Il tutto condito da quella strana formula tanto funzionale che chiamano "all you can eat". Mangi peggio della Democrazia Cristiana ai tempi d'oro, paghi un fisso di venti euro e l'unica regola da rispettare è quella di non lasciare mai niente sul piatto. Noi, infatti, non lasciamo mai niente. Se avanza qualcosa, e per ironia della sorte avanza sempre qualcosa, apriamo la borsa di Monica, infiliamo tutto dentro e come gattare alle prime armi, portiamo ai cassonetti quello che non abbiamo volutamente ingerito. Giada è la proprietaria di quel ristorante cinese frequentato prevalentemente da transessuali e gay. Il suo ristorante si chiama "Aroma di Jeju-do" e da sempre ho una gran voglia di dirle che Jeju-do si trova in Corea del Sud e non in Cina, come ci vuol far credere. Ma la paura che mi possa trovare nel piatto dei lombrichi al posto dei germogli di soia, vince su ogni mia precisazione. Arrivato a destinazione cerco un parcheggio per la mia Smart. Ma a Roma oramai non c'è più posto neanche per loro. E' finita l'era de "la Smart la metti ovunque: orizzontale, verticale e trasversale". La verità è che a Roma non c'è più posto per nessuno. Macchine incluse. Riesco, dopo diecimila tentativi, a trovare un parcheggio davanti al liceo Miani e tra una manovra e l'altra comincia a

squillare il mio cellulare. Ho quasi paura a guardare il display. Temo che possa essere l'esorcista che mi da appuntamento ed invece mi accorgo che è mia madre. Considerato che l'ho chiamata alle 9 di stamattina e che sono le 10 di sera, ci sta anche che io la senta e ci sta anche che io l'accomuni all'esorcista. «Mamma finalmente». «Che succede?» «Mmmm, in verità ora niente. Avevo bisogno di te stamattina».

«Sai che io ho una vita?» «Si, ma sai che hai anche un figlio? Anzi due?» «Si. E mi pento sempre di averne fatti due. Uno in particolare. Che ti serve?». In questi casi mi chiedo come io, che sono la dolcezza fatta persona, possa esser stato concepito dalla donna iceberg. «Grazie mamma. E' sempre un piacere sentirti ed è sempre un piacere sapere di essere un peso per la tua vita. Questa mattina comunque, ti ho chiamata per dirti che mi hanno licenziato e che sto uno schifo». «Avranno avuto le loro buone ragioni per farlo, no? Cos'hai combinato?». In questo caso avrei dovuto adottare una regola che ho fatto mia pur essendo di mia sorella: "NON DIRE MAI NIENTE A NOSTRA MADRE". Ma io non ho segreti. Figuriamoci con lei. «Si mamma, ho sbagliato a prezzare delle borse di pelle umana ed ora pago le conseguenze vendendo la mia di pelle». «Vuoi sapere la verità Valerio? Sono contenta. Finalmente farai valere la laurea che ti sei sudato e troverai un lavoro degno di tutti i soldi che ho speso per farti studiare». «Certo. Questo poi è il momento migliore per trovare lavoro. Va bene mamma, ti ringrazio. Ti saluto che devo raggiungere i miei amici». «Aspetta. Si è sentito Michele?» «No. Ciao mamma». «Ciao e non fare tardi». Questa è mia madre. Non gliene frega niente della mia vita ma gli interessa ancora che io non faccia tardi. Arrivo davanti il ristorante e Monica è già li che aspetta con la solita sigaretta elettronica in bocca. Lei viaggia sempre con i suoi venti minuti d'anticipo e non

appena arriva comincia a tartassarci su WhatsApp con messaggi sullo stile di «Sono arrivata, voi dove siete?» o «Quanto vi manca?». Piccoli segnali di una zitellaggine acuta che la sta per contagiare definitivamente. Mentre attraverso le strisce vedo arrivare dal lato opposto Marco assieme a Gaya, e Alex in compagnia del nuovo tipo. Dopo i nostri inutili convenevoli, Alex ce lo presenta. Si chiama Pier, ha 32 anni, e sappiamo tutti che durerà quanto un cactus al polo nord. Mentre iniziamo a parlare della nostra fame arrivano le prime domande su cosa mi sia capitato, ma preferisco aspettare di sedermi per non ripetere dieci volte le stesse cose. Ad un tratto vedo avvicinarsi un taxi che sembra non tenere a bada la sua voglia d'investirmi. E vi dirò che dopo tutto, finire sotto ad un taxi è l'unica cosa che mi manca per fare bingo. Si avvicina per far scendere il cliente e dentro vediamo una ragazza che sembra appena uscita da dieci ore di prove al Moulin Rouge. Nel taxi c'è una ragazza, che è una donna all'anagrafe ma una drag queen nell’anima. E' Pamela. «Ma cosa si è messa in testa?» chiede preoccupata Gaya. «Oh mio dio» esclama Marco. «Buonasera a tutti. Scusate il look. Ho messo una parrucca per are inosservata. Almeno, amore, posso concentrarmi solo su te e la tua situazione, senza are la serata a fare selfie con i miei ammiratori». «Beh, forse è il caso di dirti che con una parrucca fuxia non eresti inosservata neanche a Camden Town e, soprattutto amica mia, per pensare bisogna essere abituati» le confida Gaya. Tutti ridono all'ironia tagliente di Gaya. «Dai ragazzi non scherziamo. Non è fuxia, ma bordeaux». «Ok. Oltre che zoccola è diventata anche daltonica» precisa Alex. «Ah ma ci sei anche tu stasera? pensavo che ti avessero già messo a letto. Lui è il nuovo che avanza?» «No lui è Pier».

«Ciao Pier, io sono Pamela. Sono sicura che ti vedrò stasera e poi mai più». «Pamela, a parte tutto, sai che io ti conosco» «Certo, mi conoscono tutti!» «Sicuramente, ma forse potresti ricordarti anche tu di me. Io facevo il figurante a “aparola” quando tu eri una letterina». «Come posso ricordarmi Pier? Eravate tanti ed io ero sempre impegnata con la scaletta». «Mmm, scusami Pamela, ma sbaglio o tu neanche parlavi?» si domanda tutto incuriosito Alex, pur conoscendo già la risposta. «Che c'entra? la scaletta dovevo impararla a prescindere. Va beh, possiamo entrare che mi stanno guardando tutti?». Per lei, dietro quel"tutti", si nascondono gli abusivi che vendono le borse false di Prada e Vuitton. Ci sediamo al nostro solito tavolo. Siamo un po’ più stretti, ma poco importa. Noi qui troviamo la nostra armonia. La nostra pace. La nostra dimensione. Ci siamo tutto conosciuti qui. Solo Pamela è arrivata qualche mese dopo. Era un lunedì di qualche anno fa. Pioveva e, mentre addentavamo l'anatra alla pechinese, vediamo entrare questa ranocchietta tutta bagnata. Sembrava un incrocio tra un serpente appena nato e una lumaca sgusciata. Magra, magra e con due labbra da mettere in guardia anche Alba Parietti. Ovviamente noi, Gaya inclusa, dotati di gay factor, l'abbiamo riconosciuta subito e ci siamo riati il suo curriculum. Era sola. Ci ha fatto un po' pena e Marco, vittima del fascino delle star in declino, la invitò al nostro tavolo e nacque subito un grande amore tra tutti noi.

In lontananza vedo arrivare, come una maitresse d'alto bordo, Giada. Salutandoci noto che mi guarda come se già sapesse tutto, e in un modo molto spontaneo mi fa: «Amore come va?» «Uno schifo, grazie. Mi sono lasciato. E mi sono licenziato». «Allora vuol dire che è il momento di cambiare», parla con saggezza popolare la regina di China Town e aggiunge: «Non era da tanto che ti eri lasciato, no?» «Mmmm, veramente da poco. Pochissimo direi». «Ah». Quell'AH nascondeva qualcosa di troppo strano. Come se Giada avesse visto qualcosa nelle sue mura, ma a questo punto della mia vita meno indago e meglio sto. «Va beh» taglia corto Giada, «vi mando subito il ragazzo per le ordinazioni». Succede per la prima volta, dopo almeno dieci anni, che Giada non prende più le ordinazioni. Ci guardiamo tutti come a voler dire: "pure lei si è montata la testa?". «Magari avrà fatto carriera nella sua famiglia, in Cina sono molto meritocratici» spiega Monica, senza che nessuno le abbia chiesto niente. Racconto ai ragazzi i dettagli del licenziamento. Per filo e per segno con gli occhi lucidi. Con gli occhi di chi ha paura di rimettersi in gioco e con gli occhi di chi non vuol più tornare indietro. Ho paura. Paura di non farcela e di sbagliare ancora una volta. Vorrei far fruttare quella fottuta laurea e vorrei trovare il coraggio di cambiare città. Ma ho troppi paletti. Ho troppi ricordi ed io sono uno che ama Roma. Amo la mia casa, frutto di tanti sacrifici. Ogni angolo della casa mi ricorda qualcosa ed amo persino la rata del mutuo. Ogni 30 del mese mi riporta a quel giorno felice quando, con tanta soddisfazione, davanti al notaio firmavo l'atto. Mentre parlo delle mie sciagure e delle mie preoccupazioni, mi accorgo che Gaya piange come se avesse visto la scena finale del Titanic. Monica si nasconde leggendo il menù, come se poi fosse mai cambiato in questi anni. Marco sta chattando su Grindr, Alex e Pier mi ascoltano abbracciati e Pamela ne approfitta per ridarsi una mano di smalto.

Li guardo e penso a quanto sono fortunato. Se la vita mi sta togliendo qualsiasi cosa, loro, con i loro sguardi, mi stanno ridando tutto. Comincio a piangere. Mi alzo e corro in bagno. «Scusatemi un secondo». Volevo scendere per non farmi vedere in quello stato pietoso. Non mi riconoscevo più. Scendo le scale con la testa abbassata facendomi ombra con la mano sinistra davanti agli occhi e sbatto fortissimo contro qualcosa. Pensavo fosse una colonna, o quantomeno speravo fosse quella per non giustificarmi sul perché cammino coprendomi gli occhi. Tolgo la mano e mi accorgo di essere finito addosso ad un ragazzo vestito come se fosse appena uscito da un matrimonio. il mio cuore inizia a fare bubum-bubum-bubum e la mia testa si domanda: «Ma questo come cazzo s'è vestito. Soprattutto per stare dentro ad un cinese!?».

Il mio cuore batte talmente tanto forte che mi fa dimenticare la testata che ho preso. «Che ci fai vestito così?» «Io lavoro qui, sono nuovo». Sto cercando di capire quello che mi ha detto. E' italiano. O almeno sembra. E' vestito da matrimonio e fa il cameriere in un ristorante cinese. Devo proprio aver preso una bella botta. «Andiamo un attimo in bagno che ti aiuto a sciacquarti la faccia con dell'acqua fredda. Ti verrà un bernoccolo assurdo». Non solo accetto l'invito, ma mentre scendo le scale, dentro di me rivivo la stessa scena di un “Vacanze di Natale”. La stessa scena in cui Cristiana Capotondi incontra Luke Perry di “Beverly Hills 90210”, quella che ha come colonna sonora il turuturuttu oooh di Annie Lennox. «Vai, lavati il viso con un po' di acqua fredda». «Aiutami a dire fredda. Questa viene come minimo dal Polo nord». «Ma hai gli occhi lucidi! Ti ho fatto piangere?» «Si». In realtà non era colpa sua, ma la parte della vittima in questo preciso momento della mia vita mi si addice sin troppo bene. «Sono mortificato. E se a fine serata andassimo a bere una cosa? Ovviamente offro io». Bum. E' come se avessi ripreso la stessa botta per la seconda volta. Cioè, il bono della situazione, vestito bene, che fa il cameriere in un ristorante cinese, prima mi sfonda (la testa) e poi mi chiede di uscire? «Ti direi anche si, ma non è che posso stare fino alle due qui fuori». «Io finisco all'una». «Ah, e ora che ore sono?»

«Le 23:00. Tu hai mangiato?» «Non ancora. Vorrei, e vorrebbero anche i miei amici se solo tornassi al tavolo». «Ma sei fidanzato?» «Chi?» «Come chi. Tu.» «No». «Allora vengo io a prendere le ordinazioni». «Ecco. Allora sbrighiamoci, ma facciamo finta di non esserci mai conosciuti». «Si, ma come rimaniamo?» «Dimmi tu». «Vieni qui fuori all'una. Aspettami davanti la Posta». «Dammi il numero».

«Non ho il cellulare dietro. Anzi, ce l'ho, ma la batteria è morta ancor prima di accenderlo». «Ok. A dopo, anzi a tra poco». Non faccio in tempo a dire «a tra poco» che ecco arrivare Marco con la faccia di uno che sta morendo di fame. «Ma dove ti sei cacciato? Le cose sono due: o stavi in diarrea o ti stavi facendo il bono che ho appena visto sulle scale. E conoscendoti mi giocherei tutto sulla seconda». «Sbagli amico mio. Il bono sulle scale, che pare lavori qui, mi ha sfondato la testa con una capocciata». «Oh Gesù. Ti ha ridotto come quello dei Goonies». «Slot?» «Mmm, sembri più Magalli». Risaliamo insieme, abbracciati e sorridenti come se ci fossimo ritrovati dopo anni. Non dirò niente a loro. Non voglio che pensino: "guarda questo, ha pianto fino a due minuti fa e ora già esce con un altro". Mentre ci avviciniamo al tavolo, lui è già li. E' bello come il sole. Chissà cosa starà pensando di me e di quello che è appena successo. Ma poco importa. Io intanto penso di amarlo. Sembra la scena di un film. Sembra la scena di Notthing Hill, quando Grant tira il caffè addosso a Julia. Peccato che qui il sottoscritto ha rimediato solo una capocciata. «Vale, ma cosa hai fatto?» mi chiede Pamela. «Nessuna punturina, Pamela. Il ragazzo che sta prendendo le ordinazioni mi ha dato una testata per le scale». «Si, scusate se vi ho fatto aspettare. Ma ci siamo scontrati e gli ho fatto male». «Casomai scusati con me che m'hai abbozzato come una panda». Sorride. «Dai ragazzi, siete pronti per le ordinazioni?»

«Si» rispondo io con un tono religioso. Ognuno sceglie il tipo d'involtino e la cottura del raviolo tra griglia, vapore e piastra. Io intanto lo guardo. Scruto ogni suo movimento in un modo così maniacale che il mio stomaco non brontola più. Non ho fame. Non ho sete. Ho solo voglia di sparire con lui entro cinque minuti. «A posto così. Se poi volete dell'altro aggiungiamo in corso d'opera». Va via e tutti si guardano per dire: "ma lui?". "Un cameriere italiano da Giada?". "Ma quanto è bono?" E in un secondo tutto torna come ai vecchi tempi, a quando Michele non esisteva neanche su Facebook. Io, i miei i amici, le nostre rispettive disgrazie, i nostri sogni, i nostri progetti e i vari fidanzati di Alex. «Valerio, ho un'idea» esclama tutta seria Pamela. «Tu sei anche in grado di partorire idee?» rincara subito Alex. «Zitta checca, devo dire una cosa importante per Vale».

«Ora che ho iniziato a fare l'annunciatrice per La8, ho sentito che Daria Govardi sta cercando uno staff completamente nuovo, da inserire nella redazione del suo programma. Inutile dirti che grazie al mio special love, saresti già dentro. Che ne pensi? Non era questo il tuo desiderio?» Per una vita ho fatto la guerra a tutti i sostenitori della mignottocrazia. Ho ato anni a parlare di meritocrazia, anche per piegare le magliette da Zara. E a cosa mi ha portato? A niente. «Pamela, ti prego mettimi subito in contatto con Daria o chi per lei». «Scusatemi un secondo. Chiamo il mio special love e ti dico in tempo reale. Esco, e se arriva il mio involtino proteggetelo da Alex che potrebbe farlo sparire». Arrivano i primi antipasti: involtini, ravioli in tutti i modi, nuvolette di drago, patate al curry e verdure fritte in salsa agrodolce leggermente piccante. A portarceli non è più il cameriere del mio cuore, ma la solita cinesina malcapitata. Mi alzo per avvisare Pamela che è arrivato tutto e m'incontro con lo sguardo di colui che mi ha rifatto battere il cuore dopo due giorni di blocco totale. Mi sorride, ed io sorrido. Nel sorridergli inciampo contro il mega vaso cinese adibito a portaombrelli. Che palle. «Allora non è stata colpa mia prima. Sei tu che sbatti sempre». «No, io non sbatto mai, è che oggi sono un po' stanco». «Beh, non stancarti troppo che dopo ti voglio vivo». Sorrido, apro la porta del locale e faccio cenno a Pamela che la cena è servita. «Allora amore. Ho parlato con special love. Dopodomani devi essere a Milano in Corso Como alle ore 11. Alla reception dirai che hai un appuntamento con la Govardi e con l'autore della trasmissione». «Pami, sono un po’ in imbarazzo, ma se non mi arriva lo stipendio prima di subito, non credo di farcela con i biglietti di andata e ritorno». «Sei scemo? Il mio special love ha già incaricato il suo assistente di prenotarti

tutto in prima classe, con tanto di transfert dalla Stazione centrale a Corso Como». «Scusa?» «Amore, che me lo sono preso a fare un politico?» Ridiamo tutti insieme, e anche in questo momento penso a quanto sono fortunato e a quanto è vero che gli amici sono per sempre e l'amore no.

4 L’APPUNTAMENTO

Succede che è ata l'una da un quarto d'ora e di lui neanche l'ombra. E se si fosse dimenticato di me? E se avesse cambiato idea? Io, da questo isolato, non vedo neanche l'entrata del ristorante. Perché mi avrà chiesto di vederci? Solo per scusarsi o perché pensa anche lui che io possa essere l'uomo che ha sempre cercato? Nell'attesa, tra dubbi esistenziali e domande prive di risposta, ripenso alle prime uscite con Michele. Alla felicità di quel momento. Ai primi sorrisi, allo sguardo intimidito che non ti da la possibilità di guardare fisso negli occhi l'altro per più di cinque secondi. Agli sms inutili e a quella strana voglia, dopo esser stati insieme tutta la sera, di volersi sentire ancora, senza avere niente di sensato da dirsi. Telefonate mute fatte di respiri e sogni. Uno dei due aspetta un sospiro dell'altro per tirarne fuori argomento di discussione. Si, perché in quei momenti iniziali si riesce a trovare la forza pure di parlare del nulla. Poi, dopo quattro anni di relazione, sei già fortunato se l'altro ti risponde ancora al telefono. Michele mi rispondeva in tempo reale al primo squillo, forse non faceva in tempo neanche a squillare e lui era già li. Pronto. Pieno di entusiasmo. Negli ultimi tempi, invece, si ava direttamente alla quindicesima chiamata per sentirmi dire che il telefono era in modalità silenziosa. E allora perché all'inizio rispondevi al primo squillo? E quella telepatia iniziale che fine ha fatto? Nessuna fine. Finisce l'amore e finisce la telepatia. Finisce tutto. Ma io, nonostante tutto, ci credo ancora. «Scusami per il ritardo, ma abbiamo avuto un po' da ridire sulle mance». Eccolo. È arrivato. Siamo ati da un completo da matrimonio ad una tuta acetata dell'Adidas. «Comunque piacere, io sono Christian». «Valerio». «Ti chiami come il mio pesce gatto, lo sai?»

«No. Non lo sapevo, e a dirla tutta avrei preferito non saperlo. Si può chiamare un pesce gatto, Valerio? E soprattutto, col pesce gatto cosa ci devi fare?» «Ho un amore smisurato per i pesci». «E non sei il solo in questo mondo». «Spiritoso». «Questa ione l'ho ereditata da mio nonno. Diceva che i pesci hanno forti influssi positivi sui loro padroni». «Allora domani mi accompagni in un negozio di animali e ne compro dieci». «Quanti siete in casa?». «Io, Valerio e Falabella». «Eh?» «Cazzate, lascia stare. Vivo da solo». «Dai, andiamoci a prendere da bere». «Dove andiamo?» «Ti fidi di me?» «Se hai un tappeto volante ti direi di si, ma guardandoti ora come ora, la risposta è NO. Non mi fido di nessuno». «Guarda che pure io potrei trasformarmi da zingarello a principe». «Immagino» «Prima non ero un uomo elegantissimo?» «Eri». «Ed ora come sono?»

«Non me lo chiedere». «Stronzo. Dai andiamo». «Dove?» «Fidati». «Hai paura della moto?» «No. E’ lei che ha paura di me e del mio peso». «Ma stai bene!!!» «Scusa, e il casco?» «Se aspetti un secondo lo prendo». Questa scena mi sembra di averla già vissuta o quantomeno di averla già vista in qualche film. E infatti non mi sbagliavo. Avete presente Riccardo Scamarcio in “Tre metri sopra il cielo”, quando fa salire sulla sua moto la povera Babi per riaccompagnarla a casa? Ecco, proprio quella scena li. Con un'unica differenza. Anzi, con due: io non sono Babi, ma al massimo Bambi, e lui non è Scamarcio. Metto il casco e partiamo. Christian sfreccia tra le vie della Roma bene con una velocità tale che, per chi come me non ha mai guidato un ciclomotore, la morte sembra essere dietro l'angolo. Nel tragitto non mi stringo troppo forte a lui, perché poco prima della partenza, scherzando e ridendo, mi aveva detto si di abbracciarlo, ma anche di non allungare le mani. Ed io, per quella battuta, andrò dall'analista da domani fino a Natale dell'anno prossimo. Per chi mi avrà mai preso? Non è che questo ora mi porta in qualche parco per farmi fuori? Io, con tutto l'amore del mondo, non ho mai sognato di diventare argomento principale dei vari salotti pomeridiani dedicati alla cronaca nera. E poi mia madre? Non vorrebbe mai le telecamere sotto casa. Devo fermarmi. Devo fermare il cervello e devo smetterla di farmi sempre troppe domande. Devo iniziare a godermi attimo per attimo. Istante per istante. Percorriamo il centro fino ad arrivare a Piazzale Clodio. Prendiamo la panoramica sulla destra e cominciamo a fare la salita. Curva dopo curva. Il mio cuore batte forte. Il vento d'estate sembra volerci buttare giù ed io con quella

scusa mi stringo a lui, poggiando la mia guancia sinistra rinchiusa dentro il casco sulla sua spalla destra. In quell'attimo ho smesso di pensare a tutto e tutti. Arrivati al semaforo, Christian gira senza freccia sulla destra, direzione Zodiaco. E da li a poco parcheggia la sua moto. «Scendi? O vuoi restare tutto il tempo attaccato a me?» «No. Mi stavo addormentando». «Si. Tutte scuse. Dammi il casco prima che me lo fai cadere». «Non ho mica ho le mani di ricotta, sai?» Non faccio in tempo a dirlo che mi cade il casco dalle mani. «Lo vedi? Non le avrai di ricotta ma sicuro di pasta frolla». «Oddio sono mortificato». «Ma va, smettila». «Dove andiamo? È buio, non si vede niente se non quegli enormi cipressi che fanno tanto cimitero». «Ti ci lascerei al cimitero». Come pensavo mi voleva uccidere. Sotterrare e dimenticare. Ma tanto mi ritroveranno. «Lo vedi quel muretto?» «Non sono cieco». «Vedi quelle sbarre sopra?» «Non dico bugie io, sai?» «Ora le scavalchiamo». Sono spacciato. Io non sono agile. Non lo sono mai stato e mai lo sarò. Come

posso dirgli «cambiamo posto?» «No, Christian, non credo si possa. È proprietà privata». «E di chi è la proprietà privata?» «Del sindaco». «E il sindaco dove vuoi che sia in questo periodo?» «In vacanza?» «Quindi inizia a scavalcare». Mi arrampico con l'agilità di un ippopotamo e riesco a saltare giù dalle sbarre senza farmi male e senza far grosse figure barbine. «Ora salto io. Tieni le birre». «E queste dove le hai prese?» «Indovina?» «Ti piace proprio far domande, vero?» «Me le ha prestate Giada, perché le avevo detto che avrei ato con te la serata». «Ok, ho capito: le hai rubate». «Perspicace il ragazzo». Prendo le birre e Christian, come un topo d'appartamento, si cala giù. «Ora dove andiamo?» «Seguimi e vedrai». Il sentiero da percorrere è sterrato e buio. Potrei calpestare qualsiasi cosa senza accorgermene. Nel tragitto Christian mi abbraccia. Così. Dal nulla. Come a voler dirmi “stai tranquillo che qui ci sono io”.

«Eccoci, siamo quasi arrivati». «Ma cosa ci sarà mai in questo parco al buio?» Arriviamo e non vedo niente, se non tutte le luci che illuminano Roma. Siamo sotto lo Zodiaco. Qui puoi vedere tutto: dai Castelli romani a San Pietro. Le luci mi lasciano a bocca aperta. A guardarla così sembra una cartolina. Vista dall'alto, Roma sembra una città così tranquilla, ma basta immergersi un secondo nella sua quotidianità per trovare la voglia di espatriare. «Mettiamoci qui». Christian si siede e mi fa segno di argli le due birre. Le apre con l'accendino e mi fa: «A cosa brindiamo?» «Al mio bernoccolo?» «Ma se neanche si vede più». «Non si vedrà ma io lo sento». «Allora brindiamo al bernoccolo che c'è ma non si vede». «Senti, io voglio sapere come mai lavori in un ristorante cinese e per giunta vestito così». «In realtà è stata una cosa casuale. Ho letto un annuncio in cui si ricercava un cameriere italiano per ristorante elegante, ed io mi sono presentato». «Beh, il ristorante cinese non mi sembra proprio che sia l'Hilton..» «E' quello che ho pensato anch'io. Soprattutto non capivo perché loro volessero assumere un italiano» «E come mai hanno voluto un italiano?» «Mi è stato detto che i cinesi cominciano a non essere più ben visti dagli italiani, ma soprattutto dai gay, e che quindi cercavano figure rassicuranti per una clientela sempre più esigente» «Spero ti paghino bene».

«No, neanche tanto, ma almeno mi da la possibilità di conoscere bei ragazzi come te». Bingo. Qui una persona normale, dotata di un po' di amore verso se stesso, sarebbe al settimo cielo. Io invece, che non sono normale e che non mi amo neanche un po’, penso subito al peggio. «Ah, quindi tu ogni sera esci con uno diverso? E magari li porti tutti qui?» «No. In realtà non sono mai uscito con nessuno sino ad ora». «Mmmm, sarà». «Perché non mi parli un po' di te?» «Allora, ti faccio una sintesi della sintesi: sono stato fidanzato per quattro anni. Abitavamo anche insieme. Poi è finito tutto e siccome le sciagure non vengono mai da sole, mi hanno anche licenziato da Zara». «Licenziato?» «Si è una storia lunga. Ed ora sono alla ricerca di un nuovo lavoro» «Cosa cerchi?» «In realtà vorrei far fruttare la mia laurea» «In cosa sei laureato?». «Ho una laurea in Letteratura con una tesi sull'arte del dialogo nel sedicesimo secolo» «Interessante»«Ed hai qualcosa in ballo?» «Si. Ho dei colloqui, vediamo cosa ne esce» «Ma nel commercio?» «No, nella comunicazione».

Non faccio in tempo a dire "va" che Christian mi bacia. Mi bacia su un panorama mozzafiato che lascerebbe senza parole anche il meno romantico dei romantici. Ha una lingua invasiva, ma non troppo. Apre e chiude la bocca in un modo così dolce. Mentre mi morde il labbro inferiore, mi accarezza il volto e non fa altro che ripetermi quanto sono bello. Vorrei dirgli “ti credo”, ma solo io posso sapere che non è vero. «Come può averti lasciato il tuo ragazzo? Come?» Anche in questo caso vorrei dirgli la verità ma non lo faccio. Taccio. Perché a star zitti delle volte ci si guadagna e da are da sfigato davanti ai suoi occhi proprio non mi va. Poggia la birra, si sdraia sul prato e mi tira giù. Mi continua a baciare e allo stesso tempo con le mani mi inizia a spogliare. Un pezzo per volta. Prima la maglia, poi i pantaloncini ed infine le mutande. Restiamo nudi. Uniti. Corpo a corpo. Sento il suo piacere diventare forte e duro e i nostri istinti non si controllano più. Le mani viaggiano su tutto il corpo, su e giù, e poi di nuovo giù e su. Il suo odore mi manda al manicomio, vorrei fermarmi per darmi anche un tono di serietà ma arrivati a questo punto non servirebbe a niente. E in un attimo io entro dentro di lui. Impazziamo per poi esplodere insieme in un'onda di piacere. Ci stacchiamo ma restiamo comunque vicini. Con la schiena appoggiata al prato, alziamo gli occhi al cielo. E' ata da pochi giorni la notte di San Lorenzo e cerchiamo di vedere qualche stella ritardataria. «Eccola. L'hai vista?» mi chiede Christian. «No, cavolo. Hai espresso il desiderio?» «Si». «E quale?» «Se te lo dico non si avvera» «Dai…» «Ho chiesto che questa notte non finisca mai...» Ok. E' ufficiale. Lo amo.

«Perché?» «Perché è tutto così bello. L'amore. Tu. Le luci. Le stelle. Il prato». «E la puzza di fumo di quelli che stanno rullando qui vicino. Speriamo non ci abbiano visti» «Cazzo. Non siamo soli. Dai, rivestiamoci e andiamo». «Ma come? Non volevi che questa notte non finisse mai?» «Volevo, ma i doveri coniugali mi chiamano». «Scusa?» «Sono fidanzato. Conviviamo. Ho detto che ne approfittavo per bere una birra con i colleghi e invece sono scappato via con te». «E lui non sospetta niente?» «Lei». «Ah, sei bisex?» «Io non sono né etero, né gay, né bisex. Io sono Christian. Vado dove mi porta il cuore». «A questo punto direi dove ti porta il cazzo. Andiamo, dai». Scavalchiamo il cancello proibito, rimettiamo il casco e partiamo. Nel tragitto cerco di tenermi il meno possibile a lui. Lo stesso odore che prima mi faceva impazzire, ora mi da fastidio. Arriviamo alla mia macchina che è parcheggiata in una traversa di Via Cavour e ci salutiamo come due estranei. Come souvenir della serata una bella multa è posizionata sul tergicristallo della mia macchina e sono così tanto curioso di aprirla, che la metto in tasca.

Christian se ne va, ed io resto a pensare a come sia possibile che fino a trenta minuti prima sembravamo essere una cosa sola. Tutte quelle storielle su Aladdin, sulle stelle,ma a che pro? Erano così necessarie per farsi una scopata? Non poteva parlare chiaro sin da subito? Parto con la macchina e mi avvio verso casa, con l'ennesima fregatura da aggiungere al mio curriculum.

5 MILANO » ROMA

Sveglia ore 05:30 del mattino. Ci sono poche certezze nella vita di tutti, figuriamoci nella mia. Una di queste è che odio la sveglia e la odio ancor di più quando so che da li a poco dovrò sbrigarmi per prendere un treno. Io ho un avversione innata verso i treni e verso tutte le sue ferrovie. Non so come, non so perché, ma quando devo prendere un treno anche gli stessi, per paura d'incontrarmi, si fermano prima. Riescono in un secondo a cambiare anche direzione. Oppure, nella migliore delle ipotesi, non si presentano proprio. E per paura che io possa usufruire del loro "servizio", talvolta non partono proprio. In questo caso, però, devo stare zitto. Se non fosse stato per Pamela oggi non sarei mai partito per Milano e non avrei mai avuto la possibilità di fare il colloquio più importante della mia vita. Il treno partirà alle 07:00 ed ho tutto il tempo per fare le mie cose con la giusta calma. Dopo aver preso il solito caffè d'intensità 11, mi siedo sulla tazza e, senza sforzarmi poi tanto, penso a quanto sarei stato felice di condividere questa giornata con Michele. Se avessi avuto la possibilità economica (e fisica) l'avrei portato con me a Milano. Perché io amo condividere tutto con il mio lui. E anche lui amava condividere tutto. Infatti condivideva tutto di se. Si, ma con gli altri. Mi manca. La verità è questa. Faccio finta di essere forte. Di voler girare pagina e di voler conquistare il mondo. Ma non è così. Ormai anche il mio iPhone è più caldo del mio cuore. Mi doccio, metto la solita crema antisudore e indosso i vestiti che avevo già preparato ieri sera. Un pantalone corto di Zara sull'elegantino andante, una scarpa Vans molto casual e la solita camicia bianca pronta a risaltare abbronzatura e pettorali inesistenti. Arrivo in meno di quindici minuti alla Stazione Termini. Prima di salire sulla carrozza, vado a fare un rifornimento di quelle riviste a 1€, che promettono qualsiasi scoop e che quando le sfogli ti fanno pensare d'aver sbagliato giornale. E invece no. Pure il gossip è morto. Nessuno tradisce quasi più alla luce del

giorno. Ormai ci si tradisce solo su WhatsApp. La cosa triste è che, quasi sempre, i tradimenti neanche si consumano più. Si, perché oggi si limitano a mandarsi le foto del culo e di tutto il resto via cellulare. "Ti piace?", "Cosa gli faresti?", "Ah si, mi piace. Godo. Basta, ciao, sono venuto". E li finisce tutto. Ma proprio tutto, perché poi nove su dieci neanche si vedono dal vivo e, se per caso si dovessero accidentalmente incontrare, neanche si salutano. Questo succede più o meno a tutti, tranne che a me. Fatta la scorta di cronaca rosa, scopro qual è il mio binario e forse per la prima volta nella mia vita è tutto sotto controllo. Salgo sulla mia carrozza. Pamela, anzi il suo amante, o meglio ancora l'assistente del suo amante, mi ha prenotato la carrozza business. Dove la gente non parla. Non tossisce e non respira.

Siamo in pochi. Pochissimi. Il cima è a dir poco polare ed io con questo look da Formentera rischio di tornare a Roma per orizzontale su una lunga autovettura con tanti fiori sanremesi. Il treno parte. Sono emozionato anche perché Daria resta da sempre una delle mie conduttrici preferite. Si, lo so che è un po' stronza e sono anche meravigliato del perché lei abbia accettato questa raccomandazione. Evidentemente anche lei avrà i suoi padrini politici per essere in video. Sono ate tre ore buone e decido di prendermi un altro caffè. Questa notte per l'ansia da prestazione non è che abbia dormito poi tanto. E quel poco che ho dormito è stato un mix di incubi. Vado al primo vagone dove da sempre c'è quel bar che a confronto Bulgari è H&M. Un caffè tremendo si aggira sui 2€ e rischi anche di dover pagare lo zucchero. Arrivo. Anche li ci siamo io e il povero barista che mi guarda come mi conoscesse da una vita, quando ad un tratto esclama a voce alta: «Ma lei non è quello che corteggiava quella signora bionda e riccia a Uomini & Donne?». Qui sono indeciso se dirgli si con la speranza di non pagare niente o di tirargli direttamente un cazzotto in faccia. Che poi, a dirla tutta, mi ha fatto anche un complimento. Ha pensato che io fossi così tanto maschile da sembrare eterosessuale. Gli rispondo con un secco: «No, mi dispiace deluderla. Non sono io». Sembravo una cavia del quiz di Frizzi "I soliti ignoti". Pronta la replica, poca discreta, del barman ferroviario: «Infatti si. Li sono tutti ricchioni, lei che ci andava a fare?». Ecco. Ok. E' fatta. Sorrido timidamente, bevo il caffè, pago e mi giro sulla destra in direzione della mia carrozza. Tempo di fare due i che vedo arrivare verso di me lui. Si, proprio lui. Michele. Mi sembra di avere un’ allucinazione. Cosa ci fa lui, in pieno agosto, sul mio stesso treno e alla mia stessa ora? Non è solo. E' con altri due ragazzi e una signora. Vorrei scendere. Vorrei mettermi sotto il bancone del bar. Le proverei tutte, ma la verità è che non ho scampo. Non posso neanche scendere in corsa. Niente. Devo incontrarlo. Si aprono quelle simpatiche porte che dividono ogni scompartimento. Ed eccoci qui. I nostri occhi s'incontrano. Il cuore palpita. E' ato così poco tempo che non ho ancora avuto la capacità di metabolizzare il tutto. Mi viene incontro, sorridendomi. O forse mi viene solo incontro, perché

lui sta andando verso il bar. Non lo so. Ma invece non sbagliavo. Eccolo. «Heiii! Che ci fai tu qui?» «Potrei dirti lo stesso, ma non lo faccio. Vado a Milano per un lavoro». «Un corso di Zara?» «No. Un altro lavoro. Cambio». «Scusa, hai lasciato Zara?» «Si. Ho avuto una proposta molto più interessante e in linea con quello che ho sempre sognato di fare». Col cazzo che gli dicevo che mi hanno licenziato. «Sono contento se sei contento. Piuttosto come stai?»

«Uno schifo, grazie». «Come sei drammatico, dai. Non esagerare che non serve». Quindi, non basta che mi tradiva. Devo pure essere sorridente e spensierato. «Hai ragione. Era per dire. Comunque buon viaggio. Vado a sedermi che mi aspettano. Ciao, ciao». Non ci salutiamo neanche con un bacio sulla guancia, ma con un misero “ciao”. Ho riconosciuto gli altri ceffi con lui, e mi ricordo anche che proprio oggi avevano la presentazione dei palinsesti di SKY. Quella cicciona, invece, è la sua datrice di lavoro e gli altri sono degli stagisti che dureranno da stamattina a stasera. Prima di tornare al mio posto vado in bagno. Scoppio a piangere. Non ci posso pensare. Mi ha trattato come un estraneo. Se non peggio. Io, che fino a qualche minuto fa pensavo ancora a lui. Mi guardo allo specchio con quella strana luce blu della toilette. Mi faccio schifo. In questo bagno poi si muore. Non solo dalla puzza umana, ma da questo cazzo di profumo alla lavanda che spruzzano dei malcapitati per igienizzare. Esco, con gli occhi rosso comunista che metterebbero in difficoltà anche Lella Bertinotti. Risedendomi, trovo nel mio scompartimento a quattro, prima vuoto, un bel tipo sulla trentina, proprio affianco a me. «Scusami, avevo sbagliato carrozza e il controllore mi ha mandato al posto giusto». «Non si preoccupi», rispondo con una voce da vedova. Lui tiene in mano Libero. Il quotidiano. Sul mio sedile invece c'erano almeno cinque riviste da 1€. Chissà cosa avrà pensato anche lui di me. Non mi guarda. Né mi fila. Prendo in mano il cellulare e creo l'ennesimo gruppo last minute con i miei amici. Stavolta come nome gli metto l'emoticon della bomba e non metto nessuna foto. Inizio a scrivere dell'incontro, ma nel mentre risento quel rumore assordante e antisonno delle porte che si aprono. Ed eccolo che ritorna verso di me. O, meglio ancora, verso la porta che lo condurrà alla sua carrozza, che per fortuna non è la mia.

«Ah, vedo che sei già in ottima compagnia». Sorrido e abbasso lo sguardo. Il mio vicino ci guarda come a voler dire «cazzo volete da me?». Michele se ne va. E con lui anche la linea del mio cellulare. Il messaggio non parte. Il gruppo non si crea e manca poco al mio arrivo a Milano. Decido che farò un resoconto generale, compreso dell'incontro maledetto, a fine giornata. Altrimenti sarebbe stato un continuo di notifiche. Non è il momento e non ho la testa. Scendo dal treno e ad attendermi, con un cartello con su scritto il mio cognome, c’è un autista che mi porta dritto a Corso Como. Arrivo a destinazione. Oggi a Milano c'è un'umidità pazzesca. Sono in anticipo di un quarto d'ora. In genere, non fumando, quel quarto d'ora lo impiegavo sempre con una telefonata a Michele o a mia madre. Ma il primo è a farsi benedire sotto il mio stesso cielo, ma con altre persone, e la seconda sarà in vacanza. Così non telefono a nessuno e mi faccio coraggio da solo. Mi guardo sul riflesso del vetro del portone e penso da sempre che con il riflesso rendo molto di più. Ti vedi la pelle perfetta. Opaca. Magicamente tutti i difetti spariscono definitivamente. Insomma, tutto l'opposto di quello che sono in questo momento. Suono, e senza chiedermi niente, aprono. A Milano non si usa chiedere “chi è”? Nessuno mi ha detto niente. Fortunatamente già sapevo che dovevo andare al quarto piano. Pamela mi aveva dato qualche coordinata. Salgo con l'ascensore, senza specchiarmi. Perché se nel riflesso del portone sembro un Dio, in ascensore con quei faretti verticali subisci una trasformazione da far venire i complessi anche a Brad Pitt. Entro e, ad accogliermi in una stanza enorme con quattro divani di cui uno solo rosso, c'è una ragazza bruttina. Bassina. Con un naso molto grande e con un accento decisamente del sud. Ha un look radical cheap da farmi rimpiangere addirittura le mie colleghe fricchettone. «Piacere, sono Cinzia d'Azeglio. Lavoro per la signora Daria. Si accomodi sul divano rosso e compili quel foglio che trova sul tavolo con tanto di penna biro che le pregherei di non far sparire». «Guardi, ho tanti difetti ma cleptomane ancora non lo sono diventato. Mi creda». «Dicono tutti così». Cioè, ma guarda questo scherzo della natura. Io capisco che se sei brutta e che c'è poco da fare. Ma è anche vero che spesso i brutti sono simpatici. E invece a te neanche quella fortuna. Poverina.

«Una volta compilato il modulo, mi avvisi, che la faccio entrare in ufficio». Compilo tutto i campi. Nome, cognome, indirizzo, telefono, mail , codice fiscale e segno zodiacale. Mi alzo e faccio cenno alla disgrazia umana di aver finito. «Allora, signor Falabella. La invito a dare del lei alla signora Daria. Le consiglio di non guardarla troppo negli occhi e di non chiedere foto e autografi». «Mi scusi, ma io sono per un colloquio non per un casting, vero?» Mi guarda con lo sguardo di una che non ha capito niente, ma che non vuole neanche capire. «Signora Daria, faccio accomodare Falabella». «Si prego>> esclama a voce alta la Govardi. «Molto piacere, sono Valerio Falabella. E' un onore per me conoscerla». «Si, si immagino. Allora mi parli un po' di lei. Viene da Roma, giusto?» «Esatto. Sono partito questa mattina da Roma e sono pronto a mettermi in gioco per questa nuova esperienza. Ho una laurea in Letteratura con una tesi sull'arte del dialogo nel sedicesimo secolo». «Mi scusi, posso chiedere qual è il suo libro preferito?» «”Il cortegiano” di Baldassarre Castiglione». «Come mai?» «Mi piace il linguaggio. Quel suo fascino così rinascimentale».

«Linguaggio». Cazzo, ha capito che l'ho letto di sfuggita in tempi non sospetti. Cambio direzione. «E poi, tra i miei preferiti c'è anche “Elementi di critica omosessuale” di Mario Mieli». «Conosco molto bene. Me ne parlò Vladimir Luxuria in un'intervista anni fa. Pensa che sia cambiato qualcosa nella nostra società?» «Nell'ambito gay?» «Si». «Non credo sia cambiato molto. Le condizioni culturali del nostro paese continuano ad essere quelle che sono». «E dove bisognerebbe lavorare per far si che le condizioni culturali cambino?» «Nelle scuole. Ma non solo le medie. Anche le elementari. Non bisogna tapparsi gli occhi. Qui c'è ancora gente che crede che se una maestra parla di transessualità, si corre il rischio che il proprio figlio possa avere il desiderio di cambiare sesso. Non è così. Nel libro di Mieli si parla anche di questo». «Ok. Ok. Andiamo al dunque. Io a settembre inizierò il mio nuovo programma. Stesso format da anni, stessa messa in onda e stesso canale. Io ho bisogno di nuovi redattori. Perché nuovi? Perché i vecchi, o meglio, i precedenti non avevano più idee. Proponevano cose viste e riviste e io di cose sputtanate non ne ho bisogno. Diciamoci la verità, sia lei che io sappiamo perché lei è qui. Non l'ho accettata io. E' stato il capo struttura che mi ha obbligata a prenderla ed io non ho potuto dire di no. Non mi fido e non mi voglio fidare. Lei sarà controllato a vista d'occhio dai miei collaboratori». «Cercherò di non deluderla». «Me lo auguro. Questo potrebbe essere un trampolino di lancio per la sua carriera. O spicca il volo, oppure finirà tutto. Posso chiederle una cosa?»

«Certo» «Come mai si è vestito così per un colloquio?» «Volevo mantenere i piedi per terra e portare un look popolare in un contesto più intellettuale, a dimostrazione che l'abito non fa il monaco». «Potrei sapere qual è il suo sogno?» «Vedere morto il mio ex». O mio Dio l'ho detto. L'ho detto. A voce alta e senza pensare. Posso tornare a Roma senza neanche mandare un sms a nessuno. «Scusi?», la Govardi sorride e si toglie gli occhiali incrociando le mani, con i gomiti sul tavolo. «No mi scusi lei. E' che mi sono lasciato da poco. Pochissimo. E che proprio nel tragitto Roma/Milano per venire da lei, l'ho pure incontrato. E non è stato un bell'incontro. Mi creda» «Posso chiederle come mai è finita?»

«Corna». «Anche quelle servono. Sa cosa diceva mia nonna? "Le corna sono come i denti: quando spuntano fanno male, ma poi ci si abitua"». «Saggezza popolare». «Esatto». «Falabella, ci rivediamo lunedì prossimo in redazione. Le darà tutte le coordinate la D'Azeglio. Faremo una riunione alle ore 08:00 e inizieremo subito a preparare il tutto. I tempi stringono. Posso chiederle che profumo porta?» «Un profumo se. Di una marca impronunciabile con note al pepe». «Bene. Lo cambi». «Non le piace?» «Peggio». Mi alzo facendo strusciare la poltrona sul pavimento. Stringo la mano a Daria, sorrido e mi avvio dall'assistente. «Finito?» mi fa con quella voce così fastidiosa che spero le possa andare via quanto prima. «Si. Mi ha detto di chiederle tutte le coordinate per lunedì prossimo». «Ah, è stato preso?» mi chiede con uno sguardo ambiguo. «Si, perché aveva dubbi?» Non risponde. Ed io non rifaccio la stessa domanda, perché ad una risposta poco carina rischierei di rendere più carina "la Cinzia" con un bel pugno. «Ci vediamo lunedì alle 07:53 agli studi tv. La8. L'indirizzo è questo qui. All'ingresso dovrà dare il suo nominativo e a seguire, firmando un foglio, le abiliteranno un per accedere agli studi ogni giorno fino a fine trasmissione. Mi raccomando, vestito bene, e porti con se tanta voglia di fare.

Non si accettano ritardi e polemiche inutili. Quanto prima mi faccia avere sulla mia mail personale, [email protected] , il suo codice Iban e la fotocopia del sua carta d'identità». Vorrei dirle «vaffanculo, Cinzia. Crepa e a mai più». Ma con il cambio di vita ho scelto di adottare una filosofia zen filo buddista che mi da il coraggio di risponderle: «Lei è gentilissima. Ci vediamo lunedì e quanto prima le farò avere il tutto. Buon lavoro». Esco e scendendo saltello sulle scale senza prendere l'ascensore. Sento un profumo di cambiamento e nel saltare, riesco subito a fare una ricchissima figura di merda davanti ad un ragazzo biondo e molto alto che saliva le scale con in mano un curriculum. Non me ne fregherebbe niente, ma mi auguro solamente che non sia un mio papabile collega. Perché di are come pupazzo ancor prima d'iniziare, non mi sembra assolutamente il caso.

L’autista è ancora giù che mi aspetta e in meno di dieci minuti siamo in stazione. Appena sceso dalla macchina, ringrazio il mio Ambrogio e mi volto a guardare Milano. La guardo con gli occhi di una persona alla quale viene data una seconda chance. Con gli occhi di una persona innamorata della vita, ma delusa dall'amore. Con gli occhi di occhi ha voglia di ricominciare e di dimostrare quanto vale. Con gli occhi di chi sa che non è un addio, ma solo un arrivederci. Salgo sul vagone e mi siedo. Prendo il cellulare, questa volta meno caldo del mio cuore e inizio a scrivere ai miei amici, a mia madre, a mia sorella e alla direttrice di Zara. Si, anche a lei. Perché, se non fosse stato per lei, io, oggi non sarei qui.

6 INCROCI

Sagittario: “Agosto è caratterizzato da una serie di pianeti amici e molto importanti che sviluppano il settore professionale. Primeggia fra tutti Giove che, in transito positivo, si combina bene con Venere riuscendo anche a formare aspetti significativi con Urano. Questo significa che se hai lavorato bene nel ato, le soluzioni stanno per arrivare. Viaggi o cambiamenti”. Strano. Nell'oroscopo del sagittario non c'è un giorno che non si parli di viaggi e di cambiamenti. E prima o poi ci dovevano prendere. Stasera aperitivo con tutti i miei amici. Mia madre è in vacanza. Mia sorella non pervenuta e i miei amici sono tutti a Roma. Inizio a preparare i bagagli. Due trolley, non troppo grandi. Ho deciso di partire in macchina. Con la mia Smart. Speriamo riesca a salire e a portarmi a destinazione. E' pur vero che a Milano funziona tutto. La metropolitana esiste e gli autobus girano. Ma io vengo dalla capitale. E nella capitale esiste tutto. E' solo che poi non funziona niente. E poi io sono da sempre dell'idea che un uomo senza macchina è come un cielo senza stelle. Si. Ne sono convinto. Un uomo senza macchina, è un disgraziato. E un uomo senza patente, è un fallito. Qui non ci sono vie di mezzo. Non esiste il ricco o il povero. Esiste il buon senso. Un uomo che ha la patente, è un uomo libero. E' un uomo capace di fare qualsiasi cosa. E' un uomo che, se vuole, ti prende e ti porta via. Un uomo senza patente è un uomo che non ti porta via, ma che al massimo viene via con te. Non ha ambizioni. E' un uomo che vive da eggero ed io di eggeri, almeno nella mia vita, non ne voglio. Questo lo porto. Questo no. Questo lo riprendo appena scendo e questo lo posso pure buttare, tanto non mi entra più. Parto senza iPod. Non lo trovo. Ho guardato ovunque. Qui sposto tutte le cose di Michele, così quando penserà di venirsele a riprendere non dovrà faticare poi così tanto. Non è per fargli un favore, quanto per farlo stare il meno possibile a casa mia. Le chiavi le lascio a Gaya, anche perché lei verrà a vivere qui. Le presterò casa. Si, sono buono, ma chi mi avrebbe innaffiato tutte le piante che ho in balcone?

Mica posso far morire quel cuore di foresta amazzonica che vive e vegeta sul mio balcone. Ho speso negli anni sui 1000€ di piante. Tra concimi, vasi e potature ne ho spesi altrettanti. Quindi chi meglio di Gaya e del suo pollice verde? E' tutto pronto. Partirò subito dopo l'aperitivo. Così da evitare caldo e possibili code da rientro. Pamela stasera mi darà tutto. Chiavi incluse. E' lei che mi ha trovato casa e coinquilina. Mi ha detto di stare tranquillo. Pare che la ragazza che abiterà con me sia la responsabile immagine del partito del quale il compagno di Pamela fa parte. Che poi, di che immagine avrà mai bisogno un partito politico, proprio non lo so. Sono loro che dovrebbero darla a noi. Ma anche stavolta è tutta un’altra storia.

L'appartamento è praticamente in centro. In via sco Restelli, dietro il palazzo della Regione Lombardia. Arrivo all'aperitivo in Piazza dell'Emporio. Stasera c'è il menù vegetariano. Non è che mi faccia impazzire poi tanto, ma è pur vero che devo affrontare poi un bel viaggetto e preferisco esser leggero. Dentro ci sono tutti. Quando entro si vede solo la bocca rossa di Pamela. Sono tutti mezzi tristi, o forse sono io che li vedo così. Ad ogni modo, mi piace pensarli tristi. Iniziamo a parlare del più e del meno. Racconto del colloquio e dell'incontro con Michele. Ma ora come ora sono talmente tanto eccitato dal cambiamento che poco m'importa di star male. «Amore, la tua coinquilina si chiama Swami. E' una donna in carriera. Più o meno come me». «Allora è una donna in corriera», replica subito Alex. «Cretino. Lei si occupa di comunicazione e immagine del partito del mio special love. Stanotte, quando arrivi, chiamala al 347-45454566». «Scusa, ma io arriverò per le 4 del mattino. Mica posso svegliarla ancor prima di conoscerla?!?!» «Stai tranquillo. Lei mi ha detto di fare così e tu fallo». «Tu il fallo e l'hai sempre in testa, eh?» «Alex, io il fallo ce l'avrò sempre in testa, ma tu sei così zoccola che spereresti di farlo arrivare anche lì». Mentre le due prime donne continuano con i loro siparietti, Marco, Gaya e Monica mi danno dei pensierini di buon auspicio. Marco mi ha regalato un simpatico cazzetto in plastica. Uno di quelli che se giri la rotella laterale, inizia a camminare velocemente. «Amore, è un prezioso antipatata. Fanne buon uso». Gaya mi ha preparato un cestino di prodotti sott'olio direttamente da Catanzaro. «Amore, sai bene che lì gli aperitivi non sazieranno mai a dovere. Questi te li

mandiamo io e mamma. Sono fatti con l'olio buono, quello di giù. Ti ho messo anche i peperoni piccanti. Sono afrodisiaci e ti faranno sentir caldo quando sentirai freddo». «Cuore, grazie. Ah, queste sono le chiavi. Fai come fosse casa tua. Ma devi farmi un'unica promessa. Anzi due. Non trombare mai sul mio letto e qualora Michele decida di venire a prendersi le sue cose, fallo stare il meno possibile. Se dovesse venire inventa che da li a poco arriverà il tuo trombamico di turno». «Amore, sarà facile per me inventare. Sono anni che invento ioni inesistenti». Poi arriva il turno di Monica. Ho già il terrore ancor prima di scartare. Lei è famosa per il riciclo. E non quello tanto in voga in questo periodo in tv. Lei non trasforma capsule di caffè in gioielli. Lei ricicla cose trovate nei cassonetti e le spaccia come esclusività vintage. Non dimenticherò mai quando portò a Pamela, per Natale, un ombrellino piccolo. Con un manico di ferro. Un po' sporco. Ma neanche poi troppo. Lei diceva di averlo preso in un negozio vintage in centro. Invece, voci attendibili, mi hanno raccontato di averla vista vicino ad un cassonetto dell’immondizia staccare l'ombrellino da una carrozzina da eggio per bambini. «Amore, questo l'ho tanto cercato e alla fine l'ho trovato. Scarta la carta. Scarta la carta». Incomincia ad urlare "scarta la carta" a loop. Davanti a tutti. In un secondo sono diventato l'attrazione del locale. Sono tutti ansiosi di vedere che regalo avrò mai ricevuto. Io non sono ansioso, e se fosse possibile preferirei scartarlo poi a casa. In privato. In modo da non farmi vedere da nessuno. Ma non posso. Monica ci tiene. «Oddio ma è Flunder! Moni che bello, grazie, non dovevi». «Si!!! Ti ricordi che lo volevi tanto?» «MMM come no. Poi ti assomiglia Moni, che bello». Mai voluto Flunder, mai pensato a Flunder e mai desiderato un peluche che si chiamasse Flunder. Ma fingo di essere felice e penso anche che la mia Smart da oggi avrà un ospite fisso. «Mi assomiglia? Ma Flunder è maschietto!»

«Amore che ti frega, i pesci sono tutti ambigui». «Ed io sono ambigua?». «No. Tu sei moderna. Modernissima». «No. Io voglio essere vintage». «Ok. Moni. Sei vintagissima». Pamela non mi regala niente. Ha fatto sin troppo per me. E rispetto agli altri la vedrò molto più spesso, lavorando anche lei per la mia stessa emittente televisiva. Oddio, l'ho detto. La mia stessa emittente televisiva. Neanche fossi io il conduttore o il padrone. Cominciamo bene. Deliri di onnipotenza. Alex, invece, mi regala una prepagata da utilizzare su iTunes e sull’App Store. «A cosa devo questo regalo, Alex?» «Stai andando a Milano. Non conoscerai nessuno. E cosa c'è di meglio di Grindr Xtra?» «Perché, Grindr normale, che neanche si paga, non va bene?» «Scherzi? con questo puoi aprire il mondo!» «Ho paura a chiederti cosa intendi per aprire il mondo, ma faccio il vago, ti ringrazio e vado avanti». «Non fare l'alternativa. A Milano senza Grindr, non sei nessuno». «Sai Alex, non è che sono tutte zoccole come te>> gli ricorda subito Pamela. «Tu zitta, che per manie di protagonismo andrà a finire che te lo scaricherai presto». Paghiamo ed usciamo. E' il tempo dei saluti. Neanche stessi partendo per un viaggio spirituale in India. Tra un abbraccio e l'altro, tutti mi prendono in giro per come ho riempito la Smart. Sembra l'apetta di un fruttivendolo. «Ridete. Ridete pure. Ora che ci dovrò mettere anche i prodotti calabresi ci sarà

proprio da ridere».

Con quell'ultima battuta chiudo lo sportello sinistro della mia Smart e nello stesso momento si chiude anche un periodo della mia vita. Forse il più brutto sino ad oggi. Parto. Parto con la mia stazione preferita. Quella dove non ci sono voci. Quella dove non ci sono stupidi speaker. Quella dove non c'è pubblicità. Quella dove c'è solo tanta musica sentimentale. Prima di arrivare sul GRA, c'è un semaforo. Ed è li che accosto al volo. Mando un sms a Michele. Non se lo merita, lo so. Non dovrebbe neanche sapere le cose belle della mia vita, ma è giusto che sappia che le sue cose le potrà prendere quanto prima. "Sto cambiando città e sto cambiando lavoro. A casa mia da oggi ci sarà Gaya. Se non fosse stato per il dolore che mi hai dato, probabilmente sarei ancora da Zara a piegare magliette. Quindi, mio malgrado, sono anche costretto a dirti grazie. Buona vita. Valerio". Gli ho scritto su WhatsApp. Non faccio in tempo ad inviarlo, che mi accorgo che è già online. Resto fermo, in attesa che mi risponda. Dove c'era scritto online, ora c'è scritto sta scrivendo. In questo momento la mia testa sta viaggiando. Pure troppo. M'immagino qualsiasi cosa. Che ora mi dica: "aspettami che voglio salutarti". Oppure un semplice: "non partire perché io ti amo". O meglio ancora: "dimmi dove sei, che ti raggiungo e fuggo via con te". Questo "sta scrivendo" sta durando un'eternità. E in un secondo o dall'eternità, alla morte più totale. "Ah ok. Posso are allora a prendere le mie cose? M". Ecco. Io e le aspettative non è che andiamo proprio d’accordo. Ci ha messo due ore contate per digitare queste cazzate, mentre io pensavo che mi stesse chiedendo di tornare insieme. Non risponderò. Né ora, né mai. Parto. Il viaggio sembra lungo ed infinito. Anzi: è lungo e infinito. In autostrada non c'è nessuno. Si viaggia benissimo e non ho fatto neanche una sosta. Alla radio danno l'ultima di Elisa e il navigatore non parla da ore. Viaggio sulla corsia di destra e vado rispettando la velocità di 130km orari. Camminando penso a quanto stia per cambiare la mia vita e a quanto sono stato fortunato ad aver

incontrato Pamela. Chissà se mio padre sarebbe stato orgoglioso di me. Ho dei pensieri troppo confusi. Non c'è un filo logico nella mia testa in questo momento. Un botto. Un rumore e poi un altro ancora. Oddio. Cazzo. Che succede. Sembra che nella mia macchina sia scoppiato il Capodanno cinese. Fumo. Il giusto. Non troppo. Poi vorrei sapere da cosa io deduco che sia il giusto, ma questa è un'altra storia. Comincio a sentir caldo. Caldissimo. Cazzo. Il navigatore è morto. Si è spento. Assieme al navigatore si sta spegnendo anche la macchina. Mi accosto sulla corsia d'emergenza e scendo veloce portandomi con me l'iPhone e Flunder. Apro il portabagagli e faccio uscire il calore. E ora che si fa? Io non sono abituato a prendere grandi decisioni in momenti come questi. Ma per una volta sono stato intelligente e veloce. Con tutte queste compagnie assicurative online, ho scelto la più economica. Ma tra i vari servizi richiesti avevo aggiunto anche l'assistenza stradale. Insieme ad essa avevo anche scelto l'assistenza in caso di foratura e l'autista pronto a riaccompagnarmi a casa qualora la mia vettura non sia stata pronta in cinque minuti. Detto fatto, pagai molto più di un assicurazione normale. Ma non ci posso fare niente. E' una malattia quella di aggiungere le opzioni sui carrelli online. Sotto il sedile del conducente avevo messo il foglio con il numero da chiamare. E chiamo. Squilla. Squilla. Squilla, quando ad un tratto sento rispondere un uomo con una voce da soap opera. «Si, sono Claudio, numero 2222. In cosa posso esserle utile?» «Buonasera, Claudio. Vengo da Roma, direzione Milano, vorrei dirle dove sono ma non lo so. Fatto sta che mi è spenta la macchina ed ho chiamato subito il numero che mi aveva dato la mia assicurazione». «Cosa è successo alla macchina?» «Vorrei saperglielo dire, ma mi creda, non lo so. Ho sentito dei botti. C'è stato del fumo. Si è spento il navigatore, ho accostato e sono sceso. Ah, e faceva improvvisamente anche tanto caldo». «Ah, ho capito. Stia tranquillo: in una ventina di minuti sono da lei». «Bene. E come può sapere dove mi trovo?» «Io so tutto».

«Ah ecco. Allora può dirmi dove ho lasciato l'iPod che non lo trovo più da una vita?» «Sotto il sedile del eggero». «L'attendo. Faccia il prima possibile che qui è pure buio». Vado, così per scrupolo, a vedere se l'iPod fosse veramente sotto il sedile del eggero. Metto la mano ed è la prima cosa che trovo. Qui le cose sono due: o è un mago o siamo tutti coglioni che lo nascondiamo li per paura che ci sfondino il vetro della macchina. In venti minuti precisi eccoti arrivare Claudio, con il suo carro attrezzi color giallo Simpson. «Claudio, buonasera. Sa che aveva ragione? Il mio iPod era proprio lì». «Gliel'ho detto». «Lei è veramente un mago. Neanche Do Nascimento sarebbe stato così preciso». «Chi??? » «Il mago di Wanna Marchi, ricorda?» «Quello che scappò via?» «Si. Proprio lui». Claudio mi fa sedere sul suo veicolo giallo. Mi sento tanto alto qui sopra. In quattro mosse tira su la mia macchina. E in meno di dieci minuti partiamo direzione Milano. Mi spiega che ora porterà la macchina nell'officina aperta h24 e che li troverò un transfert che mi porterà fino a casa.

In macchina Claudio fuma ed inizia a parlare del suo lavoro. E' talmente logorroico che sta logorando anche la mia testa, le mie orecchie e la mia pazienza. E' sul bono andante. Maschio. Scuretto. Ha solo un difetto: fuma come un turco. Ne spegne una per accenderne un'altra. Mi sento come una formica dentro un posacenere pieno. «Sai di dove sono?», mi chiede tutto felice. «No, di dove sei?» replico velocemente. «Sono turco». «Ah non avevo dubbi» gli confesso. «Come mai non avevi dubbi?» «Mica solo tu puoi essere mago!» «Allora avrai anche capito che ho una gran ciolla?» «Una che?» «Una ciolla». «Una ciotola?» «Un gran cazzo. Un gran pisello. Senti quà». Mi prende la mano sinistra e me la poggia sul suo miglior amico. In questo momento il mio amico Marco sarebbe già sparito sotto il volante, mentre io, anima innocente, preferirei essere da solo dentro la mia Smart. «Vuoi ciucciare?» Sorrido e piango dentro di me nello stesso secondo. «Grazie Claudio, sei molto gentile, ma sono fidanzato e molto fedele».

«Va beh, se ci ripensi…» La scusa del fidanzato funziona sempre. E' elegante e non offende. Lo disse una volta in video Moira Orfei. Totò l'amava e la voleva. Lei, invece, no. Allora per non farlo restare male gli disse: "Se non fossi così innamorata di mio marito, sarei già stata sua". Claudio, come se non fosse successo nulla, continua a parlare. Questa volta della moglie e del suo vizietto. Poi mi racconta di quanto stia male a Milano. Di quanto non si senta ben accolto. E credo anche di sapere il motivo per il quale non si senta ben accolto. Non tutti vogliono prendere il suo uccello e lui lo vive con un rifiuto. Da lì, il suo malessere. Arriviamo finalmente a Milano. Scendiamo. Firmo due fogli e trovo subito una macchina Panda, da lui chiamata transfert, pronta ad accompagnarmi a casa. Saluto Claudio, faccio spostare tutti i bagagli sulla Panda celeste, prodotti calabresi inclusi, e salgo sulla vettura con un tizio che, grazie a Dio, non parla e non sente. Non dice né si, né no. Ed io per non sbagliare, e per non trovarmi in situazioni spiacevoli, evito di chiedere. L'unica cosa certa è che ci vede. L'indirizzo, infatti, l'ho dovuto scrivere su un foglietto alla pseudo reception dell'officina. Forse dovrei chiamare la mia coinquilina, ma penso che sia il caso di farlo quando arrivo sotto casa, così da non svegliarla molto prima. Arrivo in pochi minuti. Scarico il tutto e mi faccio coraggio nel chiamare la donna che dividerà con me le bollette nella Milano da bere. Squilla. Squilla. Squilla. Squilla. Squilla. Non risponde. Non risponde. Non risponde e non risponde. Guardo i nomi sul citofono ma sono quasi tutti vuoti. Si legge al massimo int.1 - int.3 e via dicendo. Come faccio ora? quando ad un tratto sento squillare il mio telefono. E' lei. «Pronto Swami. Scusami se ti ho svegliata». «Ma quale svegliata, ero con un cliente. Suona e sali. Interno 11». «Ok». Non indago nel voler sapere cosa ci fa lei con un cliente alle quattro del mattino. Mi sbrigo ad entrare, trasferendo tutte le cose dal portone all'ascensore. Salgo e trovo una donna di un metro e novanta con un body che farebbe invidia anche

alle collezioni d'intimo di Valeria Marini. «Ciao amore, io sono Swami. Piacere». Allora. A: sta urlando sul pianerottolo in piena notte. B: non mi conosce e già mi chiama “amore”. C: credo ci sia un errore sul suo curriculum. D: così vestita non può che essere una ballerina di burlesque contemporaneo. «Ciao Swami, io sono Valerio. Mi dispiace se ti ho disturbata, non volevo. Posso lasciare tutto qui, sistemerò tutto domani mattina?» «Ma certo amore. Guarda la casa se ti piace. Questa è la tua stanza. Questa la mia. Questi i bagni. La cucina, il balcone abitabile dove faremo tante cene. Ah, e lui è Pepito». «Ma che bello». Pepito è un pitone reale. Grande a sufficienza per mangiarsi una gallina senza far fatica. A me fanno schifo i serpenti. Fingo di trovarlo bello e fingo di pensare che Swami sia una consulente per politici. E fingo addirittura di pensare che Swami sia una donna. Quasi quasi torno a Roma. No, devo resistere. Mi accerto di capire dove dorme Pepito e, una volta vista la sua teca, saluto Swami. «Domani non ci sono tutto il giorno. Torno per cena. Ti va di mangiare insieme?» mi chiede la sellerona milanese. «Va benissimo. Cucino qualcosina io?» <<Si, adorerei». «Ok. Swami, non ci rimanere male, ma vado a dormire che sono lesso». «Vai tranquillo. Vado anch’io che Pepito è stanco». « Notte ». «Aspetta.. Dammi un bacino della buonanotte». La bacio sulla guancia come Biancaneve faceva con Cucciolo e spero quasi di

aver sbagliato appartamento. Anche se posso dire con certezza che sono in una casa fichissima. E che la mia stanza sembra uscita da un giornale d’interior design. Non ho neanche la forza di mandare un sms a tutti. Lo farò domani. Quando sarò pronto per affrontare Milano, Pepito e Swami.

7 INDOVINA CHI VIENE A CENA

Apro gli occhi e non capisco dove mi trovo. E’ buio pesto e non c’è neanche la solita lucina rossa della televisione a ricordarmi dove sono. Ah già. Sono a Milano. Non mi accadeva esattamente dal giorno successivo dell’esame di maturità di svegliarmi così tardi. Chissà che ore saranno. Con la luce accecante dell’iPhone scopro che sono le 14. Tolgo la modalità aerea e aziono la torcia. Mi faccio strada fino alla finestra per alzare le serrande. Non trovo la cinghia. C’è un pulsante. Questo vorrà dire che sono elettriche. E non sbagliavo. Il cellulare comincia a suonare senza rispetto. WhatsApp, mail, sms e i classici “ho chiamato alle ore” che devo ancora annullare, visto che sono diventati a pagamento . In più ci si mettono le notifiche di Facebook, Instagram e di Running che è sempre pronto a ricordarmi che sono secoli che non mi alleno. Così. Tanto per farmi sentire più in colpa del previsto. Apro la porta della mia stanza e mi dirigo in bagno. Nel mio bagno. Swami non ha precisato qual è il mio e qual è il suo, ma ad occhio mi accorgo che, da quello che potrebbe essere suo, viene un profumo di vaniglia che intossicherebbe pure un clochard. Il mio non profuma per niente. Non c’è niente. Neanche la carta igienica. Anzi si. Nel mobiletto vuoto, c’è un rotolo e vicino un tubetto di crema Luan. Quest’ultima farò finta di non vederla e farò finta di non sapere a cosa serva. Mi siedo per far pipì. Non c’è da scandalizzarsi se un uomo si siede per fare la pipì. E’ che tra l’erezione mattutina e la paura di schizzare fuori, faccio prima a sedermi. Non faccio in tempo a riprendere in mano il telefonino che ecco arrivare la chiamata di Pamela. «Amore come va? Sei vivo? Mi sono preoccupata. Swami? Com’è? Devo essere gelosa? Io verrò dopodomani. E voglio vedere te, ma soprattutto lei. Che dici, porto pure Alex? Sai che ieri sera mi sono sentita male? Credo che nel cocktail ci fosse qualcosa di troppo». «Pamela, ho appena aperto gli occhi. Ieri sera sono crollato, scusami. Casa è meravigliosa. Ora sistemo le mie cose e non vedo l’ora di capire dove mi trovo. Che strana sensazione». «Scusa, e non mi dici niente di Swami?»

«No, ora ti dico. Stasera ceniamo assieme perché lei è fuori tutto il giorno per lavoro». «Eh si, lei è una donna in carriera». «Beh Pami, senza offesa, ma chiamarla donna non credo sia proprio onestissimo». «Perché? E’ un cesso?» «Mmm, credo che abbia il giusto compromesso per far si che noi la possiamo chiamare transessuale». «Cosa?» «Si amo. Ora non te ne uscire con il tuo special love. Dammi il tempo di capire. Ma stanotte, dopo il mio viaggio, e aiutami a dire viaggio, l’ho trovata alle 4 ancora sveglia. Semi nuda. Mi sono scusato dell’ora tarda e lei mi ha detto di non preoccuparmi perché era con un cliente. E, ad occhio e croce, non credo si occupi di marketing, immagine e comunicazione». «Dimmi che non è vero». «Spero di dirtelo, ma ad ora non credo di sbagliare. Stasera avrò modo di parlarci e ti dirò tutto per bene. Ok? Ah amore, fammi un favore. Avvisi tu gli altri sul gruppo che sono vivo e che sono pronto per affrontare la Milano da bere? Aggiungici anche che ieri sera mi è rotta la Smart e che sono dovuto ricorrere al soccorso stradale. Il quale, tra un soccorso e l’altro, mi ha offerto un pompino in corso d’opera. Inutile dirti che io mi sono rifiutato». «Si vede che non ne valeva la pena». «No amica. Si vede che non sono zoccola come te». «Ahahah, cretino. Ci sentiamo stanotte per gli aggiornamenti». Finisco. Mi asciugo. Vado in cucina e trovo sul tavolo un mazzo di chiavi, il mio, che ieri sera avevo dimenticato di chiedere, e una letterina che mi ha lasciato la mia coinquilina. Credo sia stata scritta con il rossetto. «Buongiorno Vale. Sto andando a lavoro e solo Dio sa quanto non mi va. Oggi avrò minimo

venti clienti. Ci vediamo alle 21. Siamo io, Diego, Karmen con la K e Paolino. Bacio, Swami». Ah ecco. Una cosa intima. Che palle. Nutro un po’ di paura nel sapere chi è Karmen con la K, ma penso anche che per cena posso finalmente sfoderare i simpatici omaggi calabresi di Gaya e sua mamma. Sistemo al volo i miei stracci. Sono un gay anomalo. Non ho mai avuto troppo a che fare con il fashion. E non sono neanche uno di quelli che si compra chissà quanti vestiti. Io vado avanti a t-shirt basic, jeans e scarpe da ginnastica. Tiro fuori le mie creme, il mio contorno occhi, il profumo e la candela afrodisiaca, non sia mai potesse essermi utile. Una volta sistemato, scendo giù. Intorno non c’è molto, ma grazie a Google Maps trovo subito il supermercato più vicino, che dista due minuti a piedi da casa mia. All’entrata mi scontro con il carrello con un rapper italiano abbastanza famoso. Lui pensa che io non l’abbia riconosciuto, ma io riconosco tutti. Soprattutto quelli boni come lui. Comincio a fare un rifornimento generale delle cose che uso abitualmente. Il frigo in cucina era vuoto. Evidentemente Swami, per essere così magra, si nutre d’aria e di tanto amore. Arrivo alla cassa con un carrello così pieno che solo Dio sa come potrò arrivare a casa da solo. Dopo aver speso 113,46€ arrivo sino all’ascensore del mio palazzo con il carrello. Salgo, poso la spesa al volo e mi sbrigo a scendere per riconsegnare il carrello e per riprendermi il mio euro lasciato dentro in deposito. Risalgo e porto le buste in cucina. Apro il frigo e, senza guardare, mi chino a terra e prendo pezzo per pezzo quello che trovo nelle buste. Acqua, the, Coca cola zero, Kinder fetta a latte, mais, fagioli cannellini, yogurt magro, latte di soia, pomodori ciliegino e una zucchina enorme. Non faccio in tempo a pensare a quando l’ho presa che emetto un urlo che, come minimo, avranno sentito sino a Roma. E’ Pepito. Stavo mettendo, anzi ho messo, Pepito nel frigo. Nella vaschetta delle verdure. Oddio. Oh cazzo. Per evitare di farlo morire dentro il frigorifero, mi faccio coraggio e prendo la vaschetta con lui dentro, corro verso il bagno e poggio tutto per terra, chiudendo la porta. Il mio cuore è finito. Mando subito un sms a Swami: «Cara. Pepito è finito dentro le buste della mia spesa, e mentre trasferivo le cose nel frigo, me lo sono ritrovato in mano. Pensavo di morire. Senza offesa, l’ho portato in bagno con la finestra chiusa e la tavoletta abbassata». Risposta immediata della mia coinquilina: «Oddio Vale, lui è curioso, voleva vedere da vicino se c’era qualche cosa per lui. E’ abituato a stare nella mia Chanel. Comunque stasera lo rimetto in teca. Scusami». Non pensavo fosse così gentile. In genere gli amanti di questi animali esotici vogliono sempre aver ragione. Vogliono far are per affettuoso un pitone. Inizio a pensare al menù della cena. Antipasto di prosciutto crudo e fichi, mozzarelline con olio, sale e pepe, peperoncini ripieni from Catanzaro, ‘nduja e

burro su letto di pane e una carbonara di quelle che solo io so fare. Maria Scicolone sei finita. Scherzando e ridendo si sono fatte le 19 ed ho apparecchiato con le cose che ho trovato. Mi sembra di mangiare su una zebra. Dalla tovaglia, alle posate è tutto rigorosamente zebrato. Roba che Roberto Cavalli si sentirebbe addirittura in difficoltà. Stefania Orlando invece sarebbe in grado di mettersi la tovaglia addosso. Per lei l’animalier (sintetico) è tutto. Beata lei. Mi accorgo che sarebbe il caso che io mi faccia una doccia, ma ricordo anche che nel mio bagno c’è Pepito, pronto a soffocarmi mentre mi o un po’ di scrub sul mio culo piatto. Senza avvisare ne approfitto per farmi una doccia nel bagno di Swami. E’ così friendly che non si offenderà. Lei non ha la doccia. Ha una vasca che potrebbe ospitare anche un’intera squadra di calcio, tanto è grande. Entro nel bagno, tutto rigorosamente rosa. Sembra il bagno di Hello Kitty. Mi avvicino ai rubinetti. Comincio a far scendere l’acqua fino a riempirla. Nel contempo ho fatto cadere un po’ di sapone per creare quell’effetto Pretty woman. In bagno si soffoca. Ma io amo questa sensazione. Mi immergo e comincio a rilassarmi, quando ad un tratto sento aprire la porta di casa. Ecco, lo sapevo. Ora che le dico? Comincio improvvisamente a sentir freddo. Dal caldo africano di un secondo fa, al gelo dell’antartide. «Swami? Swami? Ci sei?» «Ma che ci fai nel mio bagno?» «Scusami ti prego, dovevo lavarmi, ma nel mio bagno c’era Pepito e avevo paura di farlo con lui». «Ahah, aspettami che ora vengo anch’io in acqua». «Allora esco al volo. Dammi un attimo». «No. No. Resta che ci laviamo assieme». «Swami, ma io sono gay e sono nudo». «Amore io sono trans, mi piacciono gli uomini e non la concorrenza» mi

confessa ridendo. «Trans? Giuramelo. Non l’avrei mai detto». La mia falsità. Però che le dovevo dire? Avevo capito che Pepito ce l’hai pure tra le gambe? Eccola che si spoglia. Nuda. Completamente. Davanti a me. Giuro che, nonostante la luce soffusa e la mia vista poco affidabile, quello che ho visto tra le sue gambe è niente rispetto a quello che ho visto nel rettilario del bioparco. Una cosa così grande da poter mettere d’accordo tutti. «Swami, ammazza che bestia». «Amò questo è il segreto del mio successo». «Scusami se sono indiscreto, soprattutto se te lo chiedo ora che sei in acqua con me. Tu sai perché sono qui. Chi mi raccomanda e chi mi ha trovato questo posto. Ma tu che relazione hai con Lui e con il partito? » «Con Lui a dire il vero niente. Lavoro per lui. Sono una sorta di consulente». «Consulente?» «Si li aiuto a sfornare nuove idee». «E in che modo?» «Facendoli rilassare …» «Ah ecco. Ora è tutto più chiaro» le confesso sorridendo. «Non penserai che io sia una zoccola, vero?». «Oddio … con tutta onestà avrei utilizzato un altro termine, ma il significato era il medesimo». Sboom. Mi arriva in fronte un oggetto di medie dimensioni. Rosa e di gomma. Appena lo prendo in mano, divento del suo stesso colore. «Swami ma è un vibratore?!??!» «No. No. E’ un sex toys che io utilizzo quando canto sotto la doccia».

«E dove lo metti?». «In bocca. Cretino». Ride. «Io non faccio la mignotta, né la zoccola, né l’escort. Io faccio la consulente, che è tutta un’altra storia». «Ah, capisco. Però ci sta che io resti incredulo sull’utilità del vibratore come microfono» le confesso sorridendo. Cominciamo a parlare delle nostre vite. Ci si confronta sui nostri percorsi e sulle nostre disavventure sentimentali. Racconto a Swami il perché della mia trasferta a Milano e lei mi racconta in tre parole la sua vita: un gran casino. E’ anche lei di Roma, di San Basilio, un quartiere non troppo distante dal mio. Sin da bambino desiderava diventare una donna e anche lei, come me, è stata vittima di bullismo. Di quello vero. Di quello che ti costringeva a non uscire di casa. E che spesso, costringeva noi a non far uscire i nostri genitori per paura che potessero sentire le umiliazioni alle quali eravamo continuamente soggetti. Abbiamo anche parlato della nostra forza e della nostra ironia, che ci hanno aiutato a non ucciderci quando forse la morte sarebbe stata la scelta più facile. Mi ha raccontato del doloroso cammino e dei tanti soldi spesi. Della famiglia che le ha voltato le spalle da quando aveva undici anni. L’unico che non le ha mai voltato le spalle è stato il fratello. Che però non riesce a vedere da anni, essendo in isolamento nel carcere di Rebibbia. Pare abbia ucciso un uomo. Dico pare, perché anche lei non ha ben capito se è colpevole davvero o se è stato vittima di un complotto per proteggere un pesce più grande. Mentre Swami parla, la mia testa viaggia più veloce della luce e penso a cosa dovrò dire a Pamela quando mi chiederà informazioni sulla mia coinquilina. Usciamo dall’acqua e ci asciughiamo. Ognuno con il suo accappatoio. Siamo nudi e questa cosa non ci crea imbarazzo. Anzi, a me si. Perché quel pene li lei non se lo merita. Mi presta un accappatoio con scritto muchacha ed io scoppio a ridere. Il mio è rimasto a Roma, assieme ad un pezzo del mio cuore. Vado in camera, mi metto qualcosa di comodo e stendo l’accappatoio in balcone ad asciugare. Ci mettiamo a cucinare. Swami mi aiuta a preparare il menù per la sera e mi confida che non vede l’ora di presentarmi i suoi amici. Tra una chiacchiera e l’altra scopro che l’affitto noi non dobbiamo pagarlo. Pensa a tutto Lui. Si quel lui li. Quel lui che Pamela non ho ancora capito perché non incastra. Affari suoi. E’ tutto pronto. L’acqua bolle e nel frattempo ecco suonare il citofono.

«Sono loro. Butta la pasta» grida dal corridoio Swami. Eccoli. Ripeto quattro volte piacere, e di queste quattro volte, solo una volta sono realmente contento d’aver detto piacere. Karmen, come immaginavo, è una trans, solo che rispetto a Swami è leggermente più volgare. Fica, ma volgare. Poi c’è Paolino, un parrucchiere televisivo, e Diego. Quest’ultimo è veramente bono. Lavora come cubista in una discoteca di Milano. Dentro di me penso che mai condividerei il letto con un cubista ma, ad ogni modo, meglio tenerselo buono per qualche consumazione in più. La cena scorre veloce. Sembriamo più affiatati noi che amici che si conoscono da anni. Mi fanno i complimenti per la cena, ma non mi sono dovuto impegnare più di tanto. Racconto per la seconda volta del perché sono venuto a Milano e della fine della mia relazione con Michele. Loro abitano tutti qui vicino, quindi, a meno che Swami non sia impegnata con le sue conferenze in camera da letto, non escludo di trovarmeli a cena una sera si e l’altra pure. Intorno all’una di notte, quando in cucina cominciano ad arrivare i primi sbadigli, Karmen inizia a preparare una canna. «Vale, ne vuoi un po’?» mi chiede tutta orgogliosa Karmen. «Come se avessi accettato». «Perché non fumi?» «No. Non fumo, non mi drogo e non vado a donne». «Ah, ecco, un mezzo frocio rincoglionito». Scoppiano tutti a ridere. Non c’è niente da fare. Posso cambiare città, paese o pianeta ma io per gli altri resto sempre un pupazzo. Un clown. Il giullare di turno. Una professoressa tanto stronza, quanto brutta, alle superiori non faceva altro che ripetermi “sei superficiale”. Se solo sapesse quante volte quella superficialità mi ha salvato la vita. I ragazzi si alzano e se ne vanno. Paolino ha voluto lavare i piatti, dice che lo rilassa. Beato lui. A me fa schifo. Sono nato con la lavastoviglie ed è una delle poche cose che so fare bene assieme all’amore. Vado in camera e, mentre sto per chiudere gli occhi, ecco arrivare Swami in

compagnia di Pepito per il bacio della buonanotte. Ora non prenderò più sonno.

8 PRESENTE

Il primo giorno non si scorda mai. Un po' come il primo amore o come il primo giorno di scuola. L'ansia. La felicità. La fame che a e il sonno che non arriva mai. L'adrenalina che la fa da padrona e la voglia di fare che dura giusto quella prima settimana. Poi apisce. Come la ione. La sveglia suona alle ore 05:30, ma come immaginavo io non ho chiuso occhio. Ho visto tutte le telepromozioni del pianeta. Non me n'è sfuggita una. Mi sarei comprato di tutto: rassoda pancia, panche per addominali, materassi in lattice, pasticche dimagranti, fondi tinta fluidi in grado di coprire anche i tatuaggi e già che c'ero mi sarei fatto fare pure un giro di carte dal cartomante di Tele Lazio. Mi alzo. Vado in cucina e faccio una colazione leggera con latte di soia e caffè. Una fetta biscottata con il miele e poi di nuovo un caffè da solo. Vado in bagno. Chiudo la porta e come ogni volta mi siedo. Trovo il coraggio di togliere la modalità aerea, convinto di trovare chissà quale messaggio, ma la verità è che non mi ha cercato nessuno. Mentre inizio a leggere le didascalie esterne della boccetta del sapone intimo, mi cade l'occhio su un bigliettino messo sul lavandino. E' Swami che mi da il buongiorno. Ci allega un in bocca al lupo e un numero con scritto: “Diego ci tiene a farti avere il suo numero. Chiamalo, no?” Cazzo, che figata. Una botta alla mia autostima alle 05:45 non credo di averla mai avuta. Mi faccio al volo una maschera, scelgo il look adatto per far star zitta Cinzia d'Azeglio ed entro in doccia. L’acqua è talmente tanto calda che ci vorrà un mese per far si che il bagno si spanni del tutto. Mi vesto, spruzzo due gocce di profumo, prendo le chiavi e scappo via. Faccio al volo mente locale se ho dimenticato qualcosa, ma mai come oggi mi sento sicuro e pronto. Gli studi sono appena fuori Milano. Secondo il navigatore ci vorranno una ventina di minuti. La macchina fortunatamente è tornata ieri dalla riparazione. Parto. Sono nettamente in anticipo, ma il primo giorno è sempre meglio arrivare prima. In fondo, c'è sempre tempo per far tardi. Per strada non c'è ancora molta

gente. Le scuole stanno per riaprire ed io, godendo di questi momenti, mi auguro che non riaprano mai. All'entrata mi fanno accostare. Devo scendere, lasciare il documento, firmare dei fogli e preparare un che mi permetterà di non fermarmi più. Tempo dieci minuti ed il è fatto. Mi danno tutte le indicazioni ed arrivo proprio sotto la porta del mio nuovo ufficio. C'è un parcheggio tra due macchine ed io, per parcheggiare tra di loro, in un modo non troppo elegante ne tampono una. E poi anche l'altra. Insomma le tampono tutte e due. Voglio sotterrarmi perché, nonostante non gli abbia fatto niente, è partito un allarme fortissimo e sapete che significa un allarme fortissimo alle ore 07:10? Che non erò mai inosservato. Scendo dalla mia Smart, facendo finta di guardare se ho danneggiato la macchina dietro. Ma non è così. Arrivo nella sala dove abbiamo l'appuntamento e non c'è ancora nessuno. Anzi si. C'è un ragazzo. E’ lo stesso che l'altro giorno ho incontrato dopo il colloquio con la Govardi. Proprio quello che speravo di non incontrare mai più. Quant’è crudele il destino quando ci si mette. E' bello. Bellissimo. Ora è seduto, ma sarà alto almeno un metro e ottantotto. Anche ottantanove. Un metro e novanta e sto. Biondo. Pelle chiara. Capelli alla Dawson's Creek e un look da hipster. Jeans chiari. Stretti. Camicia rossa e nera a quadri e un chiodo di pelle. In mano ha un libro. Cerco di capire dai colori della copertina cosa stia leggendo, ma alle 07:10 non sono ancora così perspicace. «Buongiorno, anche lei è qui per "l'Ora D’aria"?» domando dolcemente alle ore 07:11. «Si» risponde secco e conciso. «Bene, allora siamo colleghi. Io sono Valerio. Valerio Falabella. Vengo da Roma e mi sono trasferito da poco a Milano. Anzi, direi pochissimo». Silenzio. Il ragazzo non parla e se ne frega. «Tu?»continuo imperterrito. «Io sono Frederick Vustemberg. Sono svedese. Ti ho visto l'altro giorno per le scale e avevo già immaginato che ti avessero assunto». «Da cosa l'hai capito?»

«Saltavi come una gazzella» replica simpaticamente con un sorriso poco piacevole. «E pensare che non ho fatto neanche le capriole e le verticali a muro». «Posso dirle una cosa?» «Certo, basta che ritorni a darmi del "tu" e non del "lei"». «Scusami è che ancora faccio fatica, dopo otto anni che vivo qui, con il tu e il lei». «Ma tranquillo. Parli sicuramente meglio tu di tanti altri italiani». «Comunque volevo dirti, se mi fai parlare, che mentre facevi retromarcia hai preso in pieno la mia Seat Ibiza. Tu pensavi che non ti avesse visto nessuno. Ma ti abbiamo visto e sentito tutti». «Tutti chi?» «Non so chi fossero. So solo che ti hanno anche ripreso con il cellulare. Erano tutti davanti al distributore del caffè quando hai iniziato a fare quello che hai fatto. Ridevano e commentavano. Io sarei voluto uscire per chiederti cosa stessi facendo, ma poi ho pensato che forse sarebbe stato meglio se fossi rimasto seduto a sorseggiare il mio the». «Allora. Mi dispiace per la tua Seat, ma sappi che non le è successo proprio niente. Al massimo ho dato una bella botta a quella davanti. Ma ora non penserai mica di non dirmi chi mi ha filmato vero? Io ora voglio nome e cognome. Vuoi sapere una delle mie dieci regole?» «Se proprio insisti … ». «Chi sbaglia paga e chi non paga: deve morì». «Democratico. Voti Lega?» «No. Voto i radicali». «Non l'avrei mai detto».

Mi guardo intorno e non vedo nessuno. Neanche una di quelle signore delle pulizie con il carrello della spazzatura. Non è che lo svedese si sia preso gioco di me? Mi sono ripromesso che in questa nuova avventura voglio cambiare immagine. Voglio are come un uomo interessante, serio e totalmente dedito al suo lavoro. Voglio are come un uomo misterioso e non come quello che: "pure se non mi conosci, ti racconto tutta la mia vita". Sono venuto a Milano per acquisire credibilità e stavolta non permetterò a nessuno di stravolgermi i piani. Tra una parola e l’altra, lui, lo svedese misterioso, poggia il libro sulla sedia. Si alza e, come se io non fossi mai esistito, esce fuori senza neanche chiedermi: "vuoi venire?" L'indifferenza. Il libro resta sulla sedia e io allungo l'occhio per capire cosa stia leggendo. E' un libro in una lingua incomprensibile. Credo sia latino. Pure la copertina è abbastanza triste. Si capisce già, da queste piccole cose, di quanto siamo diversi: io sono uno di quelli che sceglie i libri dalla copertina. E posso anche giurare che non sono uno di quelli che li compra e non li legge. Io li compro. Li leggo e poi li espongo tutti come trofei. Come a voler dire: "io leggo". Mentre la mia testa viaggia senza meta, cominciano ad arrivare persone. Una dopo l'altra. Più donne che uomini. Da che eravamo in due, siamo diventati almeno una trentina. Gli uomini che arrivano non salutano. Le donne invece non fanno altro che dire: "Buongiorno". E tutti in coro silenziosamente rispondiamo la stessa cosa. Un po' come quando si va dal dottore. Frederick l'ho perso. Mancano due minuti all’inizio dell’incontro ed ecco arrivare la Govardi, la simpaticissima Cinzia e un bell’uomo alto, riccio, sulla quarantina. Assieme a loro rientra anche lo svedese. Chissà dove sarà stato tutto questo tempo. «Buongiorno a tutti e ben arrivati. Siamo stati puntualissimi. Ora faremo un appello, in modo da capire se siamo tutti e se possiamo spostarci da qui. Vi faremo vedere lo studio e i nostri uffici. Vi presento le due persone che sono con me: lei, forse ve la ricorderete in sede di colloquio, è Cinzia D'Azeglio, e lui è Pietro Roccia. Cinzia è il mio braccio destro. E' la mia agenda umana. E' dotata di grande memoria e grande sensibilità. Professionale e meticolosa. Lui è l'unica persona che ho confermato da sempre nella mia vita. L'autore per eccellenza. Ha firmato i più grandi programmi televisivi ed ha scritto le migliori canzoni della musica italiana. E' una delle poche persone sulle quali posso contare. E' molto severo con se stesso, con gli altri e anche con me. Ora, se non vi dispiace, erei la parola a Cinzia per l'appello». «Oggi siete stati tutti convocati. Ci sono cameraman, addetti alle luci e alla sicurezza. C'è il reparto produzione, l’intera redazione, gli addetti agli ospiti e le

ragazze che saranno impegnate nel sistemare il pubblico. Ogni nome che farò vorrei che fe un o avanti, così da poter creare subito i vari gruppi. I gruppi sono stati già formati. Quindi evitiamo i soliti discorsi del tipo "io preferivo stare con lui" piuttosto che con "lei". Qui siete per lavorare». Inizia a fare l’appello. I gruppi sono da tre, massimo cinque persone. Lei è simpatica come l'1% della batteria dell'iPhone. Odiosa al punto giusto. Ma poi brutta. Sarà alta un metro e cinquanta. Fisico magro e gambe storte. Prova a mascherare la sua bassezza con delle orrende zeppe di sughero, che neanche ad Ibiza negli anni '80. Ha uno shatush di una tristezza infinita e, guardandola bene, ricorda terribilmente Andrea di Beverly Hills. «Ora facciano un o avanti i redattori che saranno nella stanza 4 al piano 1: Frederick Vustemberg, Susanna Vegan, Clarissa Lamantia e Valerio Falabella». Faccio un o avanti e mi sento gli occhi di tutti puntati addosso. In realtà anche io prima facevo la stessa cosa. Li guardavo e pensavo dentro di me: "ammazza quanti cessi in libera uscita". Forse per la prima volta nella mia vita, ho pensato: “cazzo, quanto sono fico”. L'unico più bello di me è lo svedese che, per ironia della sorte, sarà anche nella mia stessa stanza. Una volta formato il gruppo, il braccio destro della conduttrice ci spiega quali saranno i nostri ruoli e i nostri compiti. Spiega l'importanza delle nostre figure e precisa subito il mazzo al quale andremo incontro. Mentre parla mi fissa, con gli occhi pieni di veleno. Come se le avessi rubato il fidanzato. Poi ad un tratto noto che anche la Govardi mi fissa insistentemente. Cosa starà pensando? A farle compagnia c'è Pietro. Anche lui inizia a fissarmi e dopo circa venti secondi di sguardi, si avvicina all’orecchio destro di Daria e le spiffera qualcosa, coprendosi accuratamente la bocca. Le starà chiedendo se sono io quello raccomandato dal senatore. La risposta sarà pure “Si è lui”, ma oramai è troppo tardi per i ripensamenti. Io sono qui. Con noi la bellissima Cinzia finisce di fare gli appelli, informandoci che tra poco entreremo nello studio televisivo. Ci invita ad essere molto delicati, in quanto lo studio è stato realizzato con dei materiali di ultima generazione, molto belli in video, quanto molto delicati nella realtà. Mentre attendiamo di entrare a gruppi da cinque, Pietro richiama tutti alla sua attenzione. «Falabella?».

Cosa avrò mai fatto in meno di venti minuti? Non ho aperto neanche bocca. Mi sono solamente limitato a dire: "presente". La mia sensazione di prima non era del tutto sbagliata. «Si?». «Mi raccomando, attenzione nello studio». «A cosa devo questa raccomandazione?» «Perché ho visto come ha parcheggiato la sua macchina e anche come ha tamponato la mia».

Tutti ridono, tranne una: Cinzia. Anzi, tranne due, perché neanche io rido. «Mi scusi. Non avevo preso bene le distanze. Però le posso garantire che non le ho fatto nessun danno. Giuro». «Lo so. Ho già controllato». Sorrido e mi rigiro velocemente, alla ricerca di qualche sguardo amico. E’ più forte di me. Come faccio sbaglio. Come dico qualcosa, anche. Ma perché? Cosa c'è di sbagliato in me? E’ arrivato il momento di entrare in studio con gli altri tre. Lo studio è piccolo, ma bellissimo. Sembra una piccola arena. Il pubblico sarà tutto intorno, seduto su degli spalti, decisamente troppo alti, con al centro due belle sedie di design e un tavolo grigio. I colori sono tutti scuri e figuranti saranno quasi al buio. Da quanto spiega Cinzia si dovrebbero vedere solamente le loro sagome. Le luci saranno puntate solo su Daria e i suoi ospiti. Noi redattori seguiremo l’intera puntata da un salottino improvvisato dietro le quinte. Finito il tour, saliamo verso i nostri uffici con un ascensore moderno e molto grande. Siamo al primo piano, potevamo anche fare le scale come tutti i comuni mortali, ma probabilmente Signorina scarpe di sughero sarà già stanca. «La prima stanza è il camerino di Daria. La seconda è l'ufficio di Daria e Pietro. La terza è per la produzione e la quarta è la vostra». Cinzia apre la porta e restiamo tutti a bocca aperta. Ognuno di noi avrà a disposizione un iMac e una scrivania. In più, c’è un bagno in stanza e delle finestre che danno proprio sul giardino degli studi. «Ogni scrivania ha già il suo redattore destinato. Ho pensato bene io a scegliere le postazioni». Ovviamente io sono stato destinato alla postazione più sfigata. A ridosso del bagno. Così sentirò rumori e puzze. Ma faccio finta di essere entusiasta e soprattutto di essere così scemo da non pensare alle eventuali scomodità. «Sulla vostra scrivania troverete un foglio con scritti i vostri compiti da svolgere per oggi. Iniziate e buon lavoro. Ah, avete tutti il mio numero ed io ho il vostro. Qualora non mi troviate nelle stanze affianco, chiamatemi pure».

Cinzia esce, noi chiudiamo la porta e ci presentiamo per bene. Siamo tutti emozionati. Felici e sorridenti. Frederick un po' meno. E' il meno loquace. Ognuno poggia le sue cose. Ci raccontiamo come siamo finiti a lavorare qui e cominciamo a porci le solite domande: da dove vieni, che studi hai fatto, in che zona vivi e via dicendo. In realtà è un discorso a tre, perché Frederick è l'unico impegnato a leggere attentamente il foglio. Susanna e Clarissa sono due fiche. Sono entrambi milanesi da almeno sette generazioni e abitano insieme. Non sono di quelle belle, belle, ma sanno conciarsi troppo bene. Io dentro di me le ho già soprannominate Wanna e Stefania ma a loro non lo dirò mai. Capisco sin da subito che noi tre saremo una cosa sola, perché concordiamo che Cinzia è brutta, falsa e antipatica. La nostra missione sarà farla fuori a fine produzione e non stento a credere che ci riusciremo. Dicevo noi tre perché lo svedese non parla. Non da segni di vita. Susanna prova ogni tanto ad inserirlo nei nostri discorsi di serie Z, ma lui non cade nel suo tranello e continua a leggere un foglio che riporta semplicemente i nostri orari, le nostre credenziali per accedere al programma di lavoro e i nostri compiti di oggi. Il nostro lavoro sarà quello di trovare argomenti ed ospiti interessanti per il programma. La trasmissione sarà strutturata con tre interviste a personaggi X e un dibattito a puntata su temi diversi da quelli affrontati in altri programmi. Vogliono puntare tutto sull’originalità. Mentre ognuno di noi inizia a googlare, Clarissa ne approfitta per invitarci alla sua festa di stasera. «Ragazzi, oggi compio trent'anni. E' vero che non ci conosciamo bene, ma visto che staremo molto tempo insieme mi farebbe troppo piacere se veniste. Festeggio al Manhattan, sui Navigli. Offro tutto io». Sull’ondata dell’euforia generale dico subito di si. Susanna, a sentir lei, sta già li, mentre Frederick sembra essere l'unico con dei dubbi. «Scusa, che devi fare stasera?» domando come neanche fosse il mio compleanno. «Sai, volevo andare a letto presto. Domani alle nove saremo di nuovo qui». «Si, ma ti ricordo che oggi stacchiamo alle cinque e che comunque un aperitivo finisce presto». «Ok, vengo». Sono il numero uno a convincere le persone. Anzi, ad obbligarle a dirmi di si.

Il tempo, mai come oggi, scorre veloce. E’ arrivata l’ora di pranzo ed io non ho ancora fame. Vorrei che questa sensazione di inappetenza non finisse mai. Abbiamo la mensa pagata, essendo collaboratori interni, ma una volta li capiamo che ci vedrà oggi e mai più. C'è una fila immensa e, da domani, il pranzo da casa sarà la soluzione migliore. Arrivati al bancone, Susanna si limita a prendere del riso basmati e delle verdure lesse. Clarissa solo delle verdure e Frederick della carne accompagnata da una salsa strana. Io invece mi faccio subito riconoscere prendendo una cotoletta alla milanese accompagnata da patatine fritte, con tanta maionese. «Clarissa, io non ti conosco bene, quindi mi devi aiutare. Cosa posso regalarti stasera? » «Mmm, fammi pensare. L'ultimo mascara di Dior». «Ah ok» rispondo imbarazzato. Sarà che sono timido e sarà anche che sono romano ma io, a qualcuno che mi chiede “cosa posso regalarti”, sono abituato a rispondere "basta la tua presenza". Per carità, si sa che sono cazzate che nessuno pensa realmente. Ma specialmente ad uno sconosciuto non chiederei mai qualcosa. Vedo che gli altri due non chiedono. Beati loro. Si fanno le cinque, inviamo tutto il lavoro all'e - mail di Cinzia e andiamo via. Noi redattori ci vedremo stasera e con tutti gli altri direttamente domani. Salgo in Smart, facendo molta attenzione a non distruggere nessuna macchina, e mi avvio verso casa.

Prima però devo fermarmi ad un Sephora che avevo visto non troppo lontano da casa mia. Entro, dirigendomi subito verso il corner Dior. Ad attendermi, un commesso che di maschile ha solo il nome all’anagrafe. E non ne sono neanche troppo sicuro. Infatti, non sbagliavo. Si chiama Michelle. Gli spiego quello che cerco, o meglio ancora, quello che mi è stato espressamente chiesto come regalo di compleanno. Con una rapidità da guinness dei primati mi ritrovo in cassa senza neanche conoscere il prezzo. Arriva il mio turno e la cassiera mi comunica che le devo 40€. Roba che con quaranta euro, da Kiko, sarei uscito anche con una commessa in braccio. Le chiedo un pacchetto regalo, ma evidentemente oggi non è proprio il mio giorno fortunato. Non si fanno confezioni regalo. Per scusarsi mi riempie di campioncini di profumo che non ò mai, ed esco dal negozio molto più leggero, perchè 40€, a me, pesano. Che poi, a pensarci bene, ai compleanni dei miei amici me la sono sempre cavata con 10€, mentre questa stronza, che neanche conosco, me ne ha fatti spendere quaranta. Come minimo dovrà diventare la mia miglior amica e come minimo staserà berrò pure le consumazioni degli altri, giusto per poter dire: in fondo non c'ho rimesso poi tanto.

9 L’APE(ritivo)

Cosa mi metto per non are inosservato, evitando però di sembrare il nipotino di Platinette? Apro l'armadio e mi butto sul solito jeans chiaro, skinny. E’ talmente stretto che metterlo è sempre facile, ma toglierlo è praticamente impossibile. Scelgo le scarpe nere lucide, quelle prese a Roma al banco dell'usato di Porta Portese. Nello stesso banco dove è stata anche Sarah Jessica Parker qualche giorno fa. Le guardo attentamente e penso che siano l’acquisto più giusto dell’ultimo anno. Fanno tanto “ragazzo alternativo”. Sopra metto una maglietta XXL nera, larghissima e lunghissima così da poter coprire pancia, maniglie e zip dei pantaloni, rigorosamente rotta. Mentre sto per uscire, ecco rientrare Swami. Ancor prima che lei aprisse la porta io già sentivo il suo profumo, è incredibile. «Amore ciao. Dov'è che stai andando? Sei così bello. Esci con un uomo? » «Cuore no. Vado alla festa di una collega che mi ha invitato al suo compleanno. Non sarei mai uscito, ma come facevo a dirle di no? Tra l'altro le ho regalato un rimmel che mi è costato quanto un volo Milano – Mosca». «Fa un ape? » «Che fa l'ape?» «Eh?» «L'ape fa il miele». «Idiota. Fa un aperitivo?» Scoppiamo a ridere. «Ma perché dici ape, quando si dice aperitivo? Non dimenticare che sei romana, non milanese. Si, comunque facciamo un aperitivo sui Navigli. Ha invitato noi redattori e dei suoi amici. Vado, sperando di non fare tardi. Ma non è che vuoi

venire che mi sento tanto solo?» «Scherzi? stasera ricomincia Chi l'ha visto. Io e Pepito non ci perdiamo una puntata». «Sai che ridere, allora. Un pitone e una pitonessa amanti dei gialli. Non me lo sarei mai immaginato». «Ma scusa, non mi racconti la tua prima giornata di lavoro?» «In due parole: uno so. Colleghi carini. Ho fatto qualche gaffe, ma tutto rientra ancora nella norma. Sai, il primo giorno è sempre tutto così indecifrabile. Comunque sono contento e positivo. Swami ti amo, erei la serata con te e non con Pepito, ma devo proprio scappare». Esco, chiudo la porta e scendo senza prendere l'ascensore. Arrivo di fuori e c'è già il taxi ad attendermi. Ho deciso di non prendere la macchina perché non mi andava di impazzire tra parcheggi, navigatore e ZTL. In taxi, ne approfitto per mettere la sveglia per domani. Sono in ritardo di dieci minuti. Un dignitoso ritardo. Per una vita sono sempre arrivato primo. Spesso anche prima dei festeggiati stessi. Ad accogliermi all’entrata c'è Clarissa. Appena le faccio vedere la bustina impazzisce. Salta e sventola in aria il pacchettino come a voler dire “ho trovato un coglione che ha speso 40€ per me.” «Lui è Valerio. E' un mio collega, ed è un figo senza precedenti». Clarissa mi presenta davanti ad almeno trenta persone in un modo così pittoresco, che piuttosto preferirei sparire come una di quelle circensi nelle scatole. «Ciao a tutti. Piacere. Immagino che questi complimenti siano dovuti al pacchetto di Dior. Una garanzia». «Ma no, pirla. Lì ci sono Susanna e Frederick, raggiungili». In sintesi mi ha detto: “ok, il regalo me l'hai dato, la tua figura di merda l'hai fatta e ora vatti a sedere. Pirla”. Ed io, come un pirla, ci vado e pure subito. In mano mi ha lasciato un cartoncino quadrato da presentare al bancone per ritirare la mia consumazione. Nell’avviarmi verso i ragazzi, i miei occhi si dividono. Uno cade sulle buste degli altri regali e garantisco che Dior è la cosa più costosa che vedrà stasera. L'altro cade su Frederick. E' fottutamente bello. Un dio. Non so quanti anni abbia e non credo neanche sia gay. Ma è di quel bello da lasciarti a bocca aperta. Senza fiato. Un modello. Però in parte sono tranquillo e poco invidioso.

Siamo così diversi che a lavoro potranno amare o me o lui. Non esiste uno più bello. Siamo un po' come le veline per un eterosessuale medio: o la bionda o la mora. Oppure tutte e due, che l'unione fa la forza. Purtroppo gli occhi mi cadono pure sul look di Susanna. Sembra uscita direttamente da un matrimonio di sera, in quelle località del sud Italia, dove il banchetto inizia alle 17 e finisce alle 8 del mattino seguente. «Ciao belli, eccomi. Scusate il ritardo ma trovare un taxi a Milano non è cosa semplice». «Non ti preoccupare. Vatti a fare un piatto che c'è un couscous meraviglioso» risponde subito Susanna. «Ciao Frederick, eh?» «Ciao Valerio». «Sempre pieno di vita il nostro collega, non credi Susanna?» Lei ride. Lui pure. Ed io ne approfitto per andare a prendere da bere. Non chiedo se loro vogliono qualcosa, perché hanno già la loro consumazione in mano. Il locale è pieno. Non si respira. Mentre attendo il mio turno al bancone, noto che anche a Milano va forte il karaoke. Nel locale c'è un palchetto dove ci si può esibire. Con l'unica differenza che a Roma si usa cantare canzoni strappalacrime, mentre a Milano vanno forti i revival. «Cosa prendi?» mi chiede il barman. «Mmm, cosa ami fare?» rispondo io, non essendo un esperto di drink. «Tutto, tranne le pestate». «Perfetto, allora un mojito».

Ho visto, nel giro di un secondo, i suoi occhi diventare rossi, poi bordeaux, poi viola. Il barman è diventato Satana. Dov'è che ho sbagliato? Cosa avrò mai detto? Mentre prepara il mio mojito, googlo e scopro che il mojito risulta una pestata. Però googlando, apprendo anche dell’esistenza di una pagina Facebook che dice: "il Mojito non è un pestato". Ed io prendo quella pagina per buono. Mi poggia, anzi mi sbatte, la consumazione sul tavolo, e neanche mi guarda in faccia. Che stronzo, cafone. Prendo il mio bicchiere, mi giro e mi ritrovo inspiegabilmente faccia a faccia, pancia a pancia, con l'autore. Con Pietro. Con il mio superiore. Anche lui qui. «Falabella, anche tu alla festa di Clarissa?» «Eh già. Anche tu sei dei nostri?» «No. Io sono qui per un compleanno di un amico. Laggiù». Mi indica un punto che io guardo, ma che ovviamente non vedo. A, perché sono senza occhiali. B, perché sto sudando freddo. C, perché ho paura di rovesciargli il cocktail addosso. D, è troppo tardi. L'ho fatto. Come mi succede ogni volta che sono in discoteca. Ho un problema a tenere i bicchieri in mano, a quanto pare. «Falabella. Falabella. Stamattina la macchina. Ora il cocktail sui miei pantaloni. Domani cosa può succedere ancora?» Rido. «Oddio Pietro ti prego. Non mi odiare è che... è che... è che ho una forte tendinite. E non riesco ad usare bene il braccio e la mano destra. Però non te ne uscire con Cinzia o con Daria. Voglio esserci e non voglio fare nessuna assenza. Ci tengo troppo al mio posto di lavoro». «Beh, allora raggiungici al tavolo che c'è un mio amico, Walter, il fisioterapista più importante di tutta la regione Lombardia». «Non mancherò. Vado a sedermi prima di fare altri danni, e scusami ancora. Ah, e ovviamente al conto della lavanderia ci penso io!» Mi si avvicina, più di quanto già non lo fossimo. Mi dice qualcosa all'orecchio che non riesco a sentire, ma che faccio finta di capire, sorridendogli. Cieco, si. Monco, pure. Sordo no. E se mi avesse detto “sei un perfetto coglione”? Io nel dubbio, ho riso. Torno al mio divanetto e noto che Susanna non c'è più. C'è solo

Frederick. «Ci hai messo molto a prendere da bere» afferma il morto che parla. «Non puoi capire ho rovesciato metà mojito su Pietro». «L’autore? Ha invitato anche lui?» «No. Lui è qui per la festa di un suo amico». «E si è arrabbiato che gli hai tirato il cocktail addosso?» «Mmm, ha sorriso».

«Se l'avessi fatto a me... ». «Se l'avessi fatto a te, cosa?» «Ti avrei ucciso». «Per un po' di alcool?» «Si». «Senti Frederick, ma tu di dove sei precisamente? Come sei finito qui e dove abiti ora?» «Vuoi sapere proprio tutto, eh?» «Oddio, non credo di averti chiesto la luna». «No. Ma per me è tanto. Sai, io sono nato in Svezia, ma poi ho vissuto sempre a Rovaniemi, in Finlandia». «Come Babbo Natale?» Mi guarda male. Poi abbozza un sorriso. «Si, proprio come lui. Solo che io ho smesso di crederci molto presto. Quando ero bambino ne vedevo troppi e tutti i santi giorni. Magri. Grassi. Vecchi. Si cambiavano ovunque. Diciamo che il Natale lo sentivo più perché chiudevano le scuole, che per altro. I miei lavoravano tutto il giorno ed io sono cresciuto solo con mia nonna, che non aveva una gran voglia di dirmi grosse bugie. Era priva di sovrastrutture. Parlava poco e, quando lo faceva, diceva la verità. Sono venuto in Italia per amore». «Scusa Frederick, quanti anni hai? Duemila?» «No. Solamente 34». «E ora che sei in Italia, che fine ha fatto quell'amore?» «E' finita». «Stai male?» gli chiedo con lo stesso entusiasmo con il quale, Franca Leosini, chiede all’assassino se si è pentito di aver fracassato la testa al suo vicino di

casa. «No. Oramai sono ati due anni». «E lei che fine ha fatto?» Tempo di fare questa domanda che, dal nulla, mi sento cadere dentro la schiena un cubetto di ghiaccio. Poi due. Poi tre. Ora mi giro e faccio una strage da film americano. Mi alzo e, dopo essermi voltato, in un secondo torno ad essere quello che ero prima. Un perfetto pirla. «Pietro, ti stai vendicando per oggi?» «Si ma anche per domani e per dopodomani. Mi rovinerai. Lui è Walter. Visto che tu non sei venuto, siamo venuti noi». «Ciao Walter. Non ti stringo la mano perché la destra mi fa malissimo». «Fammi vedere».

«Cosa?» «La mano. Non sei tu ad avere una forte tendinite?» Io non so dire le bugie. Non tanto per la scelta delle scuse da usare, quanto per seri problemi di memoria. Chiamatemi pure Dory, con l’unica differenza che io non parlo il balenese. Walter, il fisioterapista, prende la mia mano e la smuove. Forse un po' troppo, a dir la verità. «Eppure non mi sembri così compromesso». «Trovi? io non riesco a chiudere bene la mano. Mi fa male il braccio e mi si addormenta tutta la notte. Una tragedia che mi porto dietro da mesi». «Addirittura?» Mentre studia il mio braccio e la mia mano, noto che Walter è più attento a guardarmi altrove. Magari sono scemo, o magari ho semplicemente bevuto a stomaco vuoto. «Tieni». Mi mette un bigliettino da visita in mano. «Vieni a trovarmi a studio domani o dopodomani e vediamo insieme cosa fare». Annuisco, ringrazio e mi siedo di nuovo vicino a Frederick. «Usciamo a fumare. Vieni?» mi chiede Pietro. «Ragazzi mi dispiace. Ho smesso di fumare. Ci vediamo quando rientrate». Loro escono tutti contenti a prendere una boccata di nicotina e, mentre io provo a riprendere il discorso con il folletto di babbo Natale, ecco arrivare Susanna e Clarissa a rovinare le mie intenzioni. «Hey bellezze. Vi va di cantare una canzone per me?» chiede Clarissa, mentre Susanna mi offre il suo cocktail, perché troppo forte per lei. Frederick neanche risponde ed io inizio a dire no. Possibile che questa, senza neanche conoscermi, mi deve mettere così in difficoltà? Non bastavano i quaranta euro di mascara? Io, nell’indecisione, bevo. Il mio mojito, grazie al danno fatto, era almeno la metà. Questo che mi ha ato Susanna sarà un angelo azzurro, o almeno credo.

Alcool puro che, per uno come me che non beve, è da suicidio immediato. «Vale, sono seria. La mia festa si sta ammosciando e in molti cominciano ad andarsene. Ti prego, canta una canzone. Ti prego. Te ne sarò riconoscente tutta la vita. Ti prego. Ti prego». Niente. Sarà l'alcool. Sarà che sono il re dei karaoke e sarà anche il sentirmi una popstar incompresa, che non c'è voluto molto a convincermi. In un attimo, mi ritrovo sul palchetto del locale più in voga dei Navigli. Ho perso di vista tutti. Non conosco più nessuno. Parte la musica. Ho scelto la cover di “I love rock'n roll”, nella versione di Britney Spears. Canto e ballo. Ok, stono e ballo. Mi muovo. Prima timidamente, poi, dopo il primo ritornello, inizio a muovermi come una capo cubista del Cocoricò. Barcollo. Tra una parola e l'altra urlo “auguri a tutte”. Poi il vuoto.

10 DIMMI CHE NON E’ VERO

La sveglia dell'iPhone suona ed io "tocco" per ritardarla. Suona. Ed io la respingo. Suona e poi non suona più. Apro gli occhi ed è tutto buio. Non vedo niente. La testa mi scoppia e il telefonino non da più segni di vita. Sono le 07:45 e mi è rimasto massimo un quarto d'ora per poter uscire e raggiungere gli studi. Apro la porta della mia stanza e cado. Più che cado, inciampo su qualcosa. Mi siedo sul mio trono gelato e, per guadagnare tempo, mi attacco alla bottiglia di acqua naturale per depurarmi. Cosa è successo ieri sera per non avere la forza neanche di abbassare la tavoletta? Come sono tornato a casa? Ho un vuoto. Un vuoto pneumatico. Ricordo solo che Clarissa mi aveva supplicato di cantare, ma non so minimamente se l'ho fatto. Mi butto sotto il getto d’acqua calda. Mi asciugo. Mi vesto in un modo abbastanza decente e cerco le chiavi della macchina. Dove cazzo le ho lasciate? Smonto la mia stanza. Apro qualsiasi cassetto. Controllo tutte le tasche dei jeans, pantaloni e giacchetti. Niente. Allora decido di prendere un taxi. Peccato che il mio telefonino è ancora spento. Lo attacco alla presa mentre continuo a cercare le chiavi, ma non carica. I caricabatterie del cinese non sono mai affidabili. Se entrasse un ladro nella mia stanza, in questo momento direbbe "vado via, che qui c’è già ato qualcun altro". Un tale disordine da sembrare un banco dell’usato qualsiasi. E non è da me. Dopo vari tentativi di inserisci/togli, inserisci/togli del caricabatterie, il mio telefono ha decido di accendersi. Sono le 08:05. Chiamo un taxi. Arriverà tra tredici minuti. Che gran culo. Di Swami stamattina neanche l'ombra. Salgo in taxi e mi faccio portare agli studi. Nel mezzo del cammin da casa a lavoro, il povero taxista ed io ci troviamo nell’inferno di Dante. Un mega incidente, di quelli che riuscirebbero a bloccare, da Milano, anche il GRA di Roma. Comincio ad imprecare Paolo, sca, il conte Ugolino, santi, parenti e cartomanti. Vorrei avvisare Cinzia del mio ritardo, ma come? Il taxista non ha neanche lo spinotto per inserire il caricabatterie nell'accendi sigaro. La batteria è morta, mentre scorrevo nella home di Facebook. Perché devo far tardi il secondo giorno di lavoro? Speriamo solo che anche qualcun altro sia paralizzato nel traffico come me. Arrivo agli studi con venti minuti di ritardo. Certo, venti non sono pochi, ma non sono neanche un'ora. Mi faccio lasciare alla sbarra, pago e chiedo pure la ricevuta. All’ingresso dei nostri uffici, la prima persona che

incontro è Cinzia. Brutta più del solito. «Falabella, mi segua». «Buongiorno. Purtroppo ho trovato un incidente pazzesco che mi ha messo in trappola come un topo». La seguo. «Sa Falabella, qui siamo a Milano e i ritardi non sono ammessi. Non è un nostro problema se lei non è arrivato per tempo. La signora Daria ci tiene che io monitorizzi ogni vostro movimento. Qui non si viene per giocare, ma per lavorare. E le dico anche che, qualora dovesse ricapitarle di fare tardi, e non glielo auguro, si ricordi almeno di avvisare». «Ma veramente l'avrei fatto se solo la batteria del mio telefono non mi avesse abbandonato prima». «Falabella». «D'Azeglio». «Fa lo spiritoso?» «No, le sto spiegando il problema che ho avuto. Non credo ci sia bisogno di fare tutta questa ramanzina». «Senta, non si prenda libertà con me. Comunque, prima di lasciarla al suo lavoro e ai suoi colleghi, la voglio informare che si sente una puzza di alcool provenire dalla sua persona. Che non si ripeta più». «Posso chiederle come mai tutta questa rabbia nei miei confronti?» «Perché riconosco a priori le persone giuste da quelle sbagliate». «Carina». «Come?» «Non ho detto niente».

«Me lo auguro. Sulla sua scrivania troverà le pratiche da svolgere in giornata. Le ricordo anche che la mezz'ora di ritardo, le verrà decurtata dallo stipendio. Oggi non ci sono né Daria né Pietro, quindi per qualsiasi cosa, non esiti a contattarmi». Apre la porta, ed esce. «Crepa, brutto utero sprecato», penso dentro di me. Corro nel mio ufficio, che dista giusto qualche porta. «Buongiorno ragazzi». Parte un ciao generale. Voci basse e facce da funerale. «Scusate il ritardo, ma ho trovato un incidente qui vicino. Mi sento malissimo. A chi posso chiedere cosa ho combinato ieri sera?» «Chiedi a Frederick» risponde subito Clarissa. «Frederick, ti prego. Sono un uomo finito. Dimmi cosa ho fatto». «
«Fai bene. Mi hai detto d’aver smesso quando ti sei chiuso il pene nella zip dei pantaloni». Scoppiano tutti a ridere. Io li seguo, prima di scoppiare in lacrime. «Dimmi che non è vero. Dimmelo». «No. Non posso dire una bugia». «Almeno ho cantato bene?» E qui arriva il bello. Tralasciando la voce, che per certi versi sembrava anche meglio di quella di Britney, la cosa che ti rendeva credibile è che hai emulato perfettamente anche il suo look. Con la tua maglia, non so come, hai creato una sorta di top-reggiseno. Hai messo i pantaloni ancora di più a vita bassa ed hai cominciato a sbatterti contro la cassa del karaoke. Poi, dal nulla, hai urlato «Auguri Susanna» quando invece era il compleanno di Clarissa. E, tra un ritornello e l'altro, hai esplicitamente detto: «TI POSSANO CADERE LE CIGLIA! LE HO REGALATO QUARANTA EURO DI RIMMEL. IO SONO UN SIGNORE». «No. Non l'ho detto. Clarissa almeno tu, dimmi che non è vero». Lei annuisce, con le lacrime agli occhi, ed io non so più cosa pensare. Io non ricordo davvero niente. Zero. «E come sono tornato a casa?» «Aspetta Valerio, mica ti sei fermato lì», afferma Frederick. «Sei tornato vicino la cassa e, sbattendoti in un modo un po' troppo violento, siete caduti te e lei. Insieme. Lei non si è fatta niente e tu nemmeno. A tirarti su è venuto Pietro, l'autore, che mi ha anche chiesto come fossi venuto e come saresti tornato. Allora mi sono preso io il compito di riportarti subito a casa». «E come hai fatto a sapere dove abitavo?» «Ho preso il tuo cellulare ed ho chiamato uno dei primi nomi che mi hai suggerito». «Che sarebbe?»

«Michele». «Michele chi?» «Michele Corona». «E lui cosa ha detto?» «Ha detto espressamente: "Non gli dare retta. Lui fa sempre così. Ama fare la vittima. Quando beve si crede di essere Britney Spears e di avere i super poteri come Sailor Moon". Ha anche aggiunto di non chiamarlo mai più». Carino. Ha da sempre buone parole per me. «Dato che lui ti ha detto tutto, tranne dove abito, come sei arrivato poi a casa mia?» «Mi hai detto di chiamare Swami». In questo momento sono più preoccupato di quando mi aveva detto di aver chiamato Michele. «E cosa ti ha detto? » gli chiedo con la stessa voce di uno che ha appena appreso di avere come nuova vicina di casa Loredana Bertè. «Che era in Viale Zara e che non poteva rientrare a casa nell'immediato. Allora mi ha dato il vostro indirizzo. Siamo andati con la mia macchina, ti ho accompagnato a casa, ti ho messo a letto e sono andato via». Mettiamola così: l'uomo più fico del pianeta (dopo di me) mi ha accompagnato a casa e mi ha messo a letto. Precisazioni che già me lo fanno amare più di quanto io non lo ami inconsciamente. Ma allo stesso tempo ha saputo che mi sento Britney Spears. Che ho girato un periodo della mia vita senza mutande e che mi posso anche trasformare in Sailor Moon da un momento all'altro. Insomma, informazioni che metterebbero paura anche a Dario Argento. «Clarissa, giurami che non ti ho rovinato la festa». «Scherzi? Sono tornati indietro anche i miei amici per vederti. E' stata una festa bellissima e il mio mascara è veramente un sogno».

Per me un incubo. Il mascara, il prezzo, la figuraccia e l'idea che Michele possa aver saputo qualcosa. Inizio a dare un senso a questa giornata lavorativa. Attacco l'iPhone alla presa usb ed inizio a scrivere le prime schede sugli ospiti che arriveranno domani in studio. Daria ci tiene a sapere tutto. Odia farsi trovare impreparata. Studia ogni minimo particolare. Dei sette ospiti che arriveranno, una l'ho fortemente spinta io. Sto parlando di Serenella Blandi. L'attrice. Quella che è ata dal porno soft, alle battaglie per i gay, fino ad iscriversi al partito più fascista del nostro paese. In più ci sarà anche Pamela. Ma questo non è merito mio. Lei sarà nel talk generale, quando si parlerà del tema: "quando lei guadagna più di Lui". Ho un'idea. Una delle mie. Ora mando una mail a Frederick e gli chiedo se stasera vuole venire a cena con me. Voglio sdebitarmi del grande casino che ho combinato. Voglio fargli vedere che io non sono Britney Spears, anzi. E' che ogni tanto mi lascio prendere dalla musica. Non è che penserà che io ci stia provando? Io sto dando per scontato che lui non sia gay e che non sia omofobo. In Lapponia non ho ben chiara la visione del mondo LGBT. Va beh, io nel dubbio scrivo.

A: [email protected] Giuro che non sono mai come mi hai visto ieri sera. Per scusarmi posso invitarti a cena?

A: [email protected] Ok. Ma preferirei una cosa cheap.

A: [email protected] Ti dispiace se non dico niente alle altre ragazze?

A: [email protected]

Te ne sarei grato. Sono una persona discreta. Io. Io.

A: [email protected] Non credere. Anch'io lo sono.

A: [email protected] Ho notato ieri sera. Ci vediamo alle 20 a Piazza San Babila, davanti Diesel?

A: [email protected] Ci sarò.

A: [email protected] Se fimo un aperitivo al MC?

A: [email protected] Perché un aperitivo al MC?

A: [email protected] Perché la parola aperitivo mi fa sentire meno in colpa. Perché poi l’aperitivo mi da l’idea che dopo mangerò ancora e perché il MC è l’unica soluzione economica rimasta al mondo.

A: [email protected] Sto seriamente mettendo in discussione il mio si

A: [email protected] AHAHAHAH guarda che al MC ci sono dei panini in limited edition che meritano troppo.

Ho preparato tutte le schede ospiti, così Daria avrà una situazione completa di ogni singolo personaggio da intervistare. Amo questo compito perché da sempre sono un amante dei piccoli particolari. Dei piccoli dettagli. Soprattutto quando si parla degli altri, visto il piattume generale della mia vita. Vado, con tutte le mie schede, nell’ufficio dell’amorevole Cinzia. Mi accoglie con il solito entusiasmo. Prende tutti i miei fogli e inizia a leggere veloce quello che ho scritto. Mentre i suoi occhi scorrono tra le righe, le mie gambe iniziano a tremare. Non ho la coscienza sporca, anzi. Ma, conoscendo il soggetto in questione, ho solamente paura di essere rimandato. E invece sbagliavo, perché Cinzia, per quanto non me ne freghi niente del suo parere, mi liquida con un secco: “Bravo. Ora vai che ho da fare”. Simpatica come sempre. Ritorno nel mio ufficio, prendo tutto quello che mi appartiene e saluto i colleghi, facendo un occhiolino a Frederick. Nel tragitto lavoro – casa, ricevo un sms da Pamela con cui sposta il nostro appuntamento direttamente a domani. Tiro un sospiro di sollievo, per il semplice fatto che mi ero dimenticato dell’ appuntamento e che Pamela, un po’ come certi mafiosi, non accetta rifiuti. Una volta varcata la soglia del portone, apprendo che l’ascensore è rotto. Salgo a piedi e trovo una Swami stranamente vestita. «Amore ho un problema. Anzi, due». mi comunica la mia roommate. «Che succede?» «Ho perso Pepito e non voglio più lavorare». Scoppio a ridere e penso anche a quanto sono fortunato ad avere una coinquilina così coraggiosa. «Perché ridi?» mi domanda Swami. «Perché a me l’idea che tu lavori mi fa sempre un po’ sorridere. Io lavoro, tanto, troppo e sono anche decisamente sottopagato. Tu sei una “bonas”, che non fattura e che come unico compito ha quello di aiutare i politici a sentirsi più forti, dentro quattro mura. Appaghi le loro fantasie più recondite, come cantava qualcuno, e tempo venti minuti, quando ti dice male, finisce tutto il tuo lavoro. Io non giudico, anzi. Al massimo invidio questo tuo compromesso con la vita, ma non mi dire che tu lavori. Te ne prego. Io ho piegato magliette per anni, ho venduto quantità industriali di saponette profumate in quei negozi dall’odore terribile, e sai quanto prendevo? 1000€ quando ero fortunato. Quando non c’erano troppe trattenute sulla mia busta paga. Ho ato dieci anni della mia

vita in piedi. Otto, nove ore in piedi, su scarpe cinesi con un mini tacco di plastica. Pause pranzo a base di panini schifosi del bar più vicino. I conservanti ‘me se magnavano. Ho lavorato tutte le festività del mondo, e sai perché? Perché i commessi non hanno vita. Loro lavorano per rendere migliori le vite degli altri. A chi importa se una commessa ha qualche figlio e se il 25 dicembre è costretta a stare in centro a vendere cravatte? A nessuno». «Io non volevo dire questo». «E cosa volevi dire?» «Volevo dirti una cosa più profonda, ma ovviamente hai trovato il modo per farmi sentire in colpa. Sei un frocio stronzo». «No Swami, questo non te lo permetto». «Si, invece. Volevo solo dirti che non volevo più lavorare perché mi sono innamorata. Mi sono innamorata di un uomo. Di un uomo che non ha niente a che fare con la politica». «E cosa farebbe?» «Il notaio». «Che è quasi meglio di un politico». «Scusami, lui sa che lavoro fai?» «Sa che sono una consulente». «Quindi sa tutto». «Io sono anche una sua consulente». «A quanto pare sei più consultata tu a Milano, che il primo cittadino, eh?» «Scemo. La verità è che lo amo. Ci vediamo da mesi oramai, ed ora lui si è stancato di questa situazione. Mi ha chiesto di mollare tutto e di fuggire via con lui». «Fuggire dove?»

«Via. Senza mete. Lui è un uomo molto ricco. Ha una moglie che non gli ha permesso di dare alla luce dei figli, in quanto sterile come una cagna. E’ stanco di questa vita e di questo lavoro. Con me ha trovato quel brivido che non aveva mai provato». «lo so io cosa non aveva mai provato …» rispondo a voce bassa. «Come?» «Niente». «So che può sembrare tutto una barzelletta. Ma non è così. iamo ore ed ore assieme. E quando non riusciamo a vederci, non facciamo altro che riempirci di messaggi, telefonate e squilli. Lui mi fa sentire viva. Mi fa sentire più donna di un chirurgo plastico. Mi fa sentire come nuova ogni volta. Mi riempie di attenzioni. Ogni suo sguardo mi mette in quella strana soggezione che si prova solo ai primi appuntamenti. Io lo amo. Lo amo per quello che è, non per il conto in banca». «Amica, gli amanti non hanno mai futuro. Ti riempiono di aspettative come un tacchino nel giorno del Ringraziamento. Ti danno qualche conferma e poi ti lasciano a piedi, con le valige in mano. L’uomo non ha coraggio. Sceglie la strada più semplice. Quella meno compromettente per lui. E non per te. Prova a ragionare con me: un notaio che guadagna chissà quanti soldi, può mai lasciare così, dal giorno alla notte, il suo posto di lavoro? Per far cosa poi? Per fuggire su un’isoletta deserta assieme a te? Non ci credo. Ma non perché non credo a te o a lui. Ma perché conosco il vigliaccume generale. Le donne s’innamorano e gli uomini mai».

«Dai non è sempre così. Non essere catastrofico. Guarda la Marini con Cecchi Gori». «Che esempi esemplari. La Marini, tra l’altro, non era l’amante mentre lui stava con la Rusic. Perché tra la Rusic e la Marini, c’è stata anche una certa Anita, e ad ogni modo guarda che fine hanno fatto tutte e tre. Ognuna con la sua vita. Bella o brutta che sia. Ma nessuna sta con lui. Tu ora sei accecata dall’amore». «No Vale. Non è così. O almeno non lo è stavolta. Non sono una bambina e tutto mi si può dire tranne che io non sia abituata con gli uomini. Per anni mi sono imposta di non andare oltre il sesso. Di fermarmi li. Ho sempre avuto paura di uomo solo e non di venti uomini assieme. Poi ho incontrato Gianluca e tutte le mie fissazioni sono andate a farsi benedire. Lui conosce la mia vita. La mia realtà. Non si è mai soffermato sui particolari, ma è sempre andato oltre. Il sesso c’è. Si fa anche tanto, ma viene dopo. Viene dopo una serata al cinema, piuttosto che dopo una cena in centro. E’ un uomo che non si vergogna di me. Che non mi tiene nascosta in un angolo. E’ un uomo che non si fa vivo solo alle due di notte, quando la moglie dorme beata. E’ un uomo che si fa sentire ad ogni ora del giorno e della sera. E’ un uomo che se non mi vede soffre e ultimamente, credimi, ho incontrato solo uomini che si sentivano male se l’incontravo a so con le proprie mogli. Io sono stata sempre tranquilla. Avevo la coscienza apposto. E non volevo niente da loro. Se non i soldi a fine seduta. Ma ora voglio mollare tutto. La casa. La politica. Voglio ripartire da zero, per la terza volta nella mia vita». «Tutto perfetto. E poi cosa farai?» «Non lo so. Magari farò le treccine sulla spiaggia alle turiste che verranno». «Le treccine?» «Si. Ci piacerebbe trasferirci a Bonaire. Un’isoletta nel mare dei Caraibi. Gianluca ha casa li. Lascerebbe tutti i suoi averi alla moglie: casa, ufficio, macchine, moto e un bel patrimonio che le permetterà di stare tranquilla per sempre». «E allora che aspetti a farlo?». «Sto aspettando di finire questi due mesi per regolarizzare tutti i miei conti».

«Quali conti?» «Devo finire di saldare delle case che ho comprato qui a Milano e poi, prima di andare via, voglio far uscire tutto». «Tutto cosa?» «Tutto quello che c’è da sapere sulla politica». «Sei pazza?» «No, sono semplicemente schifata. Voglio che si sappia quello che succede in Italia. Non che non s’immagini, ma nella vita l’immaginazione arriva sempre fino ad un certo punto e stavolta è il caso di guardare oltre quel punto. Io sono stata sfruttata. Picchiata e minacciata. Sono sempre stata buona. Zitta.

Ho sempre abbassato la testa ed è arrivato il momento del riscatto. Ho fatto tanti sbagli nella mia vita, a partire da questa professione. Ma posso anche dirti che questa professione mi ha insegnato più cose di quanto pensassi. Ho avuto una famiglia tremenda alle spalle. Una famiglia che non c’è mai stata. Che mi ha voltato le spalle ancor prima di iniziare la mia trasformazione. Sono uscita di casa, anzi, mi hanno fatto uscire di casa senza una lira. O euro. No, lira. Ai tempi l’euro ancora non c’era. Ero bruttina. Sembravo una femminuccia con la barba sottopelle. Dormivo negli androni dei palazzi. Mi nascondevo dietro quei grandi vasi e nessuno se ne accorgeva. E’ capitato che mi scoprissero e ogni volta mi prendevano a calci e a pugni. Era dura. Ma io non mi ribellavo mai. Non ho mai fatto violenza a nessuno. Ed oggi, nonostante tutto, sono ancora viva. Ho creato un vero e proprio impero e oggi mi sento realizzata. Pronta a ricominciare, ma stavolta come dico io». Sono senza parole. Non tanto per il discorso che poco regge, quanto per la forza che ha avuto Swami negli anni. Io sono così debole che a pensarmi dentro la sua vita, mi sarei ucciso già a cinque anni. «Swami, io sarò sempre dalla tua parte. Qualche tua scelta posso non condividerla, ma la rispetto. La prostituzione non mi è mai piaciuta». «Perchè hai questo pregiudizio sulla prostituzione?» «Non è un pregiudizio Swami. E’ che trovo triste e poco edificante vendere se stessi». «Tu vendi sempre te stesso. Tutti i giorni. Tu offri una prestazione. Chiunque offre una prestazione. Tu hai questa fobia verso chi fa del meretricio la sua vita, perché sei stato indottrinato male dallo Stato e dalla Chiesa. Non ti voglio fare il solito discorsetto della prostituzione negli altri stati, ma li funziona davvero così. Si pagano le tasse e nessuno sta sul marciapiede. E’ tutto ampiamente controllato e nessuno sfrutta nessuno. La prostituzione viene vista come un lavoro qualsiasi e di squallido e proibitivo non c’è niente». «Senti amica, tralasciamo i nostri ideali e parliamo per un secondo di cose serie: dov’è Pepito? Io massimo mezz’ora e devo essere fuori casa». «Non lo so. Lo sto cercando da stamattina. Che girandolone».

«No, che gran rottura di coglioni. Io ti amo, ti sposerei e ti lascerei pure quello che non ho, ma io quest’ansia non la riesco più a controllare. Che poi scusami, ma tra due mesi che fine farà? » «Avevo pensato di affidarlo a te». «Ed hai pensato proprio male. Ma come puoi pensare una cosa del genere? Al massimo portalo al bioparco o alla moglie del povero Gianluca. Visto che lui gli lascia tutto, cosa vuoi che sia un rettile in più?» Gira che ti rigira, dov’è finito Pepito? Sotto il mio cuscino. Che schifo. Leggenda vuole che, quando trovi un serpente sul letto, è perché lui voglia prenderti bene le misure prima di ucciderti. Io non so se crederci, ma nel dubbio, ci voglio credere. Swami intanto lo prende in braccio e lo lascia riposare sui suoi due enormi seni. Lo sgrida e gli comunica a voce alta che è arrivata l’ora della pappa. Ha smesso di comprargli i topi ballerini vivi ed è ata a quelli surgelati. L’altra sera, aprendo il surgelatore, a primo impatto ho pensato che fossero delle ranocchie da friggere. Quando poi ho visto una codina lunga, ho chiuso lo sportello e non l’ho mai più aperto. Abitare con Swami è facile. Ed è anche particolarmente divertente, ma ci sono delle cose alle quali non potrò mai abituarmi. Faccio una doccia veloce e metto quella crema al patchouli che maschererà tranquillamente l’assenza del mio profumo. Costa troppo, e non è periodo di grandi acquisti. Scelgo d’indossare quella camicetta nera che fa tanto fascistello innocente, ma che fa anche tanto più magro di quello che non sono. O meglio, io sono magro. Ho sempre lo stesso problema: le maniglie. Ho comprato duemila creme. Duemila sciogli pancia, ma nessuno ha mai funzionato. «Swami, come sto?» «Amore sei bellissimo. Ma dove vai?» «Esco». «Si, ma dove e con chi?» «Con un collega e andiamo a fare un aperitivo al Mc». «Un aperitivo al Mc?»

«Oddio, anche te questa domanda? L’idea di dire aperitivo, per giunta al MC, mi fa sentire meno in colpa. Assecondami». «Senti, ma invece ieri sera mi ha chiamato disperato un tuo collega. Cosa hai combinato? » «Ti racconto al mio rientro. Ti ritrovo?» «Si. Stasera non esco, vengono gli altri a cena». «Allora a dopo». «Buona serata».

11 L’ESOTERICO

Frederick e io non ci siamo mandati neanche un sms. L’appuntamento era a quell’ora e in quel posto. Chi prima sarebbe arrivato, avrebbe aspettato. Io ho un difetto: non sopporto chi fa tardi. Poco importa se quello che poi fa tardi sono io, ma non so aspettare. Non so fare le file alla posta e sono anche il classico stronzo che non fa are alla cassa quelli dopo di me che hanno pochi pezzi. Arrivo a Piazza San Babila in pochi minuti e lui è già li. «Eccomi. E’ tanto che aspetti?» «No. Tranquillo, sono appena arrivato. Scusami, ma davvero tu giri sempre in taxi?» «Per uscire la sera, si. Mica per la poca fiducia che ripongo in me, quanto perché non conosco ancora bene il centro e non vorrei stare ore a girare a vuoto. Anche se, ti confesso che tanto fortunato con i parcheggi, quanto poco nella vita. Tu, piuttosto, come sei venuto?» «In macchina». «E non hai avuto problemi a trovare parcheggio?» «No, oramai io e Milano siamo una cosa sola. Valerio, io avrei un leggero languorino. Andiamo a fare questo aperitivo alternativo al Mc?» «Vamos …». «Che fai, parli anche lo spagnolo?» «Io sono poliglotta. Altro che …». Stranamente al Mc non c’è neanche tanta fila. Abbiamo due persone davanti ed intanto ci confrontiamo su quale menù scegliere. Frederick vuole il panino con il pesce. Io neanche mi ricordavo della sua esistenza. Credo che sia l’unica cosa che io non abbia mai mangiato. Una volta giunti in cassa, anche la ragazza

addetta all’ordine, guarda Frederick come se le avesse chiesto un panino di carne umana. Ha addirittura chiesto tre volte se fosse sicuro della sua richiesta. Invece quand’è arrivato il mio turno non ha detto A. Segnava tutto con una sfacciataggine che sembrava quasi stesse servendo uno di quegli obesi americani. Maledetta. Naturalmente io ho preso un MC Chicken menù, rigorosamente grande, con coca zero per sentirmi meno in colpa, ed ho aggiunto i polletti da sei (che tutti rifiutiamo di chiamare nugghets) e un cheesburger a un euro. Il vassoio di Frederick era quasi vuoto, il mio, come sempre, straripava. Roba che, se me ne avesse dati due, sarei stato in grado di chiedergliene anche un terzo. Il conto volevo pagarlo io, ma Frederick mi ha detto che aveva bisogno di cambiare un pezzo da cento euro. Mi sono fidato, ed ho fatto male, perché non era vero ed ha pagato con la carta di credito. Non contento di avermi offerto una cena, alla faccia del cheap, si è anche disturbato a portare entrambi i vassoi al tavolo. Mi ha liquidato dicendo: “vai a cercare un posto”. E’ proprio vero che è meglio regalarmi un anello che portarmi a cena fuori. Anche al MC riesco a spendere quanto spenderebbe una Luciana Turina qualsiasi “dal Bolognese”. Mentre azzanniamo i panini, Frederick mi chiede incessantemente di assaggiare il suo panino per scoprire quel sapore unico che solo lui al mondo riscontra. Ma io non cedo. Non voglio fare la parte del “magnaccione” di turno, anche se con quel vassoio nessuno potrebbe mai ricredersi. Ho sempre avuto difficoltà con il merluzzo dei bastoncini, figuriamoci con una cotoletta di pesce con sopra una fetta di formaggio semi fuso. Lui mangia le patatine senza salse, ed io, invece, le affogo nella salsa barbecue. La barbecue ha per me quel qualcosa di magico che ti lascia il suo sapore fino al giorno dopo. Tra un morso al panino e un goccio di coca, Frederick mi fa notare la tristezza della coppia seduta vicino a noi, su quegli strani puff bassissimi. Ognuno ha il suo vassoio, ed ognuno ha inserito il caricabatteria del proprio telefono nella presa sottostante. Lui li fissa. Io no. Cerco di non guardarli, per non rivedere in loro l’immagine della mia ultima storia. Sono stato con Michele per anni e lui aveva un rapporto morboso con il cellulare. Prima Facebook, poi Instagram, poi Twitter e poi tutti e tre insieme. Li apriva uno dopo l’altro. Controllava ogni notifica e se non c’era niente di nuovo, si spulciava tutti i mi piace ricevuti. Una malattia. Io intanto ero li. Mangiavo e soffrivo dentro. Soffrivo perché ho sempre odiato questa full immersion nella tecnologia e soffrivo anche perché non c’era una sera in cui mi chiedesse “come stai?”. Era come se cenassi da solo. Avevo la stessa sensazione di chi condivide, durante la pausa pranzo, il tavolo con estranei. Se qualche volta ho provato a fargli notare questa sua ossessione, sono immediatamente ato per quello pesante. Per

quello che non capiva e per quello che rompeva sempre i coglioni. Insomma, un disastro. Da li in poi non mi sono più ribellato. Guardavo la televisione e cercavo di non pensare. Ero arrivato a credere che fossi io il problema. Non mi confrontavo neanche con i miei amici per paura, che anche loro, potessero avere la stessa idea di Michele. Frederick, invece, non ha intenzioni di mollare l’argomento. Li guarda accanito e mi confida che secondo lui, d’ora in poi, sarà sempre peggio per le nuove ma anche per le vecchie generazioni. Iniziamo a parlare del nostro lavoro e dei nostri curricula. E’ una persona molto particolare. Ha quel qualcosa in più che lo rende, più che affascinante, interessante. Spazia dai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, all’ultimo aggiornamento di WhatsApp. Sa tutto. Anche troppo, ed io, per una volta, mi limito ad ascoltare. Non crederà mica che solo lui è un tuttologo! Anche io sono un esperto di molti argomenti: gossip, cosmesi, televisione, extension e cronaca nera. Usciamo dal regno dei grassi liberi ed iniziamo a fare una eggiata tranquilla in centro. La classica eggiata per smaltire quello che ci siamo mangiati. Se c’è cosa che mi fa impazzire di Milano, è che dopo le 20, almeno in centro, non c’è più un’anima. Zero. Tutti a casa. Neanche fosse tornata Raffaella Carrà con una nuova edizione di Carramba. Ci mettiamo a commentare vetrina per vetrina. Non tanto gli abiti, quanto le vetrine stesse. Perché a Milano hanno dei visual che metterebbero in difficoltà anche gli architetti di Extreme makeover home edition. Arriviamo per puro caso davanti ad un bar sfigato e Frederick mi chiede se ho voglia di bere qualcosa. Mi verrebbe di rispondergli “si”, ma non vorrei ritrovarmi in Piazza Duomo a cantare “Oops I did it again” come la sera prima. Certo, la canzone è un’altra, ma il risultato sarebbe stato lo stesso. Se non peggio. «Certo che il centro è tanto bello ma non c’è un posto tranquillo dove sedersi» disse l’uomo amante del panino con il pesce. «Come no? Ci sono i gradini del Duomo». «Ma è pieno di escrementi di piccione! Andiamo altrove, ti va?» «Altrove dove?» «Ti fidi di me?» Ecco, l’ultima volta che qualcuno mi disse ti fidi me, ho fatto la fine del gatto in tangenziale. E forse non è il caso di ripetersi, o meglio ancora, di ripetermi. Mi

disse la stessa cosa anche alla cassa del MC, quindi non ho più grossi dubbi sulla risposta. «No. Non mi fido neanche di me stesso». «E perché?» «In Lapponia non ti hanno mai insegnato che non si accettano caramelle dagli sconosciuti?» «E perché io ti ho offerto qualche caramella?» «Sai cos’è una metafora, Frederick?» «Un surrogato di un meteorite?» Scoppio a ridere. «No, Frederick». «E allora spiegamelo: io sono straniero». «Si, ma tu sei straniero quanto ti pare e piace. Un po’ come tutti gli stranieri». «Si, sarò pure furbetto, ma resta il fatto che tu non me lo stai spiegando. Sei sicuro di saperlo?» «Io lo so. E’ che non so come spiegartelo. Anzi, si. Com’è il cielo?» «Bello». «Insomma». «Perché insomma?» «Perché che te ne fai di un cielo senza stelle?». «Niente. Ma stasera la stella sei tu». «Involontariamente, ma giustamente, hai capito cos’è una metafora. Io sono bello come una stella. Ecco, ora mi fido di te. Ciecamente». «Sei un venduto. Ti basta un complimento per scioglierti».

«No, sei tu che mi stai comprando e mi stai dimostrando subito le tue abili mosse da seduttore seriale. Dove mi volevi portare?» «Andiamo. E’ un segreto». «Ok. Basta che dopo mi riaccompagni a casa, perché un altro taxi io stasera non lo pago, eh?» «Ah, quindi avevi dato per scontato che io ti avrei, in ogni caso, riaccompagnato?» «Esatto». «E se anche io avessi utilizzato il taxi?» «Avremmo smezzato». «Venale». «No, semplicemente senza una lira». «Ma la lira non c’è più». «Ecco pensa come sto. Sono pure nostalgico. Quasi come Grillo». «I grilli sono nostalgici?» «I grilli non credo, ma i grillini sicuramente si». «Beato chi capisce te e le tue metafore». «Ma come sei finito a lavorare in una redazione televisiva?» «Ho mandato un curriculum, ho fatto un bel colloquio, il tuo stesso giorno, e sono stato preso». «Tu piuttosto?» «Io ho seguito più o meno il tuo stesso iter». «Con quel più o meno, cosa vuole far intendere?»

«Niente». Credo che Frederick sappia della mia spintarella e che non veda l’ora di avere la conferma. Ma si sbaglia di grosso. Io ho imparato l’arte della negazione. Qualsiasi cosa mi accada, dirò sempre che non è vero. O almeno fino a quando non dovrò dimostrare, per un mio tornaconto, il contrario. Non sarà forse che ho la coscienza sporca? Va beh, smettiamola di pensarci. Siamo in macchina da dieci minuti, quando ad un tratto Frederick si ferma e mi dice: «Scendi. Siamo arrivati». «Dove?» «Qui». «Ma al cimitero?» «Esatto. E’ il cimitero monumentale». «Ma sei matto. Perché mi hai portato in un cimitero?» «Perché volevo stare solo e tranquillo con te». «E non potevamo, per esempio, stare in macchina, soli e tranquilli?»

«No. Perché intorno alla macchina c’è sempre qualcuno». «E qui invece?» «Qui non c’è nessuno … E poi chi verrebbe mai in un cimitero di notte?» «Nessuno». «Appunto». «Facevo bene a non fidarmi. Dovevo capirlo sin da subito che eri mezzo matto». «Ma finiscila. Vieni qui e sediamoci sulle scale». «Sappi, caro Frederick, che ti seguo solo per due motivi: ho il cellulare scarico e non saprei come tornare a casa. Anzi, ne aggiungo un altro: non vedo are una macchina per poter fare l’autostop». «Allora sei malfidato». «No. Sono anche peggio di un malfidato qualsiasi. Con tutto quello che si sente in giro, in un cimitero non è che io mi senta proprio a mio agio». «Questo non è semplicemente un cimitero, è un monumento a cielo aperto». «Un monumento a base di cappelle, sepolcri, ossa e vermi». «Che paura». «Che mi fai». «Tu». Scoppiamo a ridere. Per un secondo questa risata mi riporta ad una delle prime uscite con Michele. Come cambia velocemente la vita. Dalle stelle alle stalle, per tornare di nuovo alle stelle. Io, in questo momento della mia vita, non so dove sono precisamente, ma so solo che sto bene. «Senti parliamo di cose serie: ma tu sei gay?» chiedo sfacciatamente a Frederick.

«Alla faccia della discrezione». «Io e la discrezione siamo i classici opposti che in questo caso non s’attraggono». «Si. Comunque se pensi che sia fondamentale saperlo la risposta è si». «Non sarà fondamentale, ma sarà sicuramente essenziale per conoscere una persona fino in fondo. Non ho mai capito quelli che “non mi piace dire con chi vado a letto” o che si nascondono dietro il “io sono Andrea, il resto sono fatti miei”. E’ una caratteristica troppo determinante di una persona. Poi che ci siano degli idioti, che dietro questa condizione ci giochino un po’ troppo, è un altro discorso. Ma io non voglio avere niente a che fare con persone ambigue e non risolte». «E’ che noi lapponi siamo molto discreti, a differenza di voi italiani». «Guarda, sei anche libero di dire a differenza “tua”. Perché pure gli italiani mettono alla berlina gli altri, ma quando si tratta dei cavoli loro, sappi che dicono sempre ben poco. Hanno, in particolar modo, la capacità di voler far sapere solo le cose più cool o semplicemente le cose false della loro vita».

«E tu non nascondi niente?» «No. Sono troppo ingenuo e troppo candido per raccontare una vita che non ho». «Immagino». «Immagini bene. Piuttosto, sei fidanzato?» «Posso dire “aparola” come si faceva da Gerry Scotti?» «Scusa, e tu come conosci quel programma?» «La televisione italiana si vede più o meno ovunque, eh?» «Ah, quindi conosci anche Alessia Fabiani?» «Certo. Anche Giulia Montanarini, Benedetta Massola e Vincenza Cacace se per questo». «Allora non sei gay caro Frederick, sei proprio frocio». «Scemo. Comunque la risposta di facciata è si. Sono accompagnato, ma la verità è che non stiamo vivendo un bel periodo. O forse non l’ho mai vissuto un bel periodo. Mi sono fidato o, per meglio dire, mi sono affidato a lui». «E lui che lavora fa?» «Ti dispiace se non parliamo di lui? Questa non è questione di discrezione, giuro. E’ che non mi fa bene parlare di lui. M’intossico solo a parlarne. E poi questa serata la voglio dedicare a noi». «Scusami, ami questa domanda. Cosa ci fai insieme a lui se stai così male?» «Rispondo a questa e poi promettimi che cambiamo argomento. Voglio aspettare di finire questo nuovo lavoro e poi mollo. Casa e lui. Ora sarebbe solo un ulteriore problema, che credimi, proprio non mi serve». «Ok. Ti capisco». «Invece ti posso chiedere come mai quel Michele l’altro giorno è stato così

scortese?» «Perché io ho la fortuna di conoscere solo gente stronza. E una volta che la riconosco, faccio anche di tutto per tenermela più vicina possibile. Sono un povero scemo, masochista». «Perché vi siete lasciati?» «Perché mi tradiva. Anzi, fosse solo quello. Aveva proprio una relazione parallela. Ed è solo da quando sono a Milano che ho iniziato a metabolizzare il tutto». «Lui ti manca?» «No. Mi manca l’idea di amare. Io sono nato per amare. Io vivo per l’amore. Io credo di essere capace a dare solo amore. Sono un benefattore sentimentale. Ho il terrore della solitudine, e qui non fraintendermi. Non voglio stare necessariamente con qualcuno. Sono convinto che non siamo fatti per stare soli, ma nemmeno per stare con chiunque. Vorrei sentirmi speciale, ma per qualcuno, e non per me stesso». «E dopo tutte le FREGATURE credi ancora nell’amore?» «Certo. La vita infondo va avanti anche quando non vuoi. E allora, perché camminare a testa bassa e con gli occhi semi chiusi? Io li tengo ben aperti. Fosse mai». Mi rendo conto da solo che sto dicendo una miriade di cazzate. Sto dicendo cose che uno direbbe solamente dopo aver ato una serata assieme a Morgan, Lapo e Patrizia. Cose che penso realmente, ma che se risentissi tra due ore, negherei tranquillamente. «Fosse mai che poi mi hai chiesto di uscire …». «Allora, mettiamo i puntini sulle iii. Io ti ho chiesto di uscire per scusarmi del casino combinato l’altra sera. Per rimediare a quella bella figura di merda. Ti avrei voluto pagare anche la cena, ma sei stato più veloce di me e posso garantirti che i teatrini alla cassa del tipo “pago io”, “prendi qua”, “prendi i miei”, non mi sono mai piaciuti. Forse perché prima dietro la cassa c’ero io».

«Facevi il cassiere?» «Si. Ma anche il commesso, il cameriere e il dog sitter». «Allora ami gli animali?» «Si, ma sempre dopo i padroni». «Che brutta cosa». «Hai un cane tu?» «Si. Un bulldog inglese limited edition». «Ah, e quindi sarei io quello che dice una brutta cosa? È proprio questo che non amo dei padroni degli animali. Fanno tutti gli splendidi con chihuahua, labrador e chow chow. Poi cosa fanno? Invitano gli altri ad andare al canile. Ma andateci voi al canile prima di mandarci gli altri». «Cinico! » «No sincer». «Va beh, la mia Lara devi conoscerla». «Certo. Non vedo l’ora. Invece a te voglio far conoscere Pepito». «Anche tu hai un cane?» «Più o meno. Allora, vediamo se ci arrivi. E’ lungo come un basset hound ed è tendenzialmente color doberman». «Un incrocio tra un bassotto e un rottweiler?» «Mmm, no. Ti do un altro indizio: si chiama Pepito». «Il nome già me l’avevi detto. Sarà mica un cane fantasia, volgarmente chiamato bastardo?» «No cambiamo proprio articolo, è un pitone, ma non è mio. E’ della mia coinquilina».

«Oddio che schifo. Ho la fobia di topi e serpenti». «Alla faccia degli animalisti, eh?» «Sono fobie, mica si controllano».

«Certo» rispondo ridendo. «Piuttosto, mi parli della tua coinquilina? L’altra sera ho chiamato anche lei. E’ stata gentilissima ma parlava tanto strana. Un accento misto tra romano e brasiliano, possibile?» «Oddio, con Swami non saprei da dove iniziare. E’ una ragazza alternativa, intelligente e innamorata della vita». «E che lavoro fa?» «Sai, che ancora non l’ho capito? Credo sia una delle tante assistenti dei politici». A fermare la nostra conversazione è una telefonata che Frederick riceve. Ho cercato di guardare lo schermo del suo cellulare, ma non ho fatto in tempo a leggere il nome. Mi ha chiesto scusa e per parlare si è spostato. Da qui non riesco neanche a sentire, per sbaglio, quello che dice. In questo momento prenderei il mio cellulare, ma è scarico. Mi guarderei attorno, ma non posso farlo, perché non c’è nessuno e quelli che ci sono, hanno smesso di parlare. Tra un pensiero inutile e l’altro, Frederick sta tornando da me. Lo osservo bene e resto affascinato anche dalla sua eleganza nel camminare. Sembra un modello, non dico dei più pagati, ma almeno uno di quelli destinati a stare a petto nudo all’entrata di un Abercrombie qualsiasi. «Scusami Valerio, ma dobbiamo andare via». Ci resto male ma, per non dare nell’occhio, rispondo prontamente con un ok. Con un ok che vuol dire tutto e niente. Anzi, non vuol dire proprio niente. Ok vengo. Ok andiamo. Ok mi alzo. Ok portami a casa. «Successo qualcosa?» chiedo ad alta voce. «No. Tutto sotto controllo, è che domani dobbiamo alzarci presto». E’ vero che stiamo in piedi da quasi 18h, ma è pur vero che quando stai bene con una persona tutto a in secondo piano. La stanchezza, le preoccupazioni e il lavoro possono tranquillamente andare a farsi benedire. Quando c’è una persona che ti piace, hai un’energia tale che nulla ti può fermare. La stessa energia di

quando suona la sveglia al mattino e tu sei già vestito e profumato. Ora, non voglio esagerare dicendo che sto già in quella fase, ma confesso che sarei rimasto anche altre due ore li a chiacchierare, tra cipressi e lumini. Non credo che a lui non piaccia. Avrà sicuramente ricevuto la telefonata dal fidanzato per richiamarlo all’ordine. Avrà utilizzato la scusa esco con le colleghe e non faccio tardi. Invece ha fatto tardi e non è uscito con nessuna collega. Al massimo con il collega. E se avrà accettato l’invito del collega, un fottuto motivo ci dovrà pur essere ed io lo vorrei già sapere. Nel tragitto, non c’è musica e lui non professa parola. Arriviamo sotto casa mia, e Frederick non spenge neanche per un secondo la macchina. «Grazie del aggio. Ci vediamo domani mattina?» chiedo, pur conoscendo già la risposta. «Si. Grazia della serata». «Ci mancherebbe. A domani». Il portone dista appena dieci metri. Lui non ha aspettato neanche che io entrassi. Ho evitato, così, di girarmi per verificare che lui mi stesse guardando. Salgo su con un’aria decisamente malinconica. Ogni volta è sempre la stessa storia. Esco con qualcuno e, in un secondo, fantastico sulla mia vita sentimentale. Appena apro la porta di casa sento degli schiamazzi provenire dalla cucina. Non ricordavo che stasera avrei trovato tutto il circo di Swami Orfei. Non tanto per lei e per Pepito, quanto per tutti gli altri. Cominciamo a parlare del più e del meno, fino ad arrivare a fare il resoconto della mia uscita. Non ne avrei parlato con nessuno, ma Swami ha pensato bene di farlo argomento principale della loro cena. Mi limito a dire che è stata un’uscita tra colleghi. Loro sembrano crederci, nonostante ci sia poco da credere. E’ andata proprio così. Saluto tutti con la scusa del “mi devo alzare presto” e mentre sto per chiudere la porta vedo arrivare Diego. Alzo gli occhi al cielo, sperando non stia venendo da me, ma purtroppo sbaglio. «Posso entrare un secondo?» mi fa. Avrei dovuto dire di no, ma non riesco ad essere scortese. «Sicuro che sei uscito con un collega?» «Si, perché?»

«Perché mi piaci». Sorrido, senza far intravedere i denti. «Sei gentile, grazie. Quindi non devo uscire con i miei colleghi perché a te piaccio?» «No. Non dicevo questo. Ma speravo che tu uscissi anche con me». «Se per questo non me l’hai neanche chiesto». «Non ho avuto modo». «Ora ce l’hai». «E allora quando usciamo assieme?» «Mai» rispondo di getto. «E perché?» «Perché sei già in camera mia e hai i minuti contanti per darmi la buonanotte» gli dico massaggiandomi visibilmente il mio lato A. Diego abbocca come un pesce alla mia provocazione. Si avvicina e mi bacia. Inizia a spingermi verso il letto. Con la mano destra spegne la luce e pian piano si sposta dalla bocca al collo. Esagera. Amo la ionalità, ma ben gestita. Lui mi bacia ferocemente da far trasparire la sua incapacità nel gestire la situazione . Esagera di nuovo. Ci spogliamo e al buio tocco il suo sesso forte. Mi fermo e con me si ferma anche tutto. Mi gelo. Il mio amico si spegne. Anzi, si ammoscia come un fiore di zucca mezz’ora dopo esser stato fritto. Diego sotto non ha niente. Niente. Un bottoncino. Un tasto del telecomando. Un bottone di una camicetta a maniche corte. Lui continua a baciarmi ed io inizio a spostarmi utilizzando la classica scusa del: “ ma cosa stiamo facendo?”. Dico un paio di cazzate sull’onda del “amo ancora Michele”, “restiamo amici, che l’amicizia è per sempre l’amore no”, “sei troppo bello per me” e via dicendo. Si riveste senza accendere la luce. Esce della mia stanza con la stessa scontentezza che io ho provato poco prima nell’aprire la porta di casa. Non so perché l’ho fatto entrare. Forse volevo solamente aumentare la mia autostima, o forse volevo semplicemente svuotarmi. I maschi hanno questa esigenza, mettiamola così, ed io era una vita che non lo facevo. Anzi, è una vita che non lo faccio. Con lui non ce l’ho fatta. Non sono stato stronzo, perché alla fine ho usato dolci scuse per

liquidarlo. Non ci posso fare niente, se nella mia vita regna sovrana, tra le mie regole, quella del: “l’amore non è questione di centimetri, ma uno in più aiuta sempre”. Prima di mettere la sveglia, per il grande giorno di domani, sullo schermo del mio cellulare appare un messaggio WhatsApp. E’ Frederick. Dallo screen non riesco a leggere il messaggio, perché ho l’impostazione di leggere solo il nome del mittente e non il contenuto. Non riesco a sbloccare la tastiera. Vorrei lanciarlo al muro. E’ assurdo che ogni volta che ho qualcosa d’importante tra le mani, lui non reagisce. E’ come se sapesse, a priori, di dovermi rovinare i piani. Sono certo che Frederick mi avrà scritto qualcosa di carino. Mi vorrà dire che ha fatto una cazzata a lasciarmi andare via cosi presto. Forse questa è la teoria più attendibile. Niente, il mio telefono sembra non reagire. Provo a riavviarlo. Con tutta calma il telefono si riaccende, scompare la notifica sulla home e vado direttamente all’app in questione. Clicco e leggo quanto segue: “Vale, a che ora è domani la convocazione?”. Niente, è sempre peggio. L’ennesima aspettativa delusa. Rispondo per cortesia e soprattutto perchè con WhatsApp non si può mentire. “Alle 12. Domani ci hanno graziato, lavorando poi fino a mezzanotte. Buona notte.” Resto sulla schermata della conversazione perché mi concentro sulla sua foto in alto a destra. Ci clicco sopra per ingrandirla e resto piacevolmente colpito. Non c’è lui, ma una sorta di via lattea. Finalmente un uomo, gay, che non mette una sua foto semi nudo, depilato e in mutande. Esco dalla foto e leggo sotto il suo nome la scritta “ sta scrivendo…”. Io, quando leggo quel “sta scrivendo…”, sogno sempre qualcosa di bello. In questo caso non ho più nulla da sognare. Al massimo mi starà scrivendo un bel “grazie a domani”. Invece stavolta sbagliavo. “Vale grazie molte. Sappi che ho ato una bellissima serata con te. Grazie ancora. A domani.” Sto toccando le stelle fluo di plastica sul soffitto, con un dito. Sto rimettendo in discussione tutto e tutti. Persino il povero Diego. Ma sai che c’è? Io a questo giro non rispondo. Voglio tirarmela. Non l’ho mai fatto, e forse è arrivato il momento che anch’io debba iniziare. Quel che è certo è che stasera, grazie a questo sms finale, dormirò come i delfini: con mezzo cervello attivo e con un solo occhio aperto.

12 IL DEBUTTO

Rispetto ad altre giornate normali, non mi sento affatto stanco. L’idea che abbia dormito cinque ore e che per le prossime ventidue sarò in piedi, non mi spaventa. Ho quell’energia che solo l’amore ti può dare. La serata di ieri mi ha dato quell’entusiasmo che mi mancava da tempo e, il pensiero che stasera ci sarà la prima puntata, mi da la stessa carica che aveva Simona Ventura ai tempi dell’Isola dei famosi. Peccato che lei conduceva, mentre io sarò una figurina da backstage. Prima di alzarmi dal letto, cazzeggio con il telefonino. Vado a fare un giro sui social e finisco casualmente, anzi, accidentalmente, sul profilo di Michele. Sono cose che non andrebbero fatte e soprattutto dette, ma io non riesco ad essere così razionale. Non sono mai stato forte, e forse mai lo sarò. Dai tag di Facebook, denoto che io non ci sono più. Il mio volto è sparito. Non mi ha cancellato, semplicemente sono finito più in basso. Non sono più nel primo blocco da nove foto. Ma sono addirittura al quarto blocco in basso a destra. Della serie: dimmi in che blocco sei posizionato e ti dirò chi sei (per lui). Ed io non sono più nessuno. Un giorno credo di aver metabolizzato il tutto, mentre il giorno dopo mi guardo allo specchio e mi sento più solo di prima. Facebook perde colpi. O meglio, fa prendere colpi ai sentimentali come me. Nacque con l’idea di riunire le persone che si erano perse negli anni, ed ora fa di tutto per dividere sia quelle persone che ha fatto rincontrare, sia quelle che si sono incontrate al di fuori. Crea e distrugge. Si, perché oramai con questa storia delle “PERSONE CHE POTRESTI CONOSCERE” siamo finiti nel vortice della tentazione assassina. Giuro che io, tra tutte le persone che potrei conoscere, non ne ho mai trovata una che abbia mai visto, anche per sbaglio. Zero. E di tutte quelle “tentazioni che potresti conoscere”, non ce n’è uno, che sia uno, che non stia a petto nudo o in mutande. E la cosa peggiore è che ora che sono single neanche ci faccio caso: scorro e vado avanti. Prima, mentre ero fidanzato, ero ossessionato dall’idea di vedere chi fossero questi tizi. Che poi non ci sarei mai uscito, quello è un altro conto. Non voglio fare il fico, l’alternativo o il fricchettone di sinistra che non sono, ma io cosa c’entro con uno che sta a petto nudo, in mutande e con il pene barzotto? Niente. Io con gente piaciona, insicura e alla ricerca di fiducia dietro ad una foto, non ho niente da spartire. Io vado oltre. Gli amici in comune spesso, anzi, sempre, sono una garanzia per non fare più cazzate. Se già sei “troppo” amico del più squallido degli squallidi dei miei

contatti, che tengo solo perché non posso cancellare, figuriamoci se posso mai risponderti ad un poke. Io, i poke, se fossero stracci, li potrei vendere. Perché sono pieno. Zeppo e tempestato. Dietro quei poke, chissà quali aspettative virtuali si nascondo. Una tua risposta basta per appagare il loro ego. Il mio prossimo amore non dovrà neanche conoscere Facebook. Lo preferirei ignorante su questo argomento. A tal proposito, voglio proprio vedere se Frederick c’è. Non avevo ancora cercato. Ce ne sono due, e nessuno dei due mi sembra lui. Avrò scritto bene il cognome? Mi sembra di si.

Non c’è. E questo è già un buon segnale. Cerco su Instagram, e neanche qui mi sembra di trovarlo. Magari avrà un nickname in codice. Non lo so. Come ultimo tentativo provo Twitter, e qui magicamente appare. Segue tutti i politici dell’universo e quasi nessuno lo segue. La sua bacheca, anzi la sua home, è triste, vuota e malinconica. C’è solamente qualche suo retweet di pensieri e citazioni altrui. La maggior parte in inglese. Sorrido e penso: che culo. Sarà mica un segno del destino, vero? Non faccio in tempo a sognare più del dovuto, che devo alzarmi; la sveglia suona, nonostante fossi già sveglio, e corro in bagno a fare sempre le stesse cose. Se la vita di Nicole Minetti si potrebbe riassumere con “una botta e via”, la mia si potrebbe descrivere con un “non faccio in tempo a …”. Ogni volta non faccio in tempo a fare, pensare o dire qualcosa, che succede sempre qualcos’altro. Sono in un leggero anticipo, ma a quest’ora non dovrei trovare neanche traffico. Arrivo a lavoro in pochissimo tempo. Parcheggio e mi dirigo di corsa nel mio ufficio. Incontro Daria Govardi e Pietro nei corridoi, che rispettivamente mi guardano ma non mi salutano. Io li saluto lo stesso con un timido buongiorno. “L’educazione è alla base di ogni rapporto umano”, questa è l’unica cosa che mi ha insegnato mia madre in tutti questi anni. In ufficio c’è solo la roba di Frederick poggiata sulla sua scrivania. Di Susanna e Clarissa, per ora, neanche l’ombra. Accendendo il pc mi cade l’occhio su un bacio Perugina lasciato sulla mia scrivania, accompagnato da un post-it vuoto. I miei occhi, quasi a palla, diventano magicamente a cuoricino. Mi batte il cuore talmente tanto forte che sarei capace di fare qualsiasi cosa. Mi sento uno schifo perché ieri sera con Frederick me la sono tirata, non rispondendo a quel messaggio. Vedi che quelle regole dell’ABC sentimentale funzionano sempre? < >, aveva proprio ragione Ferradini. Io non gli ho risposto e lui, per paura di perdermi, mi regala un bacio. Certo, parliamo di un bacio di cioccolato, mica di un solitario. Ma, in tempo di crisi, ci si accontenta. Ecco arrivare Frederick in compagnia delle altre due. Faccio il vago e nascondo il bacio calorico nello zainetto. Ci salutiamo, chiudiamo la porta e cominciamo a parlare di quello che dovremmo fare oggi. Io oggi dovrò solo seguire in tutto e per tutto Serenella Blandi. Dal suo arrivo al suo arrivederci. Tra una chiacchiera e l’altra, entra di corsa Cinzia infischiandosene totalmente di quella che viene comunemente chiamata privacy. «Valerio, tra quindici minuti in ufficio da Daria, con Pietro e me. Porta tutto quello che serve per l’intervista della Blandi».

Evito anche di risponderle, perché dopo che ha pronunciato il cognome di Serenella, la cessa si era già girata di spalle. Nel giro di due secondi, richiudiamo la porta e cominciamo a parlarne così male che, se a fine serata sarà ancora viva, vorrà dire che avrà un Karma troppo potente. Prima di andare da Daria, mi domando cosa dovrò portare, visto che io non ho più niente. La scheda di presentazione e la biografia le avevo già consegnate. Nel frattempo mando una mail. Una mail semplice, ma che arriverà dritta al cuore della persona giusta.

A: [email protected] Grazie del bacio. Ma ricordati sempre che preferisco il salato al dolce. V

Mi alzo e, armato di tanto coraggio e di tanta buona volontà, vado nella stanza affianco. Busso e ad attendermi ci sono tutti e tre. Daria dietro la scrivania, Pietro in piedi alle sue spalle e Cinzia seduta al lato sinistro della scrivania. Hanno lo sguardo più rilassato rispetto a prima. «Accomodati pure» mi fa Daria. «Ti abbiamo convocato per parlare della Blandi. Ho letto tutte le schede che hai preparato e voglio dirti che hanno soddisfatto ogni mia curiosità. L’unica cosa che non mi è chiara è perché tu abbia omesso gli scandali della cocaina che l’hanno coinvolta due anni fa. C’è un motivo? » «Non ho omesso. Sono fatti di cronaca che conoscono tutti e pensavo fosse inutile ripeterli. La cosa che mi lascia più perplesso è la sua apertura al mondo dell’estrema destra. Decantava amore per gli omosessuali e poi si è tuffata tra le braccia di chi li manderebbe al rogo». «Pensi che voglia parlarne in trasmissione dello scandalo che la coinvolse?» «Non so. Posso contattare il suo ufficio stampa e chiedere». «Fallo dal telefono del mio ufficio». Cerco il numero di telefono dal mio cellulare. Le dita fanno fatica a scorrere

nella rubrica. Lo sguardo fisso di tutti e tre mi fa sentire un tantino sotto pressione. E’ assurdo come Cinzia abbassi le penne davanti a Daria ed è altrettanto assurdo come Pietro non apra bocca e lasci parlare solo la Govardi. Faccio il numero e al secondo squillo: «Pronto?» «Buongiorno, sono Falabella dalla redazione dell’ ORA D’ARIA. Disturbo?» «No, affatto. Siamo in aeroporto a Roma in attesa di essere imbarcati». «Bene. Senta, ne approfitto al volo per chiederle una cosa. Stiamo ultimando le interviste e volevo sapere se la signora Blandi è disposta a parlare dello scandalo che la coinvolse qualche anno fa». «Assolutamente no. La signora Blandi non vuole che se ne parli da nessuna parte, figuriamoci in diretta tv». «Ok, non ci sono problemi. A stasera. E non dimentichi di chiamarmi appena atterrati, così da potervi accogliere al meglio». «Non mancheremo. A dopo». Attacco e sudo freddo.

«Cosa hanno detto?» mi chiede Pietro. «Hanno detto che per loro non ci sono problemi a trattare l’argomento, se fatto con educazione e rispetto». «Perfetto» risponde prontamente Daria, guardandosi negli occhi con gli altri due ed escludendo totalmente me. «Puoi andare, ci vediamo dopo» aggiunge Cinzia. Uscendo, Pietro mi accompagna alla porta e, prima che io esca del tutto dall’ufficio, mi domanda: «Quando ci prendiamo una cosa da bere io e te?» «Nel weekend. Da domani sono sempre libero». «Perfetto» sorride e chiude la porta. Ora come cazzo ne esco? È semplice. Non ne esco. In diretta tv, la Blandi non potrà fare finta di nulla e sarà costretta ad ammettere, o quantomeno a parlare, della sua precedente situazione. Non potrà dire che aveva chiesto di non parlarne e, qualora lo dicesse, potrei sempre negare, e vista la sua situazione, probabilmente anche un qualsiasi telespettatore crederebbe a me e non a lei. Ritorno in ufficio e i miei compagni di stanza, incuriositi, non stanno più nella pelle al pensiero di sapere cosa ci siamo detti. Ho raccontato loro la situazione, ma senza dire la verità. Sono stato anche particolarmente sbrigativo nel fare il resoconto, cosa che non è affatto da me. La verità è che dovevo correre al mio computer a leggere la risposta di Frederick. Mi siedo e vedo che ne sono arrivate diverse. AMAZON e KIKO insistono ad inviarmi mail, ignorando che a breve li denuncerò per stalking. Da Frederick nulla. Cancello le due mail ed ecco arrivare la sua.

A: [email protected] Ti ho baciato e non ne sono al corrente?

A: [email protected] Queste mosse da seduttore anni ’90 le hai imparate dai cine - panettoni di De Sica?

A: [email protected] Giuro che non so di cosa parli, ma se vuoi un bacio salato e non dolce dobbiamo uscire un’altra volta.

A: [email protected] Vogliamo fare domani?

A: [email protected] Purtroppo non posso. Stasera i miei genitori saranno in puntata e domani partiremo per Roma. Tornerò domenica sera, in treno.

Faccio il vago fingendo di lavorare, e non rispondo. Mai una volta che trovassi un uomo che dica: “si, sono libero a qualsiasi ora del giorno della notte pur di rivederti”. Ora abbiamo tre ore di buco. L’utilità di farci venire tutto questo tempo prima, la devo ancora capire. A Susanna è capitato il compito più difficile, o meglio, quello più noioso: il talk. Dovrà gestire più ospiti contemporaneamente prendendosi cura di loro. Io almeno ne ho una. Che poi valga per cento, è un altro discorso. Squilla il telefono d’ufficio, risponde Frederick e avvisa subito Susanna che deve scendere, poichè è arrivata Pamela, prima ospite del talk. Si alza sbruffando e Clarissa e Frederick si divertono a fare commenti inopportuni su Pamela, non sapendo che è una mia cara amica. In parte questo mi rincuora, perché vuol dire che non sanno niente di me, e che l’altra sera avevo viaggiato un po’ troppo quando Frederick mi fece quelle domande. «Vale, ma non ti esprimi su questo mignottone?» mi chiede Clarissa. «Mmm, meglio di no ragazzi, altrimenti finiremmo a litigare. Pamela è la mia migliore amica». Non appena faccio quest’affermazione entra di corsa Susanna, riferendomi che Pamela mi aspetta nel suo camerino al piano -1, stanza 789. Finalmente una persona amica. Finalmente un abbraccio sincero. Scendo, e non appena i nostri sguardi s’incontrano, iniziamo a piangere. Un pianto di gioia, di quelli belli, di quelli che ti fanno rimpiangere tutto. Tornerei a Roma in questo istante e lascerei tutto andare via così. Amo Milano, amo questa nuova vita, ma mi mancano terribilmente i miei amici. Iniziamo a parlare di tutti: di Gaya, di Marco, di Alex, del suo nuovo fidanzato, di Monica e anche di special love. Pamela è distrutta per colpa di quest’ultimo. Gli anni ano e gli uomini non perdonano le rughe. Era la sua preferita, ed ora non lo è più. Meccanismi orrendi che solo chi

appartiene ad un determinato giro può capire. Io non conoscevo molto bene quest’ambiente, fatto di soldi facili e promesse, ma con Swami ho imparato a conoscerne i meccanismi. Pamela è stata sempre discreta. Swami, invece, non conosce discrezione alcuna. Pamela ha paura che, finito quest’anno, non le verrà rinnovato il contratto e che dovrà reinventarsi tutta da capo. Fuori non c’è niente, e forse non c’è mai stato niente. Finita la storiella non ci sarà più posto per chi è andata avanti solo con spintarelle e raccomandazioni. Nel mio caso potrebbe essere tutto diverso. O forse no. Perché magari Daria non mi prenderebbe neanche in considerazione. Ma ora non voglio pensarci. Voglio godermi questo momento di serenità. Questo momento in cui mi sento finalmente realizzato. Meglio qui che a vendere panni in chissà quale negozio, sotto quelle strategie di marketing allucinanti che mi fanno paura al solo pensiero di riviverle anche per un secondo. A Pamela spiego quello che so del dibattito che dovrà affrontare, ma lei non ha problemi. Dice tante stronzate, ma è talmente ammaliante che riesce a fregare tutti anche su argomenti seri. Ha il modo giusto di esporsi. Mi spiega che è venuta così in anticipo per registrare dei promo che andranno in onda su una web tv. Ad interromperci, un truccatore e un parrucchiere, pronti a lavorare su di lei. Ci salutiamo e ci diamo appuntamento a più tardi. Mancano cinquanta minuti alla diretta. Gli ospiti sono tutti arrivati. Ho accolto nel migliore dei modi la Blandi, così da farla sentire a suo agio il più possibile. Il suo assistente è tranquillissimo e non conosce la differenza tra diretta e registrazione. Daria, piuttosto, mi sembra abbastanza nervosa. L’ho incontrata al trucco e non sentivo volare una mosca. E’ l’unica donna della tv che non ha truccatori e parrucchieri gay attorno. Ha una donna che fa tutto per lei. Forse è per questo che ha sempre quel look da sempliciotta sui tacchi. Prima di iniziare, Frederick mi invia un sms, con il quale m’invita a salire per farmi conoscere i genitori. Lo raggiungo in studio. Sono seduti in prima fila. Mi presento. Sono sorridenti. Non parlano una parola d’italiano e vorrei capire cosa diavolo sono venuti a fare. Frederick ci teneva a farmi conoscere i futuri suoceri ed io non potevo tirarmi indietro. All’improvviso eccoti arrivare anche Pietro, Susanna e Clarissa. Ed io che stupidamente pensavo che avesse inviato quell’sms solo a me. Tre, due, in onda. Parte la sigla. Il pubblico applaude timidamente. Daria indossa un vestito nero opaco, zero gioielli e un paio di tacchi neanche troppo alti. Noi redattori siamo tutti dietro le quinte. Abbiamo un piccolo schermo che ci mostra quello che va in onda. Mi aspettavo più coinvolgimento e gioco di squadra, invece ognuno si fa i cazzi suoi. O meglio, ognuno pensa alla sua situazione. Il

primo ospite è il Direttore del carcere di Rebibbia, seguito da Frederick. Una noia mortale, discorsi così pallosi che anche il più intellettuale degli intellettuali, opterebbe per una puntata di “C’è posta per te”. Arriva il momento della Blandi, la tranquillizzo prima di entrare, dicendole che Daria non vede l’ora d’incontrarla. E’ sin troppo agitata e spero regga un’intervista così diversa da quelle alle quali è abituata. Suda e fa un gioco strano con la bocca e con i denti. Entrando in studio, Serenella inizia a polemizzare sul freddo artico che si avverte in studio. La chiacchierata scorre velocemente, fino a quando non arriva il momento dello scandalo. Daria, subito dopo la mia telefonata con l’assistente della Blandi, è riuscita a far montare una breve scheda sul fattaccio che la coinvolse. Al termine del servizio, la Blandi ha collassato. Sembrava morta. La Govardi ha mandato quasi subito la pubblicità. Il suo assistente, nel backstage, ha chiamato l’ambulanza e ci ha confidato che la Blandi aveva fatto uso di coca poco prima di entrare, nonostante lui avesse tentato in tutti i modi di fermarla. Alla fine chi è dovuto andare in ospedale con l’assistente della Blandi per seguire l’autoambulanza? Io. Chi ha deciso che dovessi andare io? Cinzia. Prima puntata trascorsa al San Raffaele. A far compagnia ad un assistente fulminato e ad un’attrice da depurare. Nessun messaggio e nessun interesse da parte di nessuno. Fatte le due di notte, lascio il pronto soccorso e me ne torno a casa. Uscendo, vengo travolto inspiegabilmente dalle telecamere e dai fotografi. Il malore in diretta ha scatenato l’attenzione di chiunque. Non rispondo a nessuno. Scendo traumatizzato dalla macchina e, sotto il portone, trovo Frederick ad aspettarmi. «Che ci fai qui?» «Ho fatto l’impossibile per esserci». «Sai. Bastava mandare un messaggio». «Te l’avrei mandato, se solo non mi avessero rubato il telefono. L’avevo poggiato in studio durante la pubblicità, poi non l’ho più trovato». «E i tuoi?» «Sono a casa. Tu, tutto bene?» «Si, ma poteva andare meglio. Com’è andata la puntata?»

«Bene. Benissimo». «Non sapevo in quale ospedale fossi andato. Abbiamo chiamato il 118 ma, per privacy, non ci hanno potuto dire niente». «Non potevate chiamare me? E poi voi non sapevate niente? Fuori l’ospedale c’erano più fotografi che lampioni». «Su, l’importante è che tu stia bene». «Grazie, Frederick. Ora vado a casa, e tornaci anche tu». «Perché fai così?» «Frederick, ti prego, sono distrutto». «Aspetta». Mi prende per il polso e, mentre mi sto voltando per aprire il portone, mi bacia. Un bacio diverso. Un bacio dolce, cercato e voluto. Un bacio senza fine. Un bacio gelato. Frederick ha la bocca ghiacciata dal primo freddo milanese. «Ma non hai freddo?» chiedo, dopo aver stretto le sue mani tra le mie. «No. Sono abituato a molto peggio. Era tutto il giorno che volevo farlo» e aggiunge «Lunedì sera stiamo insieme. Non è un invito. E’ una convocazione obbligatoria alla quale non potrai dire no». «Ci sto». Rientro a casa, appagato da un lato, ma tremendamente dispiaciuto dall’altro. Il telefono inizia a squillare per le scale, è Pamela. Prontamente rifiuto la chiamata. Capirà.

13 #CUOREINGOLA

Ho un mal di gola allucinante, un mal di testa infernale e come minimo anche Saturno contro. Tutta colpa del freddo di ieri notte. Avrei bisogno di un antibiotico potentissimo, ma non saprei quale. Non li ho mai presi. A casa mia, da sempre, si cura qualsiasi cosa con il limone. Accendo il telefono e cominciano ad arrivare duemila notifiche, interrotte magicamente da una chiamata. E’ un numero che non conosco. «Si?» «Buongiorno Falabella. Come stai?» «Vorrei dirti bene ma non è così. Con chi ho il piacere di parlare?» «Con Pietro». Oh cazzo. Copro con la mano il microfono del cellulare, tossico forte e riprendo a conversare. «Scusami Pietro. Ho un mal di gola allucinante che mi sta mettendo seriamente KO». «Volevo solo sapere di ieri sera». «Non c’è molto da sapere. Sono andato via mentre la Blandi era ancora li. Con lei erano rimasti il suo assistente e miliardi di fotografi». «Si lo so. Ti ho visto al telegiornale stamattina». «Ah, bene». Inizio a spiegarmi il perché di tutte quelle notifiche. «Piuttosto, volevo dirti che ieri la trasmissione ha registrato un ascolto pazzesco e che il momento dell’intervista della Blandi è stato quello più seguito in assoluto. Complimenti. Inoltre ti sto chiamando anche da parte di Daria. Mi ha detto di ringraziarti per il prezioso o che ci stai dando»

«Grazie Pietro. Non credo di aver fatto nulla di così eclatante per meritarmi tutti questi complimenti ma, come dire, incasso e porto a casa» mentre rispondo sto seriamente pensando a dove sia la fregatura. Modalità “cetriolo is in the air” attivata. «Senti, parliamo di cose serie. Cosa fai questa sera?» «Avrei in forse un cinema. Perché?» «Perché se quel forse sparisse, t’inviterei a cena per farti provare la mia cucina». «Accidenti. Mi dai un’oretta per darti la risposta?» «Un’oretta?» «Eh si. Ho appena aperto gli occhi e non ho ancora sentito nessuno». «Allora ok. Aggiorniamoci più tardi». Mette giù la cornetta e comincio a sudare freddo. No, non ho la febbre, è che ora non so proprio cosa fare. Il cinema è un invenzione last minute per pararmi il culo, ma se io gli dicessi “no” e lui mi chiedesse di

venire al cinema con me? Anzi, con “noi”? Arriverebbe al cinema e mi troverebbe da solo e, al momento di presentargli gli altri, rischierei di fare la fine di Costanzo quando, a “Buona domenica”, faceva ballare gli ospiti con l’uomo invisibile. Allora, per non sbagliare, accetto. Andare ad una cena non sarà così compromettente, o almeno spero. Soprattutto quando quello che ti invita è un tuo superiore. “Se l’invito è ancora valido e se il tuo indirizzo è raggiungibile con il navigatore, posso darti la mia conferma per questa sera”. Ho mandato questo sms a Pietro. Spero di non fare qualche casino dei miei, anche perché oggi non ho forza e voglia di combattere con nessuno. “Se il tuo tom tom ti fa arrivare anche su Giove, allora puoi farcela ad arrivare da me. Piazza San Camillo de Lellis 1. Non portare niente, che ho sin troppe cose. Ore 21 qui.” Non rispondo, perché la risposta ad un sms con scritto “ok” mi urta da sempre il sistema nervoso. Pietro mi ha chiesto espressamente di non portare nulla, ma io non ce la faccio. E’ più forte di me. Un uomo che si presenta a mani vuote è un pulciaro e io da pulciaro non voglio are. Vado ad una mega libreria vicino casa. Cosa gli prendo? I fiori li ho sempre considerati per i morti, anche se ho un debole per i tulipani. I dolci non li so scegliere e ingrassano. Un profumo per ambienti? Troppo personale. Un libro di ricette? Potrebbe essere una buona idea. Clerici, Parodi, Cracco, Chef Rubio, Suor Germana, Lambertucci, Borghese e Moroni. Ok. Niente. Ci rinuncio. Mi butto su un film. Devo scegliere un film che sia interessante e che mi dia un’immagine diversa. Voglio are per un intellettuale in grado di capire e, di trovare interessante, il film Oscar di Sorrentino. Devo abbandonare “I love Shopping”, “Il diavolo veste Prada” e “Bridget Jones”. Tra i tanti presi in considerazione, alla fine, ho scelto Two Mothers, un film che conoscono in pochi, tratto dal romanzo “Le nonne” di Doris Lessing. Vidi questo film al cinema con Gaya e uscimmo dalla sala sconcertati. Dal nulla mi arriva un mms. E’ Frederick che mi manda una foto di lui, con i suoi, davanti la Fontana di Trevi. Sotto la foto scrive: “Un secondo bacio, ma stavolta da Roma”. Carino. Mi ricordo bene di ieri sera, del freddo, del bacio e soprattutto del suo volermi aspettare sotto casa. Mi dispiace non essermi goduto quel bacio, ma l’esperienza in ospedale mi aveva veramente buttato giù. Sarà il caso che gli dica di questa serata? Ma no. Infondo non è il mio fidanzato

e, anche se lo fosse, sto andando semplicemente a cena dal mio capo. Scelgo quello che devo indossare. Pantalone avana, camicia di jeans, Nike blazer bordeaux e due gocce del mio profumo Vollutes. Ogni volta che mi spruzzo del profumo sul collo, impazzisco. Mi verrebbe la voglia di fare l’amore con me. Così. Dal nulla. E’ un profumo così pornografico che, ogni volta che lo porto, fa uscire la sgualdrina che è in me. Prima di uscire mi specchio per l’ultima volta e non vedo grossi difetti. Sarà l’aria di Milano. Da quando mi sono trasferito, mi sento meglio. Mi vedo diverso. Non mi vedo più grigio. Spento. Ma vedo davanti allo specchio un Valerio nuovo. Un Valerio positivo. Un Valerio capace finalmente di camminare a testa alta. Mancano cinque minuti alle 21 e come al solito sono in anticipo. Tra i tanti cognomi, oltre al suo e ai tanti vuoti, c’è anche il citofono di una certa D. Govardi. Chissà se sarà proprio lei. Suono ed apre senza chiedere “chi è” e senza neanche dire a che piano devo andare. Allora risuono, e Pietro risponde con una voce affannata: “ultimo piano”. Speravo ci fosse l’ascensore, e invece no. Bisogna fare le scale. Nove rampe di scale a piedi. Questo vorrà dire che se arriverò vivo all’ultimo piano, sarà già un ottimo risultato. Per le scale non ci sono profumi. Zero odori di cucinato. Tra le mie dieci regole c’è anche quella che mi ricorda di: “Diffidare sempre dai condomini dove non c’è profumo di cucinato: sono troppo fighetti”. Arrivo all’ultimo piano, dopo dodici rampe di scale. Si, dodici e non nove come avevo erroneamente calcolato. Sento abbaiare e sulla porta trovo ad aspettarmi un Pietro decisamente sexy. Indossa un grembiule da chef avviato. Giusto il tempo di dargli i soliti due baci che un bulldog se mi salta addosso come neanche fosse un jack russel. Poco più in la, sdraiato come un maialino prima della cottura, un bulldog inglese marroncino e nero. Bellissimo. Anzi, bellissimi tutti e due. Il se non mi molla mentre l’inglese non mi si fila. Sono un po’ come Carla Bruni, a questo punto. La casa è meravigliosa. Luminosissima e piena di opere d’arte contemporanea. C’è una sorta di mezzaluna applicata sui muri, lampadari strani e installazioni d’acciaio in giro per casa. Sembra un museo di Berlino. Se entrasse qui Paola Marella, forse, non ne uscirebbe per giorni. E’ una casa che ti lascia a bocca aperta e ad occhi spalancati. Un sogno. Pietro, da buon padrone di casa, chiede il mio chiodo di pelle così da poterlo sistemare in camera. La casa è tanto bella quanto fredda. Non parlo di temperature, parlo di calore umano. Sembra una casa in affitto per una, massimo due notti. Una casa da catalogo. Non sembra una casa vissuta. Mentre accarezzo i cani, Pietro mi raggiunge con un bicchiere di vino, brindando “a noi”. «Mi raccomando! Questa sera non fare show, come al compleanno della tua

collega» mi dice con il sorriso sulle labbra. «No, stai tranquillo. Ho già dato. Quella sera ero semplicemente a stomaco vuoto». «Vai a fare un giro per la casa mentre io finisco di cucinare». «Da solo?» «No, vai con Lara e Rocco. Rocco è il se e Lara l’inglese». Mi avvio verso le due uniche stanze da letto. Immacolate. Zero foto, zero pieghe sulle coperte e zero polvere. I bagni sembrano dei templi antichi, addirittura in uno dei due c’è anche una sauna. O sarà un bagno turco? Faccio sempre fatica a distinguerle. I cani mi seguono incessantemente e si fermavano ogni volta che mi fermo anche io. «Complimenti Pietro, hai una casa bellissima. Ma è tanto che ci abiti?» «Si, sono circa cinque anni. Abitavo qui vicino, ho venduto ed ho preso questa. In questo condominio ci abita anche Daria. Ha detto che se dopo non si addormenta sale a salutarci».

«Carina. Posso aiutarti in qualcosa?» «No, no. Anzi, siediti comodo sul divano e non dar troppa confidenza a Rocco, che è gay con gli uomini e tremendamente etero con le donne». «Un bisessuale convinto». «Dichiarato, direi». «Pietro, perdonami dove hai poggiato il mio giacchetto?» «Nella cabina armadio, perché?» «Ho un pensiero per te». «Dai, ma ti avevo detto di non portare niente». «Non l’avrei mai fatto». Vado a prenderlo, apro la cabina armadio, grande quanto casa mia, e torno di la. «Questo è per te». «Wow. Volevo vederlo da una vita. Ho letto il libro e mi è piaciuto molto». «Allora speriamo che non ti deluda, come deludono quasi sempre i film tratti dai libri». Prendo posto a tavola. E da li a poco anche Pietro mi raggiunge con i due primi piatti. L’antipasto era già servito. Un misto di formaggi accompagnati da diecimila tipologie di miele. Come primo, un tortino di riso basmati, con pezzetti di pollo marinato al pompelmo, e condito con del melograno e peperone frullato. Della serie “dimmi che piatto fai e ti dirò chi sei”. E in questo caso, davanti a me, avrò un precisino di quelli che ti rimproverano ogni volta per aver buttato un cotton fioc nel water. La cena scorre veloce. Parliamo della trasmissione, dei dettagli dell’ospedale, del successo del programma, della mia amicizia con Pamela, della mia precedente vita a Roma e della mia coinquilina Swami. Tutto d’un fiato. Pietro mi racconta della sua carriera, della sua amicizia con Daria nata sul lavoro e della sua storia attuale. Pietro è uno da coppia aperta o, meglio

ancora, Pietro è in una coppia aperta. La cosa che mi lascia felicemente perplesso è che finalmente conosco qualcuno che non si nasconde dietro a un dito. Adoro chi gioca a carte scoperte e apprezzo ancor di più il coraggio di rispondere alle mie domande, così private ed intime. Non mi sembra vero di poterci capire qualcosina in più. Dopo aver tolto i piatti sporchi dal tavolo, Pietro m’invita a spostarci sul divano. Questo vorrà dire che grazie a Dio il secondo non c’è. E a questo punto neanche il dolce. Forse si aspettava che lo portassi io? Mentre mi accomodo, sento suonare la porta e subito dopo girare le chiavi nella serratura. Per un secondo ho pensato fosse il compagno, invece era Daria. Un’altra persona. Se a lavoro sembra una stronza conclamata, in condominio è una persona troppo carina. Porta una tuta intera viola e delle Converse nere. Ci facciamo un altro bicchiere di vino tutti assieme e ripeto per la trecentesima volta, in meno di ventiquattro ore, quello che è accaduto ieri sera in ospedale. Oggi sono stato anche riconosciuto in libreria. Basta un secondo al Tg per essere popolari. Parliamo della prossima puntata e degli ospiti che avremo. Io mi occuperò di una soubrette argentina tanto amata dagli uomini, quanto odiata dalle casalinghe. Sarà un gioco da ragazzi, sperando che almeno a lei non prenda un colpo in diretta. Daria si alza per tornare giù e prima di scendere dedica una carezza a Lara, il bulldog inglese, e poi chiede a Pietro: «ma Frederick dov’è?». In quel momento il cuore mi è arrivato in gola. Avevo sentito bene e non avevo capito niente. Lara è il bulldog inglese di Frederick. Lara ha un colore diverso dai soliti bulldog, e infatti Frederick mi aveva detto che era un cane a tiratura limitata e, per finire, Frederick non c’è e Pietro è a casa da solo. Anzi, non è a casa da solo, è a casa con me, che sono quello che ha ricevuto dal suo fidanzato due baci. Uno ieri sera e un bacio virtuale poco fa. Oh cazzo. Oh santo cazzo. Io, in questo momento, sono nel triangolo vero. Altro che Renato Zero. Altro che geometria da reato. «E’ sceso a Roma con la famiglia. Li hai conosciuti ieri, vero?» «Si, si» risponde Daria, salutandoci con la mano sinistra prima di chiudere la porta. I miei occhi parlano. Non hanno bisogno di aggiungere altro. «Ma quindi il tuo compagno aperto è Frederick?» «Eh già. Non avevi sospettato niente?»

«Sinceramente no. Frederick mi sembra molto discreto, nonostante il nostro bel rapporto, e io e te, infondo, non c’eravamo mai parlati». «Hai ragione, e sono anche molto contento del tuo bel rapporto con lui. Parla spesso di te e sempre bene». «Quindi, quella sera al compleanno sei venuto per stare assieme a lui?» «Più o meno. Non se la sentiva di venire da solo e così mi ha chiesto di essere sempre dietro l’angolo». In questo momento vorrei che una diarrea fulminante mi colpisse, così da poter avere una scusa valida per andarmene senza approfondire. «Purtroppo la nostra relazione è molto instabile. Nonostante la coppia aperta, ci sono cose che ci separano». «Come ad esempio?» «Il cocco». «Capirai, io ho il profumo al cocco, il deodorante al cocco che si chiama “coccodè”, la candela al cocco e vaniglia, la crema per il corpo al cocco, shampoo e balsamo al cocco e miele e il contorno occhi al latte di cocco». «Si, ma lui ha un avversione verso il cocco e verso chi lo utilizza». «Ho capito, ma è come se io dichiarassi guerra a qualcuno solamente perché amante del patchouli». Ride come un matto. «Oddio, sto svenendo» mi dice con le lacrime agli occhi.

«Pure io» ma il motivo credo sia differente. «l cocco non il frutto che ami tu. Il cocco è il nome in codice della cocaina. Mi capita di avere ogni tanto voglia di dare una botta e Frederick odia questa cosa, ma io non posso farne a meno. Mi chiamano genio ovunque, ed io mi ci sento. Io sono un genio, ma solo quando mi aiuto con del cocco. Piuttosto, vuoi dare una botta con me?» Io la botta te la vorrei dare, ma in testa. Questa sarebbe la risposta che avrei voluto dare, ma siccome non mi sembra il caso, mi limito a rispondere con l’evergreen: «mi dispiace Pietro, io non bevo (o quasi), non fumo, non mi drogo e non vado a donne. Ovviamente non giudico chi fa uso di droghe, sono per la libertà dell’individuo». Una marea di cazzate. Io sono contro ogni droga, contro chi ne fa uso e contro chi sostiene tutta questa libertà. Ma cosa potevo dire ora come ora? Siamo io, lui e due bulldog. Pietro si alza per avvicinarsi a me. Inizia a farmi complimenti stupiti. “Che bei denti”, “che bel sorriso”, “che belle ciglia”, “che belle labbra”, “che bella camicia” e poi tra un complimento e l’altro mi bacia. Ci sto. Non mi sposto. Ci sto con il corpo, ma non con la testa. Lo sto baciando perché non sapevo come rifiutarlo. Peccato che mentre mi bacia, allunga le mani. Ovunque. Velocemente, quasi come un ladro in metropolitana. Io posso amare il momento del bacio, ma non tutte queste mani ovunque. Rallento con la lingua e mi fermo. «Scusami Pietro, ma è il caso che io vada. Non mi sento ancora molto bene, come ti ho detto oggi al telefono. Poi sono ancora troppo innamorato del mio ex». «Ma cosa dici? Resta qui, allora» mi risponde prontamente l’uomo cocco, fregandosene altamente della mia scusa. «No, grazie Pietro. Sei molto gentile. Con tutta sincerità, ho paura di fare un torto a Frederick». «A Frederick non frega niente. Siamo aperti». «Sarà, Pietro. Ma io non me la sento. Perdonami. Ho troppo rispetto di te e non voglio rovinare questo rapporto di lavoro. Sei un genio e credo che tu lo sia anche senza l’aiuto del cocco».

Mi alzo dal divano incriminato, lo bacio, accarezzo i cani, prendo il giacchetto, esco e chiudo la porta alle mie spalle. Pietro mi fa paura. O forse sono io che ho paura della droga e di conseguenza di tutti quelli che ne fanno uso. Pietro era visibilmente ubriaco. Aveva esagerato con l’alcool e questo è stato il risultato: ha straparlato ed ha detto cose che, probabilmente, non mi avrebbe detto mai. O forse me l’ha semplicemente dette perché vede in me un potenziale cocainomane? Frederick è uno stronzo. Mi aveva detto tutto ma aveva omesso la parte più importante, cioè il nome del compagno. Mentre guido per tornare a casa penso a cosa posso scrivergli per farlo sentire una merda. Metto in discussione anche l’idea di non dirgli niente. Pietro mi aveva chiesto di non parlarne con lui, ma io non posso non farlo. A me Frederick piace e voglio che sappia che so la verità e che ora lo ritengo un perfetto idiota. Penserò stanotte a come comportarmi. Arrivato al portone, entro in ascensore e noto sul mio cellulare due notifiche da WhatsApp: uno è Frederick, l’altro Pietro. Frederick: “Avrei bisogno di un cicerone purosangue.” Pietro: “ Sei bellissimo, anche con il patchouli.” Quando si dice la telepatia. Rispondo con uno smile ad entrambi, e solo Pietro replica con un altro smile. Vado su Facebook, e prima di chiudere gli occhi scrivo uno stato che capirò solo io: #cuoreingola.

14 RICORDATI DI ESSERE FELICE

E’ proprio vero: ho il cervello pieno di cose inutili. Dovrei iniziare a fare spazio anche li. Dovrei rimettere tutto al proprio posto: dalla A alla M e poi dalla N alla Z. Ma ogni qual volta che arriva il momento di farlo, rimando. E’ una vita che rimando, tutto e tutti. Deve essere una caratteristica predominante del mio segno o semplicemente della mia persona. Ultimamente ho smesso pure di leggere e, di conseguenza di credere, anche nell’oroscopo. M’influenzava troppo. Se Fox prevedeva che la mia giornata sarebbe stata storta, io non aspettavo la sera per fare un bilancio, ma vedevo tutto nero già dalle 8 del mattino. E’ domenica, sono le ore 09:00 e c’è un sole meraviglioso. A Roma, in una giornata come questa, non avrei fatto niente, e a Milano sarà la stessa cosa. Se non peggio. Mi butto su Facebook per scoprire cosa succede nel mio mondo virtuale. Ho tre notifiche, divisibili così: 1 richiesta d’amicizia – 1 messaggio e 1 notifica che sarà sicuramente sullo stato pubblicato stanotte. Partiamo dalla notifica: a Monica Faraone, Marco Pasti e altre 72 persone piace il tuo stato #cuoreingola. Ognuno avrà tratto le sue conclusioni, ma io sono uno di quelli che anche se condivide una emoticon di un pupazzetto che vomita, riceve sempre un gran numero di mi piace. E anche queste son soddisfazioni. Sono stato per anni con uno che si sarebbe fatto ammazzare per un mi piace in più. Chiudo la cartellina notifiche per leggere il messaggio, quando in un nano secondo la cartella notifiche mi risegna 1. Ci clicco e mi arriva l’invito da parte di Ludovica Joro a giocare a Candy Crush. Io non solo non accetto l’invito, ma vado di corsa sul profilo di Ludovica per cancellarla definitivamente dai miei amici. Ma come ti può venire in mente di pensare che io sia adatto a quel gioco così demenziale? Poi, a dir la verità, io questa Ludovica neanche me la ricordo, quindi ad ogni modo crepa, tu e Candy Crush. Clicco su messaggi e il mio #cuoreingola finisce spiaccicato a terra, lasciandomi senza fiato e con un mal di gola che tarda a guarire. Sto provando la stessa sensazione che prova un pesce rosso quando decide di suicidarsi, schizzando fuori dalla sua boccia di vetro. E’ Michele. Michele Corona. Il mio ex. Lui. Quello di cui parlavo poco fa, ripensando alla storia dei mi piace. Non vorrei leggerlo. O meglio, vorrei leggerlo senza che lui abbia la possibilità di vedere poi, sotto, il fottutissimo “visualizzato alle ore xx:xx”. Prendo coraggio, neanche dovessi lanciarmi dall’ultimo piano di un grattacelo, e apro il messaggio: “ Mi auguro sinceramente che tu non sia andato con la Blandi

in ospedale per farti riprendere dai telegiornali. Ti ho visto ovunque e devo dire che Milano ti fa bene “. Stop. Una persona normale, ad una persona così idiota, non dovrebbe neanche rispondere. Ed io così farò. Mi lasci. Anzi, mi lascio, perché tu mi tradisci. Sparisci. Ti fai i cazzi tuoi, fregandotene di me, della mia mail e di tutte le tue cose che ancora non ti sei mai più ripreso (e che mai ti riprenderai) e cosa fai? Mi vedi al telegiornale e ti rifai vivo? Qui c’è un problema. Un grandissimo problema. O forse, il problema sono semplicemente io, che non mi sono mai accorto, per tutti quegli anni, di quanto fossi coglione. Lascio il messaggio appeso. In stand-bye. Michele non merita nessuna risposta. Clicco sulle richieste d’amicizia e sto per gridare al triplo orrore, come fece già qualcuno in ato. E’ Pietro. L’autore. L’amante del cocco. Il mio capo e il vicino di casa della Govardi. In più è pure il compagno aperto del tipo con il quale mi sto sentendo. Insomma, un bell’uomo da gettare tranquillamente nel cassonetto dell’umido. Prima di accettarlo, perché non ho altra scelta, visito il suo profilo. Ho pochi dubbi e una sola certezza: di aperto non ha solo il fidanzato. Un profilo così aperto e visibile a chiunque non ce l’ha neanche Selvaggia Lucarelli. Si può vedere tutto: foto, commenti, tag, post, link, film visti e via dicendo. Il suo ultimo stato risale a stanotte, poco dopo la mia uscita da casa sua, e recita quanto segue: “Ricordati di essere felice”. Io, piuttosto, vorrei scordarmi, quanto prima, della serata appena trascorsa. Sbircio tutte le foto e, ad esser sinceri, Frederick non compare mai. Zero. Neanche in una foto. Non pervenuto. Meglio. Lo accetto e chiudo l’app. Vado in cucina e incontro Swami tutta presa nel mettersi lo smalto. Di Swami ricorderò sempre i suoi silenzi. La politica evidentemente le avrà insegnato a tacere sempre e comunque. Mi siedo con lei al tavolo. Lei stende lo smalto sulle sue unghie ed io spalmo il miele sulla mia galletta di riso bio. E’ come se mangiassi una galletta all’alcool, visto il forte odore emanato da quelle vernici legalizzate. Inizio a parlare con Swami. Di tutto. Senza censura. Della serata di ieri con Pietro. Di Frederick, del lavoro e di questo triangolo amoroso che, ancor prima di partire, mi ha già stancato. Avevo tanta voglia di ricominciare e di darmi questa nuova possibilità, e invece niente. Sto da capo a dodici. Anzi peggio. Perché il messaggio di Michele mi ha dato quella bastonata che proprio non mi ci voleva. Swami ha di bello che non giudica. Ascolta e commenta. Poi tocca a lei il momento confessione. E’ innamorata persa. I suoi occhi parlano. Non distingue neanche più le nuance degli smalti della Kiko. Mi parla dell’evoluzione della storia, del suo cuore che batte e di come vorrà chiudere a giorni il tutto. Ah, e mi racconta anche che Pepito ha fame, ma che oggi sono chiusi i negozi per comprargli il pranzo della domenica. Informazioni essenziali per stare tranquilli in casa con un pitone affamato.

«Posso chiederti un favore?» mi domanda la donna dai mille smalti. «Certo». «Io voglio uscire di scena con il botto». «Dipende a quale tipo di botto ti vuoi associare». «Ad una bomba carta». «Estremista». «No, no. Incazzata proprio». «Ma per cosa?» «Per tutte le promesse fatte che svaniscono nel nulla». «E tu non sei una qualunque che scompare nella folla?»

«Scusa?» «Gioco. E’ il testo di una canzone che conosciamo solo io, Ambra e Peppi. Piuttosto, come posso aiutarti?» «Portandomi da Daria». «Govardi?» «Si, lei. Io la amo e voglio raccontarle tutta la verità». «Ancora con questa storia. Ma sei impazzita?» «No. Cambierò città dal giorno dopo. Sparirò. Nessuno avrà più traccia di me». «Scusa, e con casa come dobbiamo fare?» «Qualora Daria mi accettasse, finita la trasmissione, io mi dirigerei direttamente in aeroporto». «E dove andresti?» «Partiamo». «Ok. Ma dove andate?» «Lontano», «Non fare la misteriosa. Mi avevi già detto dove sareste andati, ma sono io che non me lo ricordo». «A Bonaire». «Ah si. L’isoletta. Scusa l’egoismo Swami, ma io, invece, che fine farò?» «Amore, ti servono dei soldi?» «No, mi servirebbe giusto trovare per tempo un’altra casa o una stanza. Finita la trasmissione non ho ancora ben chiaro cosa fare. Restare a Milano o tornare a Roma».

«Non tornare a Roma». «E perché?» «Sensazioni». «Non mi mettere paura». «Senti stasera ho invitato Gianluca a cena qui da noi. Vuoi venire anche tu?» «Swami non ti direi mai di no, ma sinceramente la situazione del terzo incomodo non mi piace molto». «Non dire stupidaggini. Alle 21 ti voglio qui». «Vuoi una mano a cucinare?» «Neanche per sogno». «Meglio. Te l’ho detto così, per far scena». Mi faccio una doccia. La mia testa sotto il getto dell’acqua calda, quasi bollente, inizia a fare dei viaggi interminabili. Viaggi che non hanno nessun legame l’uno con l’altro. In un secondo sono capace di pensare a tremila cose e a quattromila persone diverse. Adoro sentire il profumo del sapone al miele che pian piano se ne va, dopo averlo ato accuratamente su ogni parte del corpo. Uscito dalla doccia, mi asciugo con la stessa velocità di una lumaca in una giornata di sole. «Vale. Vale. Vale??» sento gridare da fuori la porta del bagno. «Eh, Swami». «Posso aprire? Sei nudo?» «Non mi sembra ti sia mai fatta grossi problemi …» «C’è Frederick al telefono, tieni e attento a non sporcarti». Mi a il telefonino, con la cover che da nera è diventata magicamente fuxia. «Buongiorno» dico io a Frederick.

«Buongiorno a te. Sono a Roma, in Piazza San sco in Lucina e ti stavo pensando». «Bene, però ti voglio dire che non è Piazza San sco in Lucina, ma San Lorenzo in Lucina». «Va beh, un Santo vale l’altro. L’importante è che hai capito il luogo». «Ah certo. I tuoi, piuttosto, si stanno divertendo?» «In verità stanno patendo il caldo di questa giornata. Siamo in giro dalle 7 di questa mattina. Ma tu cosa hai? Ti sento così freddo e così poco loquace». «Frederick, ti devo dire una cosa». «Dimmi». «E’ il caso che noi la finiamo qui. Ieri Pietro mi ha invitato a cena. Ero solo, ed io non avevo meglio da fare. A dir la verità non sapevo come rifiutare l’invito e, per evitare di are una serata a vedere repliche su Real time, ho accettato. Sono arrivato ed era tutto tranquillo. Ho giocato coi cani ed ho visto la casa. Una cena tranquilla. Poi ci ha raggiunto Daria». «E quindi?» mi domanda. «E quindi ho scoperto che tu stai con Pietro. Ma perché non me l’hai detto prima? E soprattutto, perché non mi hai detto che siete una coppia aperta? Come puoi pensare che io possa essere l’amante di uno che ha una relazione con il mio capo, e che insieme formano una coppia aperta?» «Vale, lasciami spiegare». «Guarda, Frederick, non ho bisogno di sentire altre storie. Ieri sera ne ho già sentite troppe. Scusami». «Rinsavisci, te ne prego. Non ti ho nascosto nulla, se non il nome di Pietro. E sai perché l’ho fatto?» «Perché?»

«Perché non volevo che tu, ogni giorno, provassi imbarazzo in ufficio. Volevo vederti naturale e spensierato come lo sei ogni volta che ti guardo. E poi, scusami, tu esci con me e poi esci con lui?» «Non dire stronzate. Io non sono uscito con chissà quale finalità. Ho accettato perché sono solo e non sapevo cosa fare. Il mio capo m’invita a cena ed io non potevo tirarmi indietro». «Certo. E magari ci ha anche provato, vero?» «Elegantemente». «Che schifo d’uomo!» «Grazie». «Non dicevo a te. Noi non siamo una coppia aperta. E’ lui che è troppo aperto in mia assenza e talvolta anche in mia presenza. Io non sono come lui». «Non m’interessa. Se c’era un po’ d’entusiasmo, sappi che è andato a farsi benedire. Finiamola qui». «Non pensi che stai esagerando?» «Non pensi invece che mi sono rotto i coglioni delle cose difficili? Io voglio stare bene. Voglio alleggerire la mia vita, non complicarmela. Anche perché io, di complicazioni, ne ho avute sin troppe, credimi». «Senti, cambio il biglietto e vengo da te». «Non farlo». «Invece si». «Tanto non ti apro». «Ed io butto giù il portone e la porta di casa». «Ed io non sarò a casa». «E io ti verrò a cercare per tutta Milano, a costo di farmela tutta a piedi. A

dopo». Mi attacca il telefono in faccia. Che fastidio. Ho un odio totale verso chi ha questo maledetto vizio. Swami mi ha fatto impiastrare tutte le mani per aver dipinto, con lo smalto fuxia, la mia cover di gomma originariamente nera. «Amore, hai attaccato?» mi domanda Swami dalla cucina. «Si, entra pure». «Ma cosa voleva?» «Voleva salutarmi ed io gli ho raccontato della serata di ieri. Gli ho detto che volevo finirla qua, perché di storie così non ne ho bisogno. Ha anche deciso di anticipare il biglietto di ritorno, minacciando di cercarmi ovunque, qualora non fossi a casa». «E non sei contento?» «Non così tanto». «Perché?» «Perché tra le mie dieci regole c’è pure quella che mi ricorda di non concedere seconde occasioni a nessuno». «Seconde occasioni?» «Si, lui già mi ha deluso alla prima botta». «Ma per non averti detto tutta la verità?» «Si. Cazzo, ma vuoi dirmi almeno con chi stai?» «E lui come si è giustificato?» «Dicendo che l’ha fatto per proteggermi. Perché non voleva che io cambiassi atteggiamento sul posto di lavoro». «E perché non dovrebbe essere vero?»

«Perché sono cazzate di circostanza». «Tu, Valerio, vedi il marcio in tutto. Io non voglio mettere in discussione la tua rigidità e le tue teorie, ma non è detto che tutti siano come Michele. E non è neanche giusto che Frederick, o chi per lui, sconti quello che hai ato tu. E ricorda anche che il ato è solo una storia che raccontiamo a noi stessi». «Quest’ultima frase dove l’ho già sentita?» «Nel film HER, quello che abbiamo visto assieme l’altra sera». «Ah, ecco. Mi sembrava che non fosse farina del tuo sacco». «Amore, comunque scusami per la cover, poi te ne compro una io. E’ che mi è cascato lo smalto sul telefonino, fortunatamente messo a schermo sotto, e così ho pensato di finire di colorarlo». «Ti odio». «Anch’io. Piuttosto, quando parli con Daria?» «Guarda, mi vesto e mi metto subito a lavoro. o prima dalla sua assistente e, se non vedo luce, mi butto direttamente su Pietro». «Grazie». Sono pronto a dare un senso a questa domenica bastarda. A questa domenica da coma. Chiudo la porta, mi siedo sul letto a gambe incrociate e mi metto all’opera per aiutare Swami. Che poi aiutando lei, aiuterei anche me e il mio lavoro. Forse farei indirettamente un torto a Pamela, ma la scusa del: “non c’ho pensato” regge sempre. O quasi. E poi, comunque, Swami non vuole sputtanare lo special love di Pamela, ma un sistema corrotto ed ipocrita. «Cinzia buongiorno. Mi dispiace disturbarti proprio nel nostro giorno di riposo, ma volevo sottoporre alla tua attenzione un’intervista che Daria potrebbe fare in trasmissione. La mia coinquilina Swami, transessuale non operata, sta per lasciare definitivamente l’Italia, dopo esser stata per diversi anni molto vicina ad un partito di destra. Vorrebbe andarsene, lanciando un messaggio forte su quello che ha subito e vissuto. Inoltre, con lei, si potrebbe affrontare l’argomento transessualità a trecentosessanta gradi. In attesa di un tuo riscontro, ti auguro una

buona domenica. Valerio». Spero che la stronza legga e che mi dia un quanto prima, così da potermi regolare su come comportarmi. Per pranzo mangerò il solito yogurt naturale 0,1% di grassi, con l’aggiunta di un bel po’ di miele. Oramai potrei farmi chiamare tranquillamente Winnie, visto che il miele è diventato improvvisamente il mio miglior amico, da quando mi hanno detto che non ha grassi e che, preso prima di dormire, azzera lo stress. Dopo aver mangiato non prendo il caffè, mi lavo i denti e mi metto a fare un riposino. Poi mi sveglierò, conoscerò Gianluca, cenerò con loro e poi mi metterò di nuovo a letto. TRR. TRR. TRR. TRR. «Ma cosa diavolo è?» chiedo tra me e me. Apro gli occhi e non è che capisca molto. Guardo il cellulare e vedo che si sono fatte le 18:30. Ho dormito cinque ore. Ho un mal di testa inspiegabile. TRR. TRR. TRR. TRR. Sento di nuovo quel rumore fastidioso provenire dall’ingresso. E’ il citofono. Un suono che non avevo ancora mai sentito in questa casa. Mi alzo barcollando. «Chi è?» chiedo con una voce bassa e abbastanza incazzosa. «Sono io». «Io chi?» «Frederick. Apri». In un secondo il mio cuore inizia ad accelerare come neanche Schiribilla la palla che brilla. Apro senza dire il piano, dove sono e con chi sono. Mi guardo nello specchio posizionato all’ingresso e con molto piacere posso confermare di essere un gran bel cesso. Occhi gonfi, labbra xxl che anche Nina Moric m’invidierebbe e la forma del cuscino stampata sul lato destro del mio volto. Corro verso la camera di Swami per chiederle un falso “come sto”, sperando che mi dica “benissimo”, ma non c’è. Deve essere andata a fare la spesa per la cena di stasera. Ora suona il camlo. E’ qui. E’ arrivato. Mi faccio il segno della croce senza un reale motivo, ed apro la porta. E’ lui. Mi guarda, sorride senza spalancare la bocca e non riesce a non farmi notare che ha una piccola busta di carta, tutta ciancicata, nella mano sinistra. «Posso entrare o devo aspettare ancora molto?» mi chiede il disturbatore di

sogni. «Come facevi a sapere a quale piano ero?» replico con un’aria di fastidio. «Quella sera che eri ubriaco, se ricordi bene, ti ho portato io a casa. Ti ho anche spogliato e messo a dormire». «Zitto, non aggiungere niente …» lo prendo per il polso e lo tiro dentro casa, chiudendo delicatamente la porta. «Questo è per te» mi dice Frederick, allungandomi quel cartoccio bianco. «Cos’è?»

«E’ un regalo. Anzi un pensierino». «A me piacciono i pensieri, non i pensierini». «Allora chiamiamolo pensiero». Inizio a scartare e man mano inizio anche a toccare l’oggetto incriminato senza guardarlo, con l’intento di capire cosa c’è dentro. Tiro fuori e trovo uno di quei souvenir del Colosseo. Lo guardo e lo ringrazio tanto, ripetendogli a loop “che carino”, quando in realtà sto seriamente pensando “ammazza che schifo”. «Ti ho portato il Colosseo per non farti sentire mai solo qui a Milano». «Grazie, ma ora non pensare che per un Colosseo qualunque io mi dimentichi di ieri sera». «Posso lavarmi le mani?» «Si, il bagno è li». «Lo conosco». «Ah, pure al bagno sei stato quella sera?» «Si, per accompagnarti a fare pipì». «Scusa??? Tu mi hai visto anche nudo?» «Eh già ...» «Non dire cazzate e non ripetere più queste falsità». Mentre lui è in bagno, io tento velocemente di risistemare il letto. Giro i bastoncini del millefiori per rinfrescare l’ambiente e mi o una botta di crema decongestionante all’avocado. «Eccoci». «Scusami, ma i tuoi genitori?»

«Mi hanno visto troppo agitato, gli ho spiegato e mi hanno detto “vai da lui”». «Da lui chi?» «Stupido. Da te». «Ma a loro cosa hai detto?» «Quello che ho detto a te. Solo che con loro ho detto proprio tutto e a te mancava solo un nome». «E ti pare poco?» «Pochissimo». «Senti, Valerio, ho fatto le corse, ho anticipato il biglietto e detto una valanga di bugie anche a Pietro per salire il prima possibile e per stare più tempo con te». «Frederick, al di là di tutto io non so cosa dovrò fare della mia vita. Non so più niente. Swami sta per lasciare casa e di conseguenza dovrò farlo anch’io, a meno che non voglia prendere il suo posto. Mi ha chiesto di poter venire in trasmissione da noi a raccontare il suo caso, prima di sparire definitivamente dall’Italia. Da dopo la diretta, io e lei, non saremo più qui. Ho scritto a Cinzia ed ora attendo la sua risposta». «E dov’è il problema?» «Che sarò senza lavoro». «E visto che tu non hai lavoro ed io neanche, scappiamo anche noi». «E dove?» «Andiamo a Rovaniemi. Stiamo li. Abbiamo casa tutta per noi e li ci sono i miei come appoggio, per qualsiasi cosa. Inizieremo a guardarci attorno per poi ricominciare assieme con qualche progetto più importante. Questo non vorrà dire che non torneremo più in Italia, eh? Io voglio vivere in Italia,ma come prima cosa voglio vivere te». Sorrido. Da quando è entrato in casa mi è ato il mal di testa, mi è tornato il

sorriso e il mio cuore ha smesso di affaticarsi. Ho davanti a me un uomo. Un uomo che ti parla e che ti guarda negli occhi. Un uomo che ancora non mi ha baciato ma che già progetta un futuro insieme. «Vogliamo vedere i biglietti per partire?» mi chiede con lo stesso entusiasmo di un bambino. «Apro il pc?» «No, ho l’App sul telefonino. Allora, vediamo … Questo è un offertone: 198euro a testa. Un solo scalo di un’oretta ad Helsinki e in circa cinque ore saremo casa». «Oddio, vediamo, capiamo e poi in caso decidiamo». «Ok. Diamoci tempo massimo sette giorni. Ok?» «Ma quanti ok dici?» «Scusa Valerio, vieni un secondo qui.>> mi chiama come se avesse visto qualcosa di strano sul suo iPhone. Mi avvicino a lui. «Cosa c’è?» Il tempo di dire cosa c’è, che Frederick mi bacia. Mi bacia con lo stesso entusiasmo di prima. Di quando gli ho aperto la porta. Mi bacia in un modo così diverso dai soliti baci dati in vita mia. C’è dolcezza e c’èione. Butta dal letto il libro che in teoria starei leggendo e prova a sdraiarmi. Lui si toglie la camicia di jeans, che aveva sopra la t-shirt bianca, e torna da me. Torna tra le mie braccia. Un bacio tira e l’altro e poco dopo ci ritroviamo nudi. Non c’è imbarazzo, non c’è niente. C’è solo una voglia di fare l’amore. Si placano i pensieri, gli occhi restano aperti e il naso respira forte per sentire il profumo di sesso. C’è voglia di fare tutto in fretta e non per chissà quale motivo, ma perché nessuno dei due vuole perdere un secondo dell’altro. Siamo uniti. Siamo una cosa sola, io sotto e lui sopra, quando ad un tratto Frederick urla talmente forte che finiamo, non si sa come, giù dal letto. «Ma che sei scemo?» gli faccio io tutto stranito dal suo strillo. Capisco che il fascino del mandrillone ‘de Roma si fa riconoscere sempre, ma da qui ad urlare

in questo modo, insomma. «Che cazzo. C’è un serpente sulla testiera del letto».Scoppio a ridere, di cuore. «Ma quello è Pepito» faccio, facendo finta di non aver paura. «Io non ce la faccio. Ti prego toglilo». E ora cosa faccio? Io ho più paura di lui. Provo ad allungare la mano per prenderlo con la stessa nonchalance di Swami, ma Pepito sembra non apprezzare. Mi allunga il muso spalancando la bocca. Qui sono cazzi. Cazzi amari. Ma talvolta la fortuna sembra essere dalla mia parte. Sento aprire la porta di casa. Faccio segno a Frederick di vestirsi al volo e di chiudere la porta. Io faccio lo stesso. «Amore, ci sei?» urla Swami fuori dalla porta. «Si. Si, entra pure. Sono con un collega, e c’è pure tuo figlio». Apre la porta ed esclama «Cielo. Frederick, finalmente ti conosco dal vivo». Ecco, lo sapevo, mi ha sputtanato. Lui fa finta di niente, ma non perché particolarmente gentile, quanto perché ancora terrorizzato da Pepito. «Pepito, vieni da mamma che ti ho trovato anche la pappa». «Cosa mangia di buono?» chiede Frederick. «Un criceto bello grande e pure abbastanza tonto».«Perché dici tonto?>> «Perché non si muove troppo e quindi Pepito farà poco fatica a mandarlo giù». «Posso assistere alla cena?» chiede sempre Frederick. «Certo, purché anche tu ti fermi a cena con noi» replica Swami. Swami porta Frederick nella sua stanza per assistere alla cena di Pepito. Li guardo da dietro e sembrano già essere amici da una vita. Risistemo di nuovo il letto per la terza volta e poi inizio ad apparecchiare in cucina. Non ho ben chiaro cosa farà per cena, ma almeno alla decorazione della tavola ci voglio pensare io. Certo è che Swami non ha niente di minimal, e quindi anche una tovaglia può

farti sentire a Muccassassina da un momento all’altro. Frederick torna in stanza tutto schifato. Mi racconta per filo e per segno quello che ha visto fare a Pepito ed ha paura di non dormire stanotte. Mi chiede di fare una doccia ed io gli do tutte le cose. Peccato che lui intendeva farsi una doccia insieme. Ed io accetto. La facciamo e lo rifacciamo, anche se sotto l’acqua non è che sia la mia situazione preferita. Ci guardiamo e ridiamo. Sembriamo due imbecilli. «Qual è la cosa che ti manca di più in questo momento?» mi chiede Frederick una volta usciti dalla doccia. «Oddio, così su due piedi non saprei». «Allora qual è la cosa che ti piacerebbe fare stasera?» «A parte rifare l’amore, che ne so, un film al cinema?»

«Allora scegli il film, che dopo cena andiamo». Mi bacia e si va a vestire in camera. Io, nel frattempo, mi riaffaccio in cucina e Swami è tutta presa tra i fornelli. Mi guarda e mi chiede a bassa voce dov’è Frederick. In un secondo mi ha detto che gli piace da morire, e mi ha anche chiesto quanto ce l’ha grande. Io ho avuto la brutta idea di dirgli enorme e lei ha cominciato a chiedermi di scattargli una foto. Con il sorriso. Ma si sa, scherzando e ridendo, pulcinella disse sempre la verità. Mi s’illumina lo schermo dell’iPhone ed è lui, che mi scrive da due metri di distanza: “Quanto sei bello”. Io rispondo con un “grazie, lo so :-)“. Arriva Gianluca. Ora siamo ufficialmente in quattro. Tre uomini e una donna. O meglio quattro uomini. Ok diciamo tre uomini e una sirena, metà donna e metà pesce. Siamo quattro cuori che battono. Una tavola piena d’amore. Gianluca è un bel tipo, affascinante e anche molto interessante. Si guardano con gli occhi dell’amore. Gianluca è pronto a fuggire via con lei ed io sono pronto a fare l’ennesima pazzia con Frederick. Nessuno ha nulla da perdere. Forse l’unico è Gianluca che potrebbe perdere qualcosa, ma se ha deciso di fare questo o, un motivo ci sarà. E forse quel motivo si chiama amore. Swami ha cucinato una cena meravigliosa a base di prodotti made in Italy. Mozzarella di bufala, porchetta, pasta alla carbonara e litri di vino, che io non ho bevuto per non rischiare di commettere gli stessi errori di quella sera. Gianluca ha portato una cheesecake buonissima e involontariamente ha reso felice solo il sottoscritto. Swami, dopo aver infilato prontamente tutto in lavastoviglie, ci avvisa che stanno andando al cinema. Gli diciamo che andremo anche noi, ma ad un altro spettacolo. Quindi, ognuno per la sua strada, grazie, è stata una bella serata, a domani. Noi andiamo allo Spazio Oberdan in Viale Vittorio Veneto, a vedere un docufilm sulla storia di una transessuale romana. Forse anche Swami avrebbe gradito, ma ha detto che preferiva vedere un horror. La cosa che più mi ha sconvolto è che Gianluca era più fomentato di lei. Della serie “Dio li fa e poi l’accoppia”. Al cinema Frederick è stato un signore. Non ha mai guardato il cellulare, mi ha comprato le pop corn ed ha anche pagato i biglietti d’ingresso. Il film è stato bellissimo e, dopo aver fatto una eggiata in centro, siamo tornati a casa. Pensavo volesse tornare a casa sua, invece mi sbagliavo. «Oggi cosa ti ho chiesto?» mi domanda Frederick.

«Di togliere Pepito dal letto?» «Poi?» «Poi l’ho tolto». «No, poi cos’altro ti ho chiesto?» «Qual è la cosa che ti piacerebbe fare stasera?» «Esatto. Ora però prova a chiedermi tu la stessa cosa». «Qual è la cosa che ti piacerebbe fare stasera?» «Dormire con te».

15 CI SIAMO (quasi)

Hai presente quando stai talmente tanto bene, da non aver voglia di aprire gli occhi? E’ questa la sensazione che ho provato per tutta questa notte. Una sensazione di benessere. Di tranquillità. Mi sono sentito protetto e coccolato. Sensazioni che nessuna tisana o pastiglia è mai riuscita a darmi. Che poi è una cosa stranissima quella che mi è capitata. E’ molto difficile che all’inizio di una frequentazione, io lasci dormire un quasi sconosciuto con me. Infatti, all’ottavo posto dei miei dieci comandamenti personali, c’è scritto: “scopa con chi vuoi, ma dormi sempre da solo”. Forse sembrerà una follia, ma ho sempre trovato il dormire insieme, più intimo di una scopata vera e propria. Eppure c’è sempre una prima volta. E la mia c’è stata. Ma la regola non la eliminerò, perché subito dopo c’è scritto: “diffida sempre da chi cancella qualcosa”. Ed io non voglio cancellare nulla. Al massimo aggiungo qualcosa giorno dopo giorno. Mi giro su me stesso, ma quella sensazione di benessere non riesco più ad avvertirla. Apro gli occhi, allungo le mani e Frederick non c’è più. Sparito. Quella serenità in un attimo sparisce. La stanza è talmente buia, da non riuscire neanche ad alzarmi senza l’aiuto della torcia dell’iPhone. Stanotte Frederick mi ha fatto staccare addirittura la spina della televisione per eliminare la lucina rossa. Quella piccolina e maledettamente fastidiosa che noto solo quando non riesco a prendere sonno. Non si sente neanche il solito ticchettio dell’orologio, perché mi ha fatto togliere anche le batterie. Mi ha detto di essere un fanatico del risparmio energetico ed io, per non sembrare il solito menefreghista, l’ho assecondato. Sono le 11 del mattino e illuminando il pavimento, mi avvio verso la serranda. La alzo senza aprirla tutta. Odio la luce accecante di prima mattina. Mi giro e trovo una miriade di post-it numerati da 1 a 43 che riportano quanto segue: «guardarti dormire è stata la cosa più bella che mi potesse capitare. E mentre tu dormivi ho agito: sul tavolo troverai due buste, aprile. Ah! Non sono scappato, è che non volevo svegliarti. Ci vediamo il pomeriggio sul luogo del delitto. Tp F.» Il mio cuore ha ripreso a rilassarsi. Mi volto verso il tavolino e trovo due buste chiuse. Le apro e ci sono due carte d’imbarco, solo andata, per Rovaniemi. Non riesco neanche a descrivere il mio stato d’animo. E’ uno stato che va oltre la felicità. E’ amore. Perché un uomo così l’ho incontrato solo ora? A cosa mi è servita la collezione di stronzi che ho fatto sino ad oggi? Tolgo la solita modalità

aerea per scrivergli un sms, ma anche stavolta lui mi ha preceduto: «Non starai mica pensando che il buongiorno potesse essere solo quello sulla porta e sul tavolino, vero? Buongiorno, sto facendo il countdown per rivederti più tardi. F.» La mia risposta dirotta il mio amore verso il “confondiamogli le idee”: «Quando ho aperto gli occhi, ho pensato che fossi fuggito via. E ti avrei anche capito. Invece non l’hai fatto. Per questo ti stimo e ti dico che io e la slitta siamo già pronti per andare a Rovaniemi. Mancherebbe la renna, ma poi ho pensato a te e allora non manca più nulla. A dopo. V.»

Squilla il telefono. Non lo trovo. Dove l’avrò lanciato? Maledetto! Si era nascosto sotto le lenzuola. E’ Cinzia. Vorrei non rispondere, ma devo. «Cinzia, bella, buongiorno». Il silenzio. «Cinzia, mi senti?» «Buongiorno, Valerio. Speravo di aver sentito male e invece credo d’aver sentito bene …» «Cosa?» «Lascia stare, ascolta ..» «Scusa, ti sei offesa per il mio entusiasmo nel risponderti al telefono?» «Ti chiamo perché ho letto la tua mail. Daria pare sia molto interessata al caso della tua amica. Può venire oggi in redazione con te?» «Mi puoi dare un secondo che chiedo?» «Che sia un secondo, però». «Attendi in linea …» Appoggio il miglior amico dell’uomo sul letto, con lo schermo a pancia sotto. Vado a bussare alla porta di Swami. Busso e niente. Busso e niente, al terzo tentativo non busso più e apro direttamente. Non l’avessi mai fatto. Swami completamente nuda, con delle cuffie enormi alle orecchie, davanti al pc, circondata da svariati dildo colorati. Mi avvicino sempre di più ma lei non mi sente. La chiamo toccandola delicatamente sulla spalla destra e l’urlo da spavento che emette, sarebbe in grado di allontanare anche una mandria di elefanti affamati. «Amore, sto lavorando» mi dice coprendosi solo il seno e chiudendo con l’altra mano il pc in faccia al cliente collegato. «Non volevo aprire, ma non mi rispondevi. Mi chiedono se puoi venire con me

in riunione da Daria. Ti vorrebbe conoscere per quel discorso …» «Mi faccio una doccia e sono tua». «Anche due docce, siamo in anticipo. A dopo». Ritorno in camera, riprendo il telefono e noto che Cinzia non c’è più. Mi ha attaccato. Quindi, se prima la odiavo, ora le dichiaro ufficialmente guerra. Cerco tra le ultime chiamate ricevute e la richiamo. Squilla. Squilla. Squilla. «Pronto?» «Cinzia, sempre io». «Dimmi». «No, dimmi tu. Mi hai anche attaccato il telefono in faccia …»

«Ci hai messo più tempo del previsto». «E io ci metto meno tempo del previsto a dirti che sei una maleducata». «Come?» «Non perdiamo tempo. Ti confermo la presenza di Swami. A che ora?» «Ore 15». Ma stavolta attacco io. Non l’ho mai fatto. E aggiungo anche che non l’avrei mai fatto, ma a tutto c’è un limite. Bussa alla porta Swami con una vestaglia leopardata. «Amore scusami ma stavo lavorando …» «Con le cuffie e con la webcam aperta?» «Certo. Ho smesso di fare marchette. Ora mi esibisco a pagamento». «Nuda». «E che mi faccio vedere vestita?» «Che equivale a prostituirsi virtualmente …» «Perché parli di prostituzione? Vendo solamente la mia immagine. C’è gente che paga per vedermi contenta». «Ok. Cambiamo discorso. Alle 15 dobbiamo essere in redazione». «Adoro. Cosa mi metto?» «Semplice. Zero tigri della Malesia e zero ghepardi africani. Basic». «Ok. Senti, per pranzo?» «Cucino un po’ di riso? Ti va?» «No. Chiamiamo il cinese qui vicino e ci facciamo portare qualcosa?»

«Ok». «Che ti prendo?» «Spaghetti di soia ai frutti di mare e pollo all’ananas». Arriva il tipo delle consegne. E’ italiano, e la cosa oramai non mi sorprende più. Offre Swami. Mangiamo come naufraghi dopo giorni di digiuno, ci raccontiamo i rispettivi post cena di ieri, e inizio a dare dei consigli utili a Swami su come affrontare la trinità: Daria, Pietro e Cinzia. Per l’occasione la mia coinquilina ha adottato un look total black. Un tubino accollato, ma molto corto. Un tacco alto senza esagerare e un trucco adatto per una conduttrice qualsiasi di Uno Mattina. Prima di entrare nel corridoio delle meraviglie, per tutto il viaggio ho fatto il lavaggio del cervello a Swami, ripetendole: «TU NON HAI MAI VISTO FREDERICK PRIMA D’ORA – TU NON HAI MAI VISTO FREDERICK PRIMA D’ORA – TU NON HAI VISTO FREDERICK PRIMA D’ORA». Peccato che non sia servito a niente. Frederick è il primo personaggio che incontriamo, assieme a Clarissa e Susanna, e Swami è andata subito a salutarlo. Due donne normali avrebbero subito chiesto “come la conosci?”, ma siccome parliamo di due galline il problema non si è posto. Riprendo in mano la situazione e accompagno Swami verso la stanza giusta. Nel breve tragitto gli occhi di tutti i collaboratori sono per lei. Bussiamo alla porta, ano pochissimi secondi e ad aprirci alla porta c’è Cinzia. Fa entrare Swami e con la solita educazione mi chiude la porta in faccia. Senza neanche dirmi “a dopo” o semplicemente “parliamo noi con lei”. Nell’attesa vado nel mio ufficio; qui ritrovo anche i fantastici tre e iniziamo a parlare delle ragioni per le quali Swami ha deciso di voler rilasciare un’intervista televisiva. L’argomento accende le prime discussioni tra di noi. In quattro abbiamo tre idee diverse. Io e Frederick però siamo sulla stessa linea di pensiero e questo mi fa sentire decisamente più forte. Ognuno si siede alla sua postazione. Swami è ancora dentro ed io sto morendo dalla voglia di sentire quello che si stanno dicendo. Mi arriva un sms, ma per vedere chi è devo alzarmi in piedi, perché da seduto il telefono non mi esce dalla tasca dei jeans. Maledetti, voi e chi vi compra. Comincio a sudare freddo. E’ Michele. Di nuovo. Sblocco la tastiera e vado su WhatsApp. Scrive: “Quello che più vorrei, credo, è mancarti”. Conto fino a tre e rispondo con: “Vorrei tornare a quando t’incontrai per la prima volta …. E andarmene”. Risponde di nuovo con una faccina triste e per me, quella faccina triste, equivale alla più grande soddisfazione della mia vita. Io voglio sperare che questo suo ritorno di fiamma non sia dovuto alla mia apparizione al telegiornale, perché se

così fosse ci sarebbe di nuovo un problema. Ma la verità è che lui ama sentirsi adulato e quando perde una certezza, cerca comunque di ritrovarla. Nello stesso momento in cui mi sento l’uomo più fico, ecco entrare Swami in ufficio. «Amore, puoi uscire un secondo?» «Certo. Eccomi». «Accompagnami sotto, che tra cinque minuti dovrebbe arrivare un taxi». «Com’è andata?» «Benissimo. Ci siamo quasi. All’ultima puntata faremo quest’intervista. Sarò la prima ospite della serata. Mi è stato chiesto solo di non fare nessun nome ed io non li farò. Poi, dal giorno dopo, le nostre vite cambieranno. Tu, al freddo e al gelo, ed io su un’isoletta a campare di pesce, amore e ione. E’ arrivato il taxi. Ciao, amore». Se ne va via felice e contenta. Con la stessa felicità di una moglie tradita, quando ottiene il mantenimento da parte del marito. Con la stessa felicità di chi ha lottato una vita, per sentirsi normale, quando per gli altri normale non lo era. Con la stessa felicità di chi ha una persona che l’aspetta a casa. Con la stessa felicità di chi riesce a guardarsi allo specchio senza sentirsi una merda.

16 COME IN UN FILM

Apro gli occhi. Forse per l’ultima volta a Milano. Due città nel giro di pochi mesi, merito di tante disavventure. Oggi lascerò questa casa. Una casa che non mi ha mai fatto sentire ospite. Una casa che mi ha fatto sempre sentire vivo. Non c’è stato bisogno di tinteggiare pareti o di appendere qualche quadro di Ikea. Questa casa l’ho sentita mia da subito. Swami e Pepito inclusi. Oggi è anche l’ultima puntata, e da domani sarò disoccupato. Di nuovo. Ma stavolta, rispetto all’ultima volta, ho un uomo con me. Un uomo diverso dalla massa di coglioni che ho incontrato sino ad oggi. Un uomo che, per la prima volta, ha messo me al primo posto. Mancano cinque minuti alla sveglia. Sto per tirare il solito sospiro di sollievo quando mi accorgo di aver ricevuto un messaggio su WhatsApp da Michele. Il solito messaggio che non viene mai inviato ad un orario normale. Ore 04:19. Non vorrei dargli la soddisfazione di leggerlo, ma purtroppo, con l’introduzione della terza spunta, siamo tutti spacciati. «Tu non hai fatto mai niente per riprendermi. Hai preferito scappare, fregandotene di me». In questo preciso istante sto sudando freddo e se avessi Michele davanti, probabilmente sarei capace di lanciargli qualsiasi. E’ un provocatore nato: gode e vive di quello. Ma io stavolta non cedo. Non cederò più. Da quando sono a Milano, ho capito cosa mi fa stare bene e cosa non mi fa stare bene. E lui, anche da lontano, mi fa solo stare male. Ci sono persone nate per rovinarti i giorni, e lui me li ha rovinati tutti. Suona la sveglia, la interrompo. Mando un sms del buongiorno a Frederick e mi vado subito a fare un caffè. Oggi sarà una giornata lunga e straziante. Dovrò trascinarmi le mie valigie per tutta Milano. Visto il mio trasferimento ho dovuto vendere la Smart. Quei quattro euro che sono riuscito a ricavarci, mi serviranno per stare tranquillo, finché non troverò lavoro a Rovaniemi. Swami stamattina è a duemila. Non si calma. E’ agitata per questa sera, ha già scelto il look e più tardi farà l’ultima seduta dal parrucchiere. In questi giorni, prima della partenza, lei e Gianluca saranno in un hotel di Milano. Pepito non cambierà città, ma cambierà solo domicilio. Swami l’ha regalato ad una signora apionata di rettili e anfibi, con l’unica richiesta di farle avere, ogni tanto, qualche foto. Contenta lei, contenti tutti. Il taxi che avevo prenotato ieri sera è arrivato. Io sono pronto. Malinconico, ma allo stesso tempo felice. Due emozioni così diverse, che viaggiano sempre così vicine. Saluto Swami che vedrò più tardi, carico le tre valigie in ascensore e, prima di dare le spalle alla porta di casa,

scende una lacrima salata sul mio viso. Il tempo, oggi, non è dei migliori e il taxista idem. Non ha alzato un dito per aiutarmi con i bagagli e io non aprirò il portafogli per dargli contanti, ma pagherò la corsa con la carta di credito. Se volete far incazzare un taxista, chiedetegli ricevuta e pagamento Pos. Nel tragitto inizia a piovere. Sto guardando Milano dal finestrino, con gli stessi occhi che avevo al mio arrivo in città. Per anni me l’hanno descritta come una città dinamica. La New York italiana. Una città dove vanno tutti di corsa e dove non si perde nemmeno un minuto. Sarà. Io, in tutto questo tempo, ho solo visto mille semafori e sempre tutti maledettamente rossi. Arrivato a destinazione, il taxista, come da manuale, si è preso la sua bella incazzatura e io mi sono ripreso i miei bagagli e qualche soddisfazione in più. Salgo, lascio tutte le mie valigie nell’ufficio e vado al bar a prendere il secondo caffè della giornata. Frederick non è ancora arrivato. Tutti sanno che io, subito dopo la puntata, tornerò a Roma. Pietro non ha mai saputo niente di me e di Frederick. Sa solo che il suo “compagno” stanotte partirà per tornare a casa dai suoi, e per prendersi una pausa di riflessione, ovviamente finta. Finta come tutte le pause del mondo. Chi prende una pausa, in genere, è per testare il nuovo amante di turno. Se l’amante rende, il vecchio si accantona. Spesso anche senza spiegazioni. Se invece l’amante non dovesse rendere, si torna indietro con la coda tra le gambe, piagnucolando e con la classica scusa del: “avevo bisogno di capirmi”. Forse sono lo strano sono io, che ha sempre saputo tutto e che non ha mai avuto bisogno di una pausa. Ad ogni modo, Pietro ha accettato con un tale menefreghismo questo break d’amore tra lui e Frederick che ho quasi la sensazione che lui non aspettasse altro. Il bar è pieno, come ogni mattina. Prendo il mio caffè lungo e torno in ufficio. Sono arrivati tutti. Frederick incluso. Facciamo in modo di darci un bacio. Un bacio di nascosto dalle due compagne di lavoro che, in tutto questo tempo, non hanno né capito né sospettato niente. Ed io, non ho mai fatto in modo di nascondere niente. Sono distratto. Ho lasciato la mail aperta mille volte e quei messaggi parlavano chiaro. Bastava leggerne uno, per non aver voglia di leggere tutti gli altri. Frederick, sulle nostre mail, non ha mai fatto mistero del sentimento che prova per me. Tra cinque minuti abbiamo una riunione in studio, seguita da un piccolo rinfresco gentilmente offerto dal Direttore di rete. Avrei preferito cinquanta euro in più sullo stipendio, ma si sa, qui c’è crisi. E allora eviti anche di dirlo. Arrivo al buffet per ultimo, assieme alla mia metà, dopo esserci nascosti per cinque minuti nel bagno. In silenzio non abbiamo fatto l’amore. Abbiamo fatto qualcosa che andava oltre. Qualcosa che non aveva niente di volgare. Era una sensazione bella. Certo, se fosse durata un po’ di più sarebbe stato meglio, ma al nord

schizzano come anguille al mercato. In studio nessuno si è accorto del nostro ritardo. Sono tutti indaffarati ad ingozzarsi al tavolino. Quando arriva il nostro turno, sono rimasti solo quei soliti mignon con la glassa rosa sopra. Quelli che non mangia mai nessuno. E che neanche noi mangeremo. Daria sta per iniziare a parlare e affianco a lei ci sono i soliti due, più il Direttore. «Voglio ringraziare tutti, ancor prima di andare in diretta tra qualche ora. Perché il ringraziamento di questa sera, sarà troppo generico. Dovete sapere che il programma ha abbattuto qualsiasi preconcetto della critica. Ha fatto lo share più alto della storia della nostra emittente. Abbiamo avuto ospiti di qualità selezionati da noi, che siamo stati un gruppo di lavoro che chiunque vorrebbe avere. Questa sera la scaletta sarà diversa da quella che abbiamo pianificato ed esposto ieri. La prima intervista sarà quella a Swami, la seconda sarà alla rivelazione dell’ultima edizione di X Factor, Andrea, e poi avremo un talk politico con tutti i segretari dei vari partiti. Abbiamo cambiato l’ordine e abbiamo fatto fuori l’intervista a quell’attrice toscana, perché l’intervista a Swami darà molto da parlare. Piuttosto, ringrazio Valerio che ci ha proposto questo incontro e speriamo porti i risultati sperati. Inoltre, la presenza del Direttore non è casuale, è qui per dirci che se stasera lo share sarà come, o superiore, alle scorse puntate, la nostra Ora D’Aria sarà presente anche nel palinsesto del prossimo anno, con l’aggiunta di altre puntate». Scatta un applauso fragoroso. Tutti sono felici, ed io lo sono un po’ di più. Vuoi o non vuoi, Daria ha ringraziato solo me davanti a tutti . E soprattutto davanti al Direttore. Insomma, soddisfazioni che, sommate a quelle di stamane, alimentano il mio ego. Torniamo in ufficio. Io non ho più niente da fare. Le schede sono state fatte nei giorni precedenti, e credo che nessuno abbia più bisogno di me. Clarissa e Susanna scendono per sistemare il pubblico. Non ho mai capito perché il pubblico debba arrivare quattro ore prima e non ho mai capito come trovi la forza di aspettare tutto questo tempo, senza neanche essere pagato. I vari ospiti cominciano ad arrivare, ma l’unica che dovrebbe essere già qui, non è ancora arrivata. Prendo con molta calma il telefonino e faccio il numero di Swami. «Swami, ma dove sei?» «Amore, ancora a casa. Sono triste e non riesco ad uscire». «Perché sei triste e perché sei ancora a casa, quando dovevi essere già qui?»

«Perché mi mancherà Pepito, casa e sappi che mi mancherai anche tu». «Amore, ti prego. Non prendere altri ormoni per oggi, e sbrigati a venire. Ti hanno cambiata in scaletta, non sarai più l’ultimo ospite, ma bensì la prima ad essere intervistata». «Ma io non me la sento più ….» «Senti Swami, non dirlo neanche per scherzo!» «Scherzavo, finocchione. Sono super eccitata e non vedo l’ora che tu mi venga a baciare, visto che sono nel camerino al piano meno uno, con una truccatrice incapace». «Crepa mezza donna, arrivo». Arrivato al piano meno uno, sento delle grida provenire dal camerino di Swami. «Che succede?» domando a Swami. «Niente, amore, le ho semplicemente detto che con quelle mani può andare a friggere i supplì. Non sa neanche come si sfuma un ombretto. L’incompetenza. L’ho sempre detto che, in questo paese, lo sport nazionale è fare ognuno il mestiere che non gli compete». La truccatrice, nel frattempo, ha lasciato tutti i suoi strumenti di lavoro nel camerino e se ne è andata via piangendo. La mia ex coinquilina, per stasera, ha scelto un abito corto, ma molto accollato e con le maniche lunghe.

Nero lucido. Gambe scoperte, tacchi assassini da mettere in imbarazzo anche una drag queen e dei capelli di un lucido che neanche dopo un gavettone d’olio d’oliva. Swami si impossessa dei trucchi e inizia a sfumare l’ombretto come se quello fosse il suo lavoro principale. «Scusa, Swami, ma Gianluca non doveva venire?» «Si si, è su». «Scusami, ma su dove?» «In studio. In prima fila. Ho chiesto espressamente a quelle ragazze di metterlo dietro a Daria, così potrò guardarlo durante l’intervista. La sua presenza mi tranquillizzerà». «E la mia?» «Mi agiterà». «Ma come?» «Tu stai facendo il tuo lavoro e io non voglio deluderti». «Amore, tu non mi hai mai deluso. Al massimo mi hai conquistato giorno dopo giorno e la tua intervista non verterà minimante sul mio lavoro. Piuttosto, firmami la liberatoria, che ancora non l’avevi fatto». «Non cominciare! Io non firmo proprio niente». «Swami, è una liberatoria». «In che senso?» «Nel senso che autorizzi all’uso della tua immagine per scopi televisivi, a titolo gratuito». «A titolo gratuito io non faccio mai niente». «Eh, lo so».

«Ma c’è sempre una prima volta. La tua prima e l’ultima». Scoppiamo a ridere come due bambini. Scende anche Frederick a salutare la mia amica. Poi, man mano, arrivano tutti. Pietro, Cinzia, Arnaldo, il Direttore di rete e persino Daria. La stessa Daria che non si è mai mossa per andare ad incontrare qualcuno prima della diretta. La verità è che hanno tutti paura di quest’intervista. Conoscendoli, volevano controllare come Swami si fosse conciata per una fascia protetta. Sono talmente tanto impauriti che tutti gli altri ospiti, politici e non, sono stati mandati in un altro stabile. I camerini sono tutti per Swami. Ad un tratto, sentiamo bussare alla porta. E’ Piero, l’assistente di studio. «Buonasera. Dovreste salire. Tra dieci minuti siamo in onda e dobbiamo iniziare a microfonare gli ospiti». «Ok. Arriviamo». Swami si ria il rossetto rosso fuoco, si specchia e mi fa cenno di andare. Non è agitata. E’ il primo ospite che vedo così tranquillo, e la cosa mi spaventa. Mi spaventa perché gli altri ospiti, vuoi o non vuoi, conoscono la tv e i suoi meccanismi. Invece Swami in tv non c’è mai stata. Non sa cosa significhi parlare davanti a tutti e non poter cancellare quello che si è detto. «Amo, ma non hai paura?» le domando mentre saliamo in ascensore per via dei suoi tacchi altissimi. «Io? No. Ho vissuto di peggio nella mia vita, ricordalo sempre». Siamo nel backstage. Qui dietro c’è sempre un’aria molto tesa. Swami si è seduta. Con me, ad attendere il suo ingresso, c’è Frederick. Poi c’è anche Leonardo il microfonista che, dopo averla preparata, sembra avere un microfono lui, ma in mezzo alle gambe. «Bello, non ti avvicinare troppo con questo pisello, che io c’ho la nausea» gli mette subito in chiaro Swami. In studio non vola una mosca. Si sente solo il rumore dell’aria condizionata. Il pubblico è muto. Una voce dall’alto grida: SILENZIO, TRE, DUE, UNO, SIAMO IN ONDA, SIGLA. Il pubblico prende vita e inizia a battere le mani. Entra Daria, dalla parte opposta di dove siamo noi. Stasera è vestita di bianco, come una vergine, e ha un tacco non troppo impegnativo, soprattutto se penso al

confronto estetico che ci sarà tra poco. Daria parla del successo del programma e accenna la storia della prima ospite. Swami si alza. E’ pronta. Sembra una modella. D: «Che entri la prima ospite dell’ultima puntata, Swami!» Il pubblico resta a bocca aperta e, a dir la verità, anche io ci resto. Dal backstage abbiamo il solito minimonitor che ci fa vedere quello che va in onda e Swami, in video, rende meglio di una Belén qualsiasi. S: «Buonasera, Daria, la ringrazio per avermi invitata». Si siedono al tavolo. Una davanti all’altra. Dall’inquadratura dietro Daria si vede anche Gianluca e, per quel poco che lo conosco, credo sia più agitato lui, che me e lei messi insieme. D: «Ci mancherebbe, piuttosto diamoci del tu. Devo dire che sei molto minimal questa sera». Daria e il suo umorismo. S: «Devo dire che la semplicità non è mai stata il mio forte». D: «Hai messo dei tacchi altissimi». S: «Non avrei dovuto?» D: «Non so. Sei già così alta di tuo». S: «E’ una vita che sognavo di mettere i tacchi e ora che ho la possibilità di farlo, perché non dovrei?» D: «Hai ragione. Iniziamo subito a spiegare il perché della tua presenza. Tu non hai aspirazioni televisive e, se non erro, questa è la tua prima volta in video, vero?» S: «Esatto». D: «Sei agitata?»

S: «Io no. Tu?» D: «Io si. Dico la verità. Non tanto per la trasmissione, quanto per quest’intervista. Swami è una transessuale che ha deciso di rompere il silenzio sulla sua esistenza». S: «Non la metterei proprio così. Io ho deciso di rompere un segreto. E non perché io sia una persona meschina, quanto perché ho trovato il coraggio di dire tutta la verità». D: «Comunico ai nostri telespettatori che, per evitare grandi imbarazzi, abbiamo chiesto a Swami di non fare nomi, firmando un contratto». S: «Senza offesa, Daria, ma io non ho firmato proprio nulla». D: «Si, ricordi quel foglio che ti ha portato prima la mia collega?» S: «Io ho visto un solo foglio, portato da un mio amico, circa la liberatoria sulla mia immagine». Daria si guarda attorno e chiede in diretta, a Cinzia e a Pietro, informazioni sul contratto. Cinzia ammette di essersi sbagliata e garantisce di portare un contratto in studio, nel giro di un minuto. In verità, nel backstage abbiamo scoperto che Cinzia aveva falsato la firma di Swami. In diretta, però, a la storia che non era stato presentato alcun contratto a Swami. Mentre Cinzia irrompe in studio con il contratto alla mano, Swami si concede il lusso di poter esprimere un giudizio sulla professionalità di quest’ultima. S: «Lei signorina impari a fare il suo lavoro. In Italia, lo sport nazionale è veramente fare ognuno il mestiere che non gli compete. Ed oggi è già la seconda volta che lo ribadisco». Swami depone la sua firma, Cinzia prende il foglio, si gira e cade. S: «La cattiveria vede cosa fa, signorina?» D: «Torniamo a noi e ripartiamo da zero. Ci racconteresti la tua storia?» S: «Daria, ci vorrebbe un intero palinsesto per raccontare la mia vita. Sono nato

qualche anno fa. Non diciamo quale, perché ci tengo a preservare la mia età. Originariamente mi chiamavo Milton. Sono nato nel corpo sbagliato. Sono romana, di un quartiere periferico. Un quartiere bello per la sua semplicità, ma allo stesso tempo di una crudeltà inaudita. Ho ato i miei primi undici anni a sentirmi dire “frocio”, “rotto in culo”, “culattone”. Ovunque. Nel condominio. Sotto casa. A scuola, e persino in chiesa». D: «In chiesa non ci credo». S: «E’ un tuo problema Daria. Non il mio. Io ho fatto pace con me stessa ed ho imparato a rispettare le storie altrui, senza metterle troppo in discussione. Ti racconto un episodio. Uno dei tanti. Era il mio primo anno di catechismo. Dovevo fare la prima comunione. Ci tenevo più di chiunque altro. Mi piaceva la chiesa. Mi piaceva da impazzire la messa. Devi sapere che nel rito della messa, vedevo uno show. Adoravo ogni mossa, ogni parola, ogni canzone e persino quell’odore d’incenso. Ero sempre in prima fila. La domenica mio padre faceva quasi sempre la stessa cosa. Mi accompagnava a piedi, si assicurava che io entrassi con gli altri bambini e, nell’attesa, andava a farsi una eggiata al parco. A fine celebrazione era sempre li fuori, pronto ad aspettarmi per riportarmi a casa. Si divertiva ad interrogarmi su quello che aveva detto il parroco, ed io non vedevo l’ora che arrivasse quel momento. ate le prime due, massimo tre settimane di catechismo, gli altri ragazzini, sia maschi che femmine, cominciavano a prendermi in giro. Sempre gli stessi epiteti. Spesso anche peggio di quelli che ti ho riportato poco fa. Quindi, da che la chiesa era il mio rifugio, in un nano secondo era diventata il mio peggior nemico, assieme alla scuola. Una domenica, come al solito, mio padre voleva accompagnarmi fino alla porta. Io, in lontananza, vidi che gli altri erano già arrivati e tentai di mandarlo via. Gli dissi “Papi, ok. Puoi andare. Vado da solo”. Mio padre mi guardò perplesso. Non parlava poi tanto, ma era abitudinario. Gli piaceva quel nostro tragitto assieme e, a dir la verità, piaceva molto anche a me. Dopo quella mia richiesta di allontanarsi prima del previsto, mi chiese cosa fosse successo. Ed io, in preda al panico, gli dovetti dire una bugia: “Papà mi vergogno di te. Perché sei pelato.” A lui scese una lacrima. Si girò e mi lasciò da solo. E quel giorno, mi lasciò solo anche a fine messa. Non era mai successo. La verità è che io volevo proteggermi, ma soprattutto dovevo proteggere lui». D: «Proteggerlo da cosa?» S: «Dalle offese, Daria. Se mio padre avesse sentito che mi urlavano “frocio”,

come avrebbe potuto reagire? Io volevo proteggerlo. E volevo proteggere, in un certo senso, anche me». D: «E poi cosa è successo?» S: «Quel giorno finì così. Fino a quando, a undici anni, mi hanno sbattuto fuori casa. Mia madre si era data all’alcool e mio padre sparì qualche mese prima. Di lui nessuno ebbe più notizia. Mio fratello era il mio unico amico. E’ più grande di me di qualche anno, ed era l’unico essere umano che mi difendeva dai pregiudizi e dagli stronzi. Poi un giorno, poco prima che io venni sbattuto fuori casa, arrivarono in piena notte i carabinieri. Lo presero e lo portarono via. Così, dal nulla. Un fulmine a ciel sereno. Nessuno in casa sapeva cosa stesse succedendo, o meglio ancora, perché stesse accadendo proprio a lui. Mia madre spaccò una bottiglia di birra in faccia ad uno di loro, ed io rimasi li. Impietrito. Mi ricordo ancora che avevo degli slippini celesti e una canottiera. Ero magro magro. Facevo quasi schifo. Mi sentivo già talmente tanto donna che mettevo gli slip, presi alle bancarelle, in mezzo alle chiappe». D: «Come sei stata sbattuta fuori casa?» S: «Come tutti gli altri. Come tutti quelli che nascono nel corpo sbagliato, ma anche nella famiglia sbagliata. Mia madre, in preda all’alcool, per poco non mi uccideva. E mi cacciò». D: «E dove sei andata?» S: «Mi dividevo tra casa di mia zia paterna e quella di una mia amica. Poi, ogni tanto, dormivo negli androni dei palazzi. A volte mi trovavano nascosto dietro qualche vaso e, per paura che fossi un ladro o uno zingaro, mi prendevano a calci. Ogni volta che andavo al pronto soccorso avevo il salta fila garantito. Mi conoscevano tutti».

D: «La scuola dell’obbligo non l’hai frequentata?» S: «Daria, ti sembra un paese dove le regole vengono rispettate? Poi, sai, ci sono casi e casi. C’è chi deve rispettare le regole e chi può tranquillamente non farlo». D: «Tuo fratello, invece, come mai è stato arrestato?» S: «Alessandro è stato portato via perché sembra abbia ucciso un uomo». D: «Sembra?» S: «Si, sembra, perché credo che Alessandro stia pagando le colpe di un pesce più grande». D: «Lui ti manca?» S: «Ogni giorno di più». D: «Sei mai andata a trovarlo?» S: «Mai. Non mi riconoscerebbe, ma soprattutto sarebbe molto imbarazzante per me». D: «Perchè?» S: «In questo paese le transessuali sono sempre le ultime ruote del carro. T’immagini cosa potrebbe accadere se mi presentassi in carcere, con questo corpo, e con scritto sul documento il mio nome e il mio vero sesso? Una tragedia». D: «Ti sono mai capitati episodi così spiacevoli?» S: «Sempre. Il più recente, la scorsa settimana in aeroporto. Con una hostess orrenda». D: «E tu cosa hai risposto?» S: «Dopo qualche sua battuta di troppo, le ho detto: “lei non ha mai visto una transessuale? Io si. Tante. Ed è bene che anche lei inizi a cambiare sesso, perché come donna fa veramente schifo”».

Scatta un applauso generale. Daria sorride e manda la pubblicità. Durante la pubblicità entriamo tutti in studio. Io, Cinzia, Pietro, Frederick e la truccatrice, per riare il trucco ad entrambe. Swami non si fa toccare e appena nota l’ingresso di Cinzia inizia a minacciarla con frasi del tipo: “Io ti denuncerò, cretina”. Daria interviene calmando Swami e dicendole che non ne avrà bisogno, perché Cinzia da stasera potrà tranquillamente cambiare mestiere. Dall’alto, la voce richiama l’attenzione di tutti. “Tutti ai propri posti, dieci, nove, otto, sette, sei, cinque, quattro, tre, due, uno in onda”. D: «Eccoci qua. Posso farti una domanda intima?» S: «Certo». D: «Perché non hai scelto di cambiare definitivamente sesso?» S: «Perché non è semplice. Ci sono delle liste d’attesa lunghissime». D: «Quindi sei comunque in attesa di …» S: «Non direi. Il mio pene ha messo sempre d’accordo tutti». D: «E ti piace questo corpo?»

S: «Daria, io sono come la Sirenetta: metà donna e metà pesce. Scherzi a parte, mi piaccio. Tantissimo. Sono in attesa di fare l’intervento. Ma se l’intervento dovesse tardare ulteriormente, lascerei tutto così». D: «Perché?» S: «Perché un conto è farlo da giovane, un conto è farlo quando si a agli “anta” ». D: «Da Roma sei arrivata a Milano. Come mai?» S: «A Roma ho conosciuto un uomo. Un politico. Un millantatore, come tutti gli altri. Mi aveva promesso una carriera nel mondo della comunicazione e dell’immagine del suo partito. Gli ho creduto». D: «E poi?» S: «Ho fatto tutto, tranne che lavorare nel settore della comunicazione e dell’immagine». D: «E cosa ti ha fatto fare?» S: «Nel giro di pochissimo tempo ero diventata la troia del partito. Chiunque veniva con me. Politici. Segretari e bodyguard». D: «E non potevi opporti?» S: «Secondo te non ci ho mai provato? Era impossibile. Dovevo subire in silenzio, altrimenti avrei pagato. E spesso ho anche pagato. Porto ancora addosso i segni». D: «Ora non hai più questa paura?» S: «No. Adesso non più. Oggi ho trovato un uomo. Un uomo con le palle, che mi ha dato la forza di uscire dal mio guscio. Che mi ha dato la forza di sentirmi libera. Un uomo che non mi ha mai fatto sentire una troia. Un uomo che si è innamorato di me. Un uomo che non si vergogna ad uscire con me. Un uomo che

vuole stare solo con me. Un uomo che stasera è qui e che a breve partirà con me». D: «Dove andrete?» S: «In un’ isola lontana. Vivremo per sempre li». D: «Possiamo conoscerlo?» S: «Non vuole palesarsi, Daria». D: «Allora non è vero che non si vergogna …» S: «Non si vergogna, ma rispetta la sua famiglia. Non credo sia carino far vedere in tv che andrà via per sempre con un’altra donna». D: «Ha dei figli?» S: «No». D: «Torniamo a noi. Ora cosa farai con la politica?» S: «Con la politica? Niente, quello che ho sempre fatto. Stasera ho firmato in diretta tv un contratto che prevede il silenzio. Ma io scriverò un libro. Lo farò. Con nomi e cognomi. E, se nessuno lo pubblicherà, mi auto produrrò. La gente deve sapere quello che c’è dietro».

D: «E pensi che la gente non sappia?» S: «Non credo, visti i tanti voti che hanno preso in quel partito». D: «Ti manca tua mamma?» S: «No. Mi manca mio padre». D: «A chi devi dire grazie?» S: «Al mio uomo, al mio chirurgo per avermi resa così bella e al mio coinquilino, nonché tuo redattore, Valerio Falabella. Un ragazzo straordinario. Professionale e molto preparato». D: «Quando partirai?» S: «Tra qualche giorno». D: «E cosa porterai con te?» S: «Come disse Vasco Rossi: “la voglia di non tornare più”». D: «Noi te l’auguriamo. Auguri Swami». S: «Grazie, Daria». Il pubblico batte le mani e le due prime donne si salutano affettuosamente. Daria manda la pubblicità. Gianluca, anche se non dovrebbe, si alza dagli spalti e raggiunge Swami. Escono insieme. Mentre si dirigono verso l’uscita, il pubblico le stringe la mano e le fa i complimenti, augurandole il meglio. Qualcuno le chiede anche un selfie. E lei ci sta. Già vedono in lei un nuovo volto televisivo. Daria viene nel backstage per una sigaretta, per bere un bicchiere d’acqua liscia e per licenziare, davanti a tutti, Cinzia. «Cinzia, sei ancora qui? Il tuo contratto finisce ufficiosamente oggi, ma non sperare minimamente in alcun rinnovo. Ringrazia Swami che non ti ha denunciata per come ti sei comportata». Cinzia si volta e scappa via, come accade nei telefilm americani, mentre Daria, come nella miglior commedia natalizia, mi chiede di prendere il suo posto. Il

gelo. «Pensaci». Poi si volta e torna in studio. Saluto Swami e Gianluca. Non posso dilungarmi e ci facciamo il segno di salutarci per bene dopo, ma entrambi sappiamo che il dopo sarà abbastanza relativo. Perché il dopo non ci potrà essere. Frederick sta seguendo la diretta, ed io resto con Pietro. «Valerio, non fare cazzate. Occasioni come queste non capitano più. Daria lavora in radio e in tv. Sarebbe un gran trampolino di lancio per te». «Pietro, io sto per partire». «Stai andando a Roma, non a New York». Ed è quello che pensi tu. Purtroppo. Ma io ora come faccio? Cosa dico a Frederick? Ho inseguito per una vita l’amore ed una volta che l’ho trovato cosa faccio? Affogo tutto? No. Non posso. Non è da me. «Pietro, hai ragione. Posso prendermi qualche giorno per pensarci?»

«Certo. Tanto ora Daria va in ferie per un mese. Hai tutto il tempo per pensarci, ma non fare stronzate». Pietro se ne va e, come in un film già visto, ecco arrivare Frederick. «Amore, ma che succede? Perché c’era Pietro? L’intervista a Swami è stata bellissima». «Perché Daria ha licenziato Cinzia e mi ha chiesto di prendere il suo posto». «Ma questa è una notizia meravigliosa».dice Frederick, con la faccia di uno che dice quello che non pensa. «Lo è. Ma io ho scelto di venire via con te e quello farò». «Ma sei sicuro?» «Certo amore».

17 NON E’ STATA COLPA MIA

La trasmissione è andata. La festa di fine produzione, pure. Siamo rimasti in pochi. L’alcool ci ha storditi, ma io, stranamente, non ho dato nessuno spettacolo. Mi sono contenuto. Daria, piuttosto, si sta scatenando come non avrei mai immaginato. Balla senza contegno sulle note di Gianna di Rino Gaetano e anche lei cade nel tranello di cambiare “evviva la vita” con “evviva la fica”. Frederick è poco distante da me. Sta parlando con Pietro. Con un Pietro particolarmente su di giri. Immagino che la sua ione per il cocco stasera non sia rimasta nascosta, anzi. E a dir la verità non credo sia l’unico. Non riesco a sentire cosa si dicono, ma credo di poter immaginare che stiano parlando dei loro cani. Frederick, per il momento, lascia la sua cucciolona limited edition a Milano. Io non riesco a capacitarmi di come un padrone possa lasciare il suo piccolo amore lontano da casa. Ma faccio silenzio. Sono cose troppo personali, e non è giusto che io mi metta a far polemica. Mentre sta per partire “Bella ciao” nella versione dei Chumbawamba, mi arriva un sms: “In trasmissione non siamo riusciti a salutarci come avrei voluto. Ma tra noi non credo ci sia più bisogno di parole. Basta uno sguardo. Non perdiamoci. Swami. Nb: questo è il mio nuovo numero “. Swami ha cambiato vita, uomo e numero. Le risponderò dopo, nel tragitto studi - aeroporto. Daria si sta calmando e mi fa segno di seguirla. Saliamo le scale per raggiungere i nostri uffici. Entriamo nel suo e lei chiude la porta alle nostre spalle. «Mamma mia. Non ho più l’età per sbattermi così»mi confessa una Daria visibilmente stravolta. «Siamo tutti stravolti oggi». «Valerio, io non mi sono dimenticata di quello che ti ho detto prima. Non è stata una proposta come quelle che hanno fatto a Swami negli anni. Tra l’altro mi ha scritto il Direttore di rete. A detta sua l’intervista è andata alla grande e siamo stati per tutta la serata tra le top tendenze di Twitter». «Soddisfazioni».

«Si. Lo sono anche per me, grazie al mio nuovo staff. Tu sei stato la mia più grande rivincita. Non volevo prenderti. Per nulla al mondo. Sono sempre stata contro ogni raccomandazione, ma questa volta anch’io ho dovuto abbassare la testa. Pensi che l’intervista di Swami mi abbia aiutato stasera?» «Non saprei» «La risposta te la svelo io: no. Probabilmente pagherò qualcosa per quest’intervista, nonostante nessun nome sia stato fatto. Ma io ho creduto sin da subito in quella storia e in quella persona. E’ stato il riscatto di chi si è sempre dovuto piegare al volere degli altri». «Come non darti ragione». «Valerio, io vorrei continuare a lavorare con te. Cinzia è stata una grande delusione. Aveva la possibilità,

con me, di fare molta strada. Ma nella mia vita chi sbaglia paga. Ed io non concedo seconde chance». Solo in questo momento mi sto accorgendo di quanto io e Daria siamo simili. Ho sempre pensato a lei come ad una persona algida e priva di sensibilità, e invece sbagliavo. Inoltre, entrambi non concediamo seconde chance a nessuno. «Io ora partirò. Andrò a fare un viaggio di un mesetto in Birmania. Ho affittato una casa in mezzo alla natura e li scriverò il mio nuovo romanzo. Al mio rientro, mi farebbe piacere trovarti qui». «Daria, io sono onorato di questa proposta e cercherò in tutti i modi di non deluderti. Sto tornando a casa. Dammi il tempo di pensarci su». «Non capisco come mai tu ci debba pensare chissà quanto, ma rispetto i tuoi tempi e spero che il tempo non ci separi». Daria mi abbraccia forte. Un abbraccio bello, positivo e pieno di energia. Ci salutiamo e ci facciamo un in bocca al lupo generale. Esco dalla sua stanza e vado nel mio ufficio, con l’intento d’iniziare a sistemare le valigie. Apro la porta e Frederick è già li. Pronto e con tutti i bagagli radunati. «Amore, ho già preparato tutto. Il taxi arriverà tra venti minuti circa». «Sei un uomo da sposare». «E tu mi sposeresti?» ».Chi può dirlo? Ad ogni modo, senza brillocco al dito, io non direi mai “SI” a nessuno. Ricordatelo». «Venale». Portiamo tutto giù. Io non saluto nessuno. Anche perché, a dirla tutta, io non vedo più nessuno. Va beh, come direbbero a Roma (e non solo), ‘sti cazzi. Ho salutato il pezzo più importante, tutto il resto è superfluo. Il taxi arriva. E’ la solita Multipla, tanto brutta quanto comoda. Carichiamo talmente tanto la macchina che siamo costretti a metterci uno davanti, vicino il taxista, e l’altro dietro. Io ovviamente sto dietro. Nel percorso, mi perdo come sempre tra le luci arancioni dei lampioni. Li fisso tutti, uno dopo l’altro, e penso a delle cose senza

senso. La mia testa va. Sono stanchissimo e gli occhi provano a chiudersi. Intanto Frederick dal sedile davanti fa are la sua mano sui miei polpacci. Poi sulle ginocchia fino a prendermi le mani. A me quel piccolo gesto mi sta dando una tranquillità mai avvertita prima. Non c’è bisogno di striscioni, di dediche alla radio, di lettere, di pupazzetti e di regali inutili per tranquillizzarmi. Mi basta una carezza. Mi basta un abbraccio o un semplice bacio. Come a voler dire sempre: “io ci sono”. E questo Michele non l’ha mai capito. Arriviamo in aeroporto. Siamo in anticipo di tre ore. Imbarchiamo i bagagli, senza provare l’ebbrezza di avvolgerli in quel cellophane fluorescente. Io, se fossi un ladruncolo qualunque, non ci penserei due volte su quale valigia scegliere. Quelli che le avvolgono lasciano pensare che dentro ci sia qualcosa di valore, soprattutto rispetto alla mia, che non ha neanche il lucchetto o il codice segreto. Ci sediamo su quelle orribili sedute d’acciaio e mettiamo la sveglia per paura di non alzarci per tempo.

Appoggio la testa sulla spalla sinistra di Frederick e crollo. La sveglia suona. Siamo sudati, fradici. Gli altri eggeri sono già tutti in fila. Non smetterò mai di chiedermi perché, a gate ancora chiuso, i eggeri siano già in fila. I posti sono assegnati, ovunque. Usciamo dal gate e iniziamo a fare quel classico pezzetto a piedi, all’aperto, che conduce alle scale dell’aereo. I finger ultimamente, in Italia, sono ati di moda. Nel fare quel breve tratto a piedi, solo io potevo avere la fortuna d’imbattermi contro una stronza sbandieratrice da pista di atterraggio. Con quelle mani snodate che neanche Natalia Estrada ai tempi del Cynar, mi da una botta sulla mano destra ed io, che ho sempre il vizio di avere il cellulare in mano, lo faccio volare per aria. Realizzo che sta per cadere a terra, proprio sopra il tombino e, per fermarlo, allungo il piede. Riesco a riprendere il cellulare, ma oramai è troppo tardi. E’ in mille pezzi. Lo schermo è in frantumi. La signorina non si è neanche scusata e Frederick, per calmarmi, mi ha promesso di portarlo in assistenza a Rovaniemi. «Sei sicuro che c’è una clinica per gli iPhone dalle tue parti?» gli domando con l’atteggiamento di uno che ha appena perso un familiare. «Ricordati sempre che se intorno a te c’è un Mc Donald’s, c’è tutto». La prendo per buona e taccio. Disperato, ma taccio. Vorrei raccontare il mio viaggio, con tanto di scalo. Ma non mi ricordo niente. Ho fatto di tutto per mettermi dal lato finestrino, e non ho visto nulla. Neanche la partenza. Penso d’aver dormito sempre. Anche quando sono sceso. Speravo solo che la storia del mio iPhone fosse un brutto incubo, invece era tutto vero. Quando ci alziamo, Frederick mi fa notare la chiazza bianca che ha sul maglioncino nero. E’ la mia bava. Sorrido e penso, dentro di me, che non è colpa mia se mentre dormo sbavo come i molossoidi. Usciamo dall’aereo e i bagagli, mai successo in tutta la mia vita, sono già al loro posto. Nell’aeroporto si respira un’aria sin troppo natalizia, ignorando il fatto che siamo ampiamente fuori stagione. Sono tutti sorridenti e, a dir la verità, mi sembrano tutti deficienti. «Scusami Frederick, ma perché c’è ancora tutto questo clima natalizio?» «Perché qui è sempre Natale». «Ah, ecco». Io non ho un gran rapporto con le feste. Roba che, quando si avvicina il 24

dicembre, il mio desiderio ricorrente è sempre quello di morire e di risorgere il 7 gennaio. Per arrivare alla nostra nuova casa dobbiamo prendere il pullman appena fuori l’aeroporto. I genitori di Frederick se ne sono altamente fregati del nostro arrivo in città. «L’aeroporto dista circa dodici kilometri da casa. Ci metteremo una ventina di minuti». Queste sono le ultime parole pronunciate da Frederick, prima di uscire dall’aeroporto di Santa Claus. Fuori fa un freddo boia. Per la prima volta posso dire veramente un freddo polare, visto che sono proprio qui. Solo che stavolta, dopo polare, devo aggiungere artico. Io sono vestito per affrontare il freddo, ma non per tutto questo freddo. Neve. Vedo neve ovunque. La gente mi guarda e sorride. Non capisco il perché. Mi guardo nel finestrino del pullman per notare se è tutto sotto controllo, ma non noto niente di strano. Ho solo un look che ricorda un po’ troppo un tesserato qualsiasi del PDL. Il viaggio in pullman procede, ed io sono costretto a tenere gli occhi chiusi. Con tutta questa luce bianca intorno rischio di diventare cieco. Arriviamo alla nostra fermata. A guardarla da fuori, la casa del mio amore, sembra una di quelle casette delle favole. Una di quelle case dei tre porcellini che, con un soffio di vento, volerebbe via. Entriamo. E’ meno grande di quel che pensavo. E’ su due livelli: sotto i genitori e sopra noi. Sembra proprio la classica casa da neve. Da film di Natale. Parquet ovunque. C’è un piccolo camino nel luminosissimo salone, all’angolo un tavolo da lavoro con pc, stampante e macchina da scrivere. Poi c’è una cucina non troppo grande, un bel bagno abitabile e una camera da letto con tanto di tetto spiovente. La prima cosa che facciamo è un bel bagno caldo, per riscaldarci. Una volta vestiti, ci buttiamo un po’ sul letto. Facciamo l'amore e poi decidiamo di fare un giro per la città. I genitori di Frederick sono a lavoro e sicuramente non li vedremo prima di questa sera. Il centro di Rovaniemi è vicino casa. E’ bello. C’è un po’ di tutto. H&M, Zara, Berskha, Oysho e pure Tiger. Babbo Natale, invece, è ovunque: sul bus, in aeroporto, nei ristoranti, al bar, sui manifesti, sui cartelli stradali e persino nelle toilette a pagamento, ad indicarti dove devi fare la pipì. Alla fine rischi di rimettere in discussione anche la sua esistenza talmente sembra tutto così vero. Poi, magicamente, mi appare davanti gli occhi un Mc Donald’s. Io non sto pensando ai panini, ma a quello che Frederick mi aveva detto a Milano: “Ricordati sempre che, se intorno a te c’è un Mc Donald’s, c’è tutto”.

«Amore, il Mc Donald’s c’è. E una clinica per gli iPhone?» «Chiudi gli occhi». «Chiusi». «Ora stai buono, che ti guido io». Frederick, in pieno centro città, e soprattutto davanti a tutti, mi sta facendo camminare con le sue mani davanti agli occhi, guidandomi solamente con la voce. Avanti. Indietro. Destra e Sinistra. «Ora esprimi un desiderio». «Fatto». «No, devi farlo a voce alta». «Ma se lo dico a voce alta non funziona». «Chi te l’ha detto?» «L’ho letto». «Allora dimentica quello che hai letto e dimmi il tuo desiderio a voce alta». «Rivoglio il mio iPhone».

«Ma come! Io pensavo mi dicessi “voglio sposarti"» «Prima l'iPhone , poi tutto il resto». Frederick toglie le mani dai miei occhi ed ecco materializzarsi una clinica specializzata per riportare in vita la mia vera metà. Entriamo, lasciamo un acconto ed il tecnico, in una lingua poco comprensibile, ci dice di tornare domani mattina. Non ci voglio credere. Un giorno senza cellulare è come essere abbandonati nel bel mezzo del nulla. «Frederick, ma in che lingua parlava quel signore?» «La lingua dei Sami». «Ma non mi avevi detto che qui si parla l’inglese?» «Si si. Il signore ha visto me ed ha dato per scontato che lo capissi. Sai, qui ci conosciamo tutti, o quasi». «Quanti abitanti ha Rovaniemi?» «Non più di sessantaduemila». «E tu conosci tutte queste persone?» «Ma no, però sai come si dice, le facce sono sempre quelle». «Torniamo a casa, ti prego, che non mi sento molto bene» «Cosa hai?» «Freddo». Qui il freddo sarà pure secco, ma io non ce la faccio. Mi sta prendendo una crisi isterica. E’ vero che ho sempre preferito la montagna ad Ibiza, ma qui è tutta un’altra storia. Faranno, come minimo, -13 gradi. Sono ate poche ore dal mio arrivo e già mi manca tutto. Sarà che non ho il cellulare, sarà che non mi sento a casa, sarà che ho fatto il viaggio dormendo, sarà che mi manca Swami, sarà che penso sempre a Michele, sarà la proposta di Daria e sarà anche che non sopporto più neanche Frederick. Ho fatto tutto troppo di fretta. Ho fatto l’errore

di rimettermi subito in gioco, quando potevo starmene beatamente per i cazzi miei. Torniamo a casa. I genitori sono rientrati e stanno già iniziando a preparare la cena. Sono solo le 18:30. Entriamo e ci accolgono con lo stesso entusiasmo di quando un parente alla lontana ti chiede di essere ospitato per più di tre giorni. Ci salutano con un timido abbraccio e abbozzano, ogni tanto, qualche sorriso forzato. Eppure a Milano, per quel poco che li ho visti, furono così carini. Nessuna domanda del tipo “come è andato il viaggio?” o “ti piace la città?”. L’indifferenza più totale. Forse sarà solo questione di timidezza. «A che ora mangiano i tuoi?» «Per le 19, massimo. Alle 19.30, in genere, già dormono». Aiuto Frederick ad apparecchiare la tavola. C’è un silenzio quasi fastidioso. Mi sento di troppo. Il padre mi fissa e la madre cucina, dandomi le spalle. La tv c’è, ma è spenta. Ci sediamo a tavola e iniziamo a mangiare un piatto unico. Un tagliere con due spicchi di frittata semplice, un mix di formaggi accompagnati da marmellate locali, quattro fette di carpaccio di renna e cubetti di salmone non affumicato. Tutto gradevole, ma per colpa di questo clima casalingo non riesco a gustarmi niente. A tavola padre, madre e figlio iniziano a parlare tra di loro. In inglese, per carità, ma io non riesco a stargli dietro. Purtroppo il mio inglese non va molto lontano dal: “Can I help you?”. «Amore, i miei mi stanno chiedendo una mano per domani. Dovrò aiutarli per dei lavori. Ti dispiace se ti lascio solo?» «No, stai tranquillo. Anzi, ne approfitterò per andare a cercare lavoro in qualche negozio». «Hai visto che sopra abbiamo un PC fisso e una stampante?» «Davvero? Non ci avevo fatto caso» la mia falsità. Il PC è stata una delle prime cose che ho notato al nostro arrivo. La cena dura meno del previsto e tra un bicchiere di vino, senza un panino, i genitori ci fanno sapere che stanno per andare a letto. Come a voler dire: andatevene pure … al piano di sopra. Noi ci alziamo, li ringraziamo e prima di salire, Frederick mi chiede di accompagnarlo in un posto. «In macchina vero?»

«No, a piedi». «Ma con questo freddo?» «Ci metteremo pochissimo e poi devi abituarti a questo clima Vale». Usciamo talmente tanto imbacuccati che saremmo in grado di metter paura anche ad un animale affamato. Camminiamo da più di cinque minuti e ancora non siamo arrivati, quando ad un tratto Frederick mi afferra le mani e guardandomi negli occhi mi fa: «Guarda il cielo». «Lo vedo». «Che ne pensi?» «Che un altro minuto qui e ci resterò per sempre». «In che senso?» «Sto gelando». «Un minuto e andiamo. Non ricordi cosa mi hai detto quella sera a Milano?» «No». «Lo vedi? non dai importanza a quello che dici!» «Frederick, faranno come minimo 20 gradi sotto zero. Il mio cervello, in questo momento, non ragiona bene». «Io non ti porto a casa fino a quando non ti ricordi».

«Ed io ti uccido». «Uccidimi, ma sappi che qui non è come in Italia». «In che senso?» «Qui in galera ci finisci sul serio». «Immagino». «Dai, ti aiuto ad arrivarci. Eravamo al Duomo e parlando di metafore …» «Ah, ti dissi “che te ne fai di un cielo senza stelle”?» «Esatto. E guarda dove ti ho portato?» Alzo di nuovo gli occhi al cielo, e stavolta resto davvero senza parole. In un attimo tutto a. Anche il freddo. Sopra di me c’è un mondo. Non avevo mai visto tante stelle così vicine e così luminose. Fanno quasi impressione. Frederick si avvicina, mi stringe forte, mi bacia e mi dice all’orecchio quello che in questo momento non avrei mai voluto sentire: “TI AMO”. Un ti amo, quando non ricambiato, a come una minaccia. a come una come una pugnalata alle spalle. Un ti amo, quando è a senso unico, ti carica di responsabilità, ed io in questo momento non voglio più avere responsabilità. Ci baciamo. Lui chiude gli occhi, mentre io li tengo aperti. Li tengo ben aperti, con la speranza di vedere un orso all’orizzonte ed avere così la scusa pronta per scappare. Torniamo a casa perché anche Frederick, non più abituato a certe temperature, capisce che sta veramente facendo troppo freddo. Lui si mette a letto, mentre io gli chiedo il permesso di usare il PC. Lui crede che io stia scrivendo ai miei contatti di Facebook. Ma crede male. realtà sto cercando il biglietto per tornare in Italia. Per tornare a Milano. Voglio fuggire. Questa non è casa mia, ed io non posso più permettermi di stare male. Trovo un solo posto rimanente per domani. Partenza alle ore 13, con arrivo a Milano alle ore 19. Il prezzo è di 499euro. Troppo. Troppissimo, ma poco importa. Avrei speso anche di più. Stampo la carta d’imbarco e la nascondo nel mio portafogli. Mi metto a letto senza neanche sbirciare i social. Frederick ha già raggiunto Morfeo da un pezzo. Russa come il bulldog inglese che ha lasciato a Milano. Suona la sveglia di Frederick. Saranno le 8. Si alza, si lava, mi bacia pensando

che io stia ancora dormendo, e se ne va. Dalla finestra del salone mi accerto che, insieme ai suoi genitori, si allontani sul serio. a la loro macchina e inizio a tirare un sospiro di sollievo. Mi faccio una doccia, mi vesto di corsa e raggiungo il punto dove ieri ho lasciato il mio iPhone. Il dipendente, che non era lo stesso di ieri, mi riconsegna il cellulare informandomi, con un inglese improbabile da parte di entrambi, che la mia Sim, nella caduta, deve essere volata via. Non me ne frega niente. Tornato in Italia ci ripenserò. Pago e mi sbrigo a tornare a casa. Prima di uscire lascio, sul tavolo del salone, una lettera con su scritto: “Scusami Frederick. Non è colpa mia. Torno in Italia. Non mi odiare. V”. Riprendo le mie valigie, che grazie a Dio non avevo disfatto e torno alla fermata del pullman di ieri. Sono finalmente sull’aereo che tra qualche ora mi riporterà a Milano. Non mi sento in colpa. Ho smesso di sentirmi in colpa. La verità è che per una vita ci hanno voluto far credere che il benessere fosse solo insieme ad un’altra persona. Che la vecchiaia in solitudine è brutta e che senza figli sei e sarei sempre solo al mondo. Ci hanno voluto far credere che in due si può scalare il mondo, mentre da soli non si può fare niente. Ci hanno imposto feste come San Valentino e persino una firma davanti al Signore per giurarsi amore eterno. Forse a queste verità ci ho creduto solo io. Colpa dei film. Colpa dei libri. Non lo so. Ma la verità è che, per la prima volta in tutta la mia vita, non mi sono mai sentito così bene. Mi sento sereno con il mondo, ma soprattutto con me stesso. Oggi, se mi guardo allo specchio, non mi riconosco più. Alla faccia di chi dice che, arrivati ad una certa età, non si cambia più. E’ una vita che trascino storie e persone. Provo a modificarle. A plasmarle a mio piacimento. Ma la verità è che le persone non cambiano. Al massimo peggiorano. Ed io non voglio più persone che peggiorino, per me e con me. L’amore deve togliere, e non dare, paure, fobie, ansie e gelosie. Per una vita ho taciuto, per quieto vivere. Da oggi non voglio più tacere e non voglio più pensare al quieto vivere. Non voglio rendere conto a nessuno e non voglio neanche più nessuno che renda conto a me. L’amore ha la scadenza, come lo yogurt, e le scadenze non fanno per me.

18 ADDIO

Ti rendi conto di essere tornato in Italia quando capisci che i tuoi bagagli sono andati persi. L’apprendi per deduzione, perché ovviamente non c’è nessuno che ti avvisi o che ti assista. D’altronde, Valerio, ricordati: sei in Italia, mica a Rovaniemi. Aspetto da ore, davanti al nastro trasportatore, che arrivino i miei bagagli. Lentamente compaiono quelli di tutti. Tranne i miei. Borse e valigie di ogni tipo, di ogni marca e di ogni colore. Vado allo sportello della mia compagnia e, con tanta tranquillità, mi fanno compilare un modulo chiamato PIR, nel quale devo ufficializzare il mio reclamo. Abituato ormai a scrivere solo con il cellulare e con il computer, faccio una grande fatica ad impugnare una semplicissima biro. Mi fa male la mano, cavolo. Ci metto troppo tempo, anche a formulare una frase di senso compiuto. Riconsegno il modulo compilato per bene, ma privo di recapito telefonico. Vorrei spiegare il tutto all’hostess di terra, ma lei è troppo impegnata a giocare con il suo smartphone. Quando si degna di ascoltarmi, m’interrompe almeno dieci volte. Non una, ma dieci. L’hostess mi chiede la carta d’imbarco e le ricevute dei bagagli. Ma stavolta c’è un piccolo problema, oltre quello dei miei bagagli smarriti. Io ho il maledetto vizio di buttare via la mia carta d'imbarco. Chi ha mai pensato che potesse servirmi di nuovo, una volta atterrato? Non ho mai perso niente in vita mia, ma c’è sempre una prima volta. Anche quando non è colpa mia. Maledetti. Per ironia della sorte, tutto fila liscio fino a quando l’hostess non m’informa che, sul modulo PIR, manca il mio recapito telefonico. «Mi scusi, ma se non ci lascia un recapito, come la contattiamo?» «Ho provato diverse volte a comunicarle il mio problema, ma lei mi ha interrotto almeno dieci volte». «Ah, quindi è colpa mia se non ha scritto sul modulo il suo numero telefono?» «No, non è colpa di nessuno. Ho perso la Sim e qui a Milano sono solo». «Lei non è fidanzato?»

«No». «Non ci credo». «Mi dispiace che non mi creda, ma capita. Lei è fidanzata?» «No». «Vuole fidanzarsi con me?» «Dice che ne vale la pena?» «No, affatto. Mi creda. Sono un perdente nato. Senta, idiozie a parte, come dobbiamo fare per il numero?» «Deve darmene uno. Punto».

«C’è un punto Vodafone in questo aeroporto?» «Si. Ed è anche qui vicino». «Bene. Posso andarci per farmi dare una scheda nuova, senza correre il rischio di tornare e di non trovarla più?» «Un’altra ora, e poi devo andare a zumba». «Spero di impiegarci meno di un’ora». Corro al Vodafone store. Arrivo e, grazie a chissà quale dio, non c’è nessuno. Spiego il mio problema, senza aggiungere quello dei bagagli. Capiscono al volo e mi danno una micro Sim nuova, sulla quale, nelle prossime ore, trasferiranno il mio vecchio numero. Torno dall’hostess di terra, tanto brutta quanto simpatica. Compilo la parte mancante, spiegando che il numero sarà attivo tra qualche ora. Accendo il telefono e, magicamente, il numero è già funzionante. Un sogno. Bentornato in Italia, Valerio. Mi sento a casa. Cominciano ad arrivare miliardi di sms, di “ho chiamato alle ore” e una valanga di notifiche da tutti i social di questo mondo. Il tutto capitanato da un trillo continuo di notifiche di WhatsApp. Maledetto me e il giorno in cui l’ho scaricato. Arriva una chiamata. Un numero che non conosco. Non vorrei rispondere, per paura di dover affrontare un eventuale isterismo di Frederick, ma guardando bene il display capisco che il numero è italiano. E’ un fiso. Inizia con lo 02. Rispondo. «Pronto?» «Ma dove cazzo sei????» mi grida una voce nuova dall’altro lato della cornetta. «Sarebbe più carino che ti presentassi, prima di sbraitarmi contro!» «Sono Gianluca. Hanno ucciso Swami. Hanno ucciso Swami. Cazzo. Cazzo». Cade la linea. Non capisco. O forse non voglio capire. Provo a rifare il numero. Ma non riesco. Il cellulare si è impallato. E’ come se non riuscissi a chiudere la conversazione, nonostante sia accidentalmente caduta già da qualche secondo. Si sblocca il tutto e richiamo. «Gianluca, ma che succede?»

«Non so un cazzo. Stamattina hanno ucciso Swami» mi risponde con una voce straziata dal dolore. «Ma che cazzo dici! Voi non dovevate essere già partiti?» «Siamo stati costretti a posticipare il volo di quattro giorni». «E poi?» «Stamattina Swami è uscita dall’hotel per andare dal parrucchiere, in Corso Buenos Aires. Io non ero con lei, perché sono dovuto andare in agenzia a sistemare questa scocciatura. Quando all’improvviso mi chiama Paolino, il suo amico, il parrucchiere, che mi chiede disperato di raggiungerlo al salone. Non capivo il perché, ma avevo percepito che fosse successo qualcosa. Non riuscivo a chiedergli niente di più perché piangeva e singhiozzava. Cercavo di tranquillizzarlo, dicendogli che di li a poco sarei arrivato. Arrivato sul

posto, non ho retto il colpo e sono svenuto, battendo forte la testa. Ho riaperto quasi subito gli occhi. Non capivo un cazzo. Ho visto tanta gente, due auto della polizia e i portelloni dell’ambulanza aperti. Hanno ucciso Swami. Era coperta da un lenzuolo bianco. Stavano aspettando l’arrivo del medico legale per portarla via. Non mi facevano avvicinare. Non credevano che io potessi essere il suo compagno. Per la foga di oltreare la parte recintata, ho fatto a pugni con un poliziotto e mi sono buttato, piangendo, sul suo corpo. Swami non c’è più Valerio! Swami è stata uccisa!». Piango. Piango come un bambino. Piango come un adulto. Piango. Piango e piango ancora. Non riesco a parlare. Non riesco a dire niente. «Valerio, ci sei?» «Si» rispondo con lo stesso tono di Gianluca, e aggiungo: «chi è stato?» «Non lo so, Valerio. Sarà stato qualcuno mandato da quelle sue belle frequentazioni. L’altra sera, Swami ha detto in tv di voler scrivere un libro, e ha pagato lo scotto di aver parlato. La sua verità sarebbe stata troppo scomoda e l’hanno ammazzata. Me l’hanno ammazzata. L’hanno portata via da me. Voglio morire anch’io. Voglio uccidermi. Voglio raggiungerla». «Non dire cazzate. Dove sei?» «In hotel, nella nostra stanza». «Dammi l’indirizzo». «Via Alessandro Tadino snc». «Arrivo subito». «Ma non sei partito?» «Lascia stare. Non fare cazzate e aspettami». Prendo il primo taxi e mi faccio accompagnare a destinazione. Il taxista mi comunica che ci vorranno circa dieci minuti. I dieci minuti più lunghi di tutta la mia vita. Tra una lacrima e l’altra, mi faccio forza. In questo momento non so

cosa fare. Ogni cosa risulterebbe superficiale e scontata. Potrei chiamare chiunque, ma l’unico numero al mondo che mi viene da comporre è quello di Michele. Si, lui.

RINGRAZIAMENTI

Voglio ringraziare te, lettore amico che, acquistando questo libro hai contribuito a pagare le mie bollette. Voglio ringraziare di nuovo Michele, quello vero. Voglio ringraziare mia madre e mio padre che non hanno mai smesso di lasciarmi fare quello che volevo. Voglio ringraziare Martina, un’amica, un’assistente, una donna e soprattutto una ragazza single da impalmare. Voglio ringraziare Patrizia Morfù per la dolce copertina e tutti i miei amici per avermi assistito in questi mesi di “chiusa”. Voglio ringraziare mia sorella per avermi detto “questo libro fa ridere” quando io speravo fe piangere. Voglio ringraziare mio fratello che, conoscendolo, non saprà neanche dell’esistenza di tutto ciò. Voglio ringraziare la mia vicina per avermi dato tanta ispirazione nelle sue notti isteriche e voglio anche ringraziare Cinzia, augurandole un’amica invadente nella sua futura storia d’amore. Ah, voglio ringraziare anche Valerio, quello vero, per avermi ispirato, da sempre, tanti pensieri inenarrabili. Questo libro era un sogno. Ora, non lo è più. Alessio

Indice

CHE TE NE FAI DI UN CIELO SENZA STELLE? 1 CONFESSIONI 2 PAOLO FOX TI ODIO 3 LA CINA SI AVVICINA 4 L’APPUNTAMENTO 5 MILANO » ROMA 6 INCROCI 7 INDOVINA CHI VIENE A CENA 8 PRESENTE 9 L’APE(ritivo) 10 DIMMI CHE NON E’ VERO 11 L’ESOTERICO 12 IL DEBUTTO 13 #CUOREINGOLA 14 RICORDATI DI ESSERE FELICE 15 CI SIAMO (quasi) 16 COME IN UN FILM 17 NON E’ STATA COLPA MIA

18 ADDIO RINGRAZIAMENTI